L'agente Arnaldo Trevisan

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    Il 16 maggio 1988 di fronte alla stazione ferroviaria di Padova veniva barbaramente trucidato da un rapinatore l’Agente della Polizia di Stato Arnaldo Trevisan. Quella mattina Arnaldo e Rossano, componenti la Volante 1, avevano intercettato un rapinatore che poco prima aveva assaltato armi in pugno assieme ad un complice l’ufficio postale della vicina via Lando. Costui, dopo una fuga a piedi, aveva trovato rifugio all’interno di un autobus della linea “3” in partenza dal piazzale della stazione, tentando di confondersi tra i passeggeri. All’arrivo della Volante, mentre Rossano effettuava una ricognizione del piazzale, Arnaldo individuava il balordo sull’autobus. Nel farlo scendere, l’assassino fu più rapido di lui e scaricò l’intero tamburo di una 357 Magnum addosso al Collega.

    Questo articolo si rende necessario al fine di chiarire meglio una delle pagine più nere della Questura di Padova: una sequenza di eventi tragici che a distanza di tanti anni fa ancora discutere. Non abbiamo certo la presunzione di risolvere uno dei rebus tuttora irrisolti, ma solo l’onestà intellettuale di offrire una ricostruzione di quel giorno che sia la più obiettiva possibile, senza nulla nascondere anche quando la posizione investigativa si fece più scomoda. Per questo le uniche fonti utilizzate sono state gli atti processuali e il raffronto delle testimonianze e delle cronache delle testate giornalistiche più accreditate. Abbiamo scelto quindi di adottare lo schema della cronologia per rigore di precisione.


    trevisan1




    QUEL MALEDETTO LUNEDI’ NERO

    di Gianmarco Calore




    Le premesse della tragedia si compiono nella notte tra domenica 15 e lunedì 16 maggio 1988: marito e moglie stanno facendo rientro a casa quando la loro vettura (una Range Rover) entra in collisione con due ragazzi in bicicletta che cadono a terra. Quando il conducente scende per verificare il loro stato di salute, viene attinto al volto da uno spray urticante che lo mette fuori combattimento. Stessa sorte tocca alla signora. I due si dileguano con il fuoristrada facendo perdere le loro tracce. I coniugi furono entrambi concordi nel testimoniare che i rapinatori indossavano rispettivamente una parrucca nera e un berrettino tipo “spaventapasseri” ben calcato sulla testa.

    Arriviamo quindi a quel lunedì mattina: 16 maggio 1988. Me lo ricordo bene, era una delle prime tiepide giornate primaverili dopo molti giorni di pioggia che avevano tenuto lontano la bella stagione. Cielo terso, sole caldo, l’anno scolastico quasi al termine…. Poi, l’aria squarciata da innumerevoli sirene, un avanti-indietro incessante che distrasse noi studenti dalla lezione di greco e di matematica per buona parte della mattinata.

    8:40: ufficio postale di via Lando. Due individui sfondano la vetrata con una Range Rover (la stessa rubata quella notte) e assaltano l’agenzia armati fino ai denti: uno imbraccia un fucile a pompa Franchi di colore nero, mentre l’altro brandisce un revolver a canna corta. La tipologia delle armi usate sarà importante per determinare i successivi eventi. Anche l’abbigliamento dei due banditi è importante: il primo spicca per una capigliatura rossiccia, forse una parrucca; l’altro, più tarchiato, indossa occhiali e baffi finti e un anacronistico impermeabile chiaro, forse bianco, in aperto contrasto con il tepore della giornata. Hanno con loro due borsoni: il primo contiene le armi; il secondo serve per portare via i soldi: 80 milioni di lire. I due fuggono a bordo di un vespino blu con targa falsificata in direzione stazione ferroviaria proprio mentre dall’ufficio postale scatta l’allarme. In questo senso i testimoni sono tutti concordi, anche perchè i 2 rapinatori hanno fatto le cose con calma: arrivano con il Range Rover, simulano di scaricare con un carrello alcuni scatoloni, ma in realtà il diversivo serve a dissimulare la rimozione di uno dei grossi vasi di fiori posti a riparo delle vetrate. Indossano due caschi da motociclista, uno dei due sale sul fuoristrada e abbatte la vetrata. Il blitz dura appena 2 minuti. Sui travisamenti tuttavia non regna univocità di testimonianze (ma al riguardo vedi infra).

    9:10: i due fuggitivi, uscendo con la moto da via Calzetta e immettendosi in via Avanzo (la via che passa sul retro della stazione ferroviaria), urtano però un’auto in sosta: questo piccolo incidente stradale li costringe ad abbandonare il vespino e a proseguire la fuga a piedi. Con le borse in spalla superano il sottopassaggio ferroviario e sbucano in piazzale della Stazione nei pressi delle corsie degli autobus. In quell’istante sempre in via Avanzo arriva la volante 1 con a bordo l’agente Trevisan (gregario), l’assistente capo Rossano Romerio (capopattuglia) e l’agente F.F. (autista) [il nome viene omesso in quanto mai reso noto dalle cronache e in quanto il collega è ancora in servizio attivo, n.d.r., ma al riguardo vedi la sua testimonianza pubblicata infra] : mentre l’autista F.F. resta a guardia del mezzo di servizio, gli altri due agenti imboccano a loro volta il sottopassaggio sbucando in piazzale della Stazione. Qui si dividono. Numerosi testimoni descriveranno questo giovane agente in uniforme e con la pistola in mano percorrere le corsie degli autobus come chi “cerca di individuare qualcuno”. Arrivato in corrispondenza della prima corsia, l’agente Trevisan nota due persone sospette sedute in testa all’autobus n° 401 della linea 3 in partenza, le quali cercano di nascondersi. Nota soprattutto quell’impermeabile e quei borsoni già segnalati via radio dalla centrale operativa. Non ci pensa un attimo e, pistola in pugno, intima ai due di scendere. Precisissima la testimonianza dell’autista di quell’autobus: “[…] un poliziotto è entrato nel bus sullo scalino davanti al mio posto di guida e rivolgendosi a due giovani che erano seduti sul davanti stesso gli ha intimato di scendere dicendogli “Scendete!”. Il Poliziotto aveva la pistola in mano e quindi i due lo hanno seguito scendendo attraverso al porta anteriore a circa mezzo metro da me […]”. I due sono piuttosto recalcitranti: Trevisan spinge violentemente il primo innanzi a sè, mentre prende sottobraccio il secondo.

    9:12: mentre sta accompagnando i due sospetti verso il marciapiede, Trevisan si gira per richiamare l’attenzione del suo capopattuglia. Lo odono gridare: “L’ho preso!”: saranno le sue ultime parole. E’ un attimo e scoppia l’inferno: mentre il primo bandito accelera improvvisamente il passo come per guadagnare l’ingresso della stazione, l’altro, quello tenuto sottobraccio dal Poliziotto, si accovaccia aprendo l’impermeabile: è armato di revolver tenuto infilato alla cintola e scarica 5 colpi alla schiena dell’agente che crolla a terra. Uno dei colpi attinge di striscio anche una signora che stava acquistando i biglietti dell’autobus presso la vicina rivendita. Anche qui la testimonianza dell’autista dell’autobus è illuminante: […] Una volta a terra il poliziotto li ha accompagnati davanti al muro di lato alla citata porta centrale. Io in quel momento ho pensato che li avrebbe messi con le mani al muro e quindi ho indugiato con lo sguardo sulla scena. Ho potuto quindi notare chiaramente che uno dei due giovani, cioè quello più alto si è un po’ accucciato e quindi si è girato di colpo impugnando una pistola con la quale ha fatto ripetutamente fuoco con il poliziotto. Quest’ultimo prima che ciò accadesse aveva chiamato in aiuto un suo collega che era distante circa 30 metri da lui. Alle esplosioni il poliziotto si è accucciato ed è caduto a terra con il viso al cielo […]. Tra il fuggi-fuggi generale i due banditi imboccano entrambi l’atrio della stazione cercando la fuga attraverso il sottopassaggio e di lì la retrostante via Avanzo. L’assistente capo Romerio urla la sua disperazione ai passanti implorando di chiamare un’ambulanza e si getta all’inseguimento del delinquente arrivando a sparare due colpi che abbatteranno altrettante vetrate dell’atrio ferroviario. La pistola di Arnaldo Trevisan fu recuperata inceppata: dagli atti non emerge se il Poliziotto abbia sparato anche solo accidentalmente un colpo per reazione o se l’arma si sia inceppata a seguito della caduta a terra. Sulla questione l’unica testimonianza dice: […] tutto questo si è svolto in pochi attimi e non ho notato che il poliziotto che abbia sparato, ma penso di no […]”.

    9:20: le volanti hanno ormai militarizzato tutta la zona. Un cittadino (che non verrà però mai identificato) indica agli agenti un uomo “tutto sudato, con l’impermeabile che si sta allontanando in sella a una bici”. Quella bici era stata sottratta poco prima a uno studente universitario. Due volanti convergono quindi all’incrocio tra via Liberi e via De’Menabuoi e lì notano il soggetto segnalato che si sta allontanando sul marciapiede in direzione della chiesa dell’Arcella. Gli agenti gli saltano addosso: è Francesco Badano, 26 anni, noto in ambienti polizieschi solo per le sue frequentazioni di estrema destra e per la sua attitudine a menare le mani. E’ un ragazzone, Badano, e vende cara la pelle: 6 poliziotti bastano a malapena per ammanettarlo dopo una furibonda colluttazione nel corso della quale l’uomo arrivò anche ad impossessarsi della mitraglietta gettata a terra da uno degli agenti: non riuscì a utilizzarla solo grazie al fatto che l’arma rimase incastrada tra l’asfalto e il corpo del bandito il quale cercava comunque di farne scattare il grilletto. Sulla colluttazione gli atti processuali non sono univoci: vi fu un unico testimone – sentito peraltro solo in istruttoria – che dichiarò che Badano si arrese subito, senza opporre resistenza. Tuttavia al riguardo esistono numerose altre tesimonianze in senso contrario. In particolare vi è un testimone molto preciso che dichiarò: “[…] Lunedì mattino scorso alle ore 9.30 circa mi trovavo nel cortile laterale della mia abitazione intento a lavare la mia auto quando ho sentito uno stridio di gomme con un motore di auto imballato. Mi sono girato e ho visto a circa 20-30 metri da me un’auto della Polizia con contrassegni dalla quale scendevano due agenti in divisa. Costoro si dirigevano verso un giovane che stava transitando in bicicletta sopra il marciapiedi ed in direzione della chiesa dell’Arcella. Su di lui è arrivato il primo agente che ricordo alto e moro con i baffi il quale giunto a contatto con lo sconosciuto lo ha toccato con una mano mentre con l’altra impugnava una pistola. Nel termine di qualche secondo lo sconosciuto ha reagito violentemente saltando addosso all’agente. Costui ha reagito ed entrambi sono caduti a terra vicino la mura di recinzione di una casa. Qui hanno cominciato a rotolare e nel frattempo è giunto l’altro agente che era armato di mitra. Costui ha dato manforte al collega ed anche è caduto a terra. Mentre i due agenti tentavano di bloccare lo sconosciuto che dimostrava una forza e una vitalità notevolissima è giunto sul posto un pullmino Fiat 850 bianco con altri agenti in borghese a bordo i quali si sono lanciati nell’aiuto ai loro colleghi. Anche i sopraggiunti sono stati coinvolti nella lotta perché l’energumeno stava avendo ragione dei due agenti. Solo un agente donna non ha partecipato alla lotta e un altro che aveva una cartella sotto il braccio. La donna ha anche sparato un colpo in aria nell’intento di dissuadere lo sconosciuto che ancora colluttava in modo pauroso contro gli agenti. Alla fine però costui veniva ridotto all’impotenza ed ho notato che aveva sul viso una maschera di colore rossastro mentre i capelli erano anche rossi sul biondiccio […]. E ancora: […] Comunque prima di essere portato via l’energumeno continuava a tentare di divincolarsi malgrado avesse le manette tanto che a fatica riuscivano a tenerlo a bada […]”. Badano viene trovato con indosso un impermeabile tipo spolverino color crema, in tasca un revolver Ruger .357 Magnum con il tamburo rifornito, in tasca altre munizioni dello stesso calibro; sotto lo spolverino, un giubbetto antiproiettile di marca israeliana. Una curiosità: l’agente che abbandonò a terra la mitraglietta per lanciarsi in soccorso del compagno che aveva ingaggiato la colluttazione con Badano era Giovanni Borraccino che troverà la morte 3 anni più tardi assieme a un altro collega in un conflitto a fuoco con 3 rapinatori nella tristemente nota “strage delle Padovanelle”.

    9:40: Badano è in questura ove regna il caos e l’isteria per la notizia del brutale assassinio di quel “bòcia“, quel ragazzino 22enne che era diventato la mascotte della sezione Volanti. Viene subito interrogato, indubbiamente un interrogatorio duro, è innegabile: chi dice si fosse trincerato nel mutismo più assoluto, chi dice sembrasse sotto l’effetto di droghe. Viene descritto come in preda a fortissima agitazione, tanto che per perquisirlo e per sfilargli il giubbetto antiproiettile non gli tolgono le manette ma tagliano direttamente il maglione con una forbice. Viene visitato dal medico della Polizia dottor Veronese che gli somministra un sedativo per via endovenosa disponendone altresì l’accompagnamento in ospedale. Lo stato di agitazione e di frenesia del giovane trova conferma anche in un testimone della colluttazione al termine della quale fu catturato: “[…] Onestamente debbo dire che in vita mia non ho mai assistito a simile brutalità da parte di una persona che ho visto possedere una forza oltre il normale. Infatti ho pensato che oltre a essere molto allenato doveva anche essersi drogato. Infatti 5 o 6 agenti non riuscivano a bloccarlo e la lotta si è protratta a mio giudizio per almeno 5 minuti […]”

    12:20: Badano viene fatto trasportare tramite un’ambulanza della Croce Verde presso il pronto soccorso per essere visitato. Il medico del nosocomio lo dimette per “escoriazioni multiple” con una prognosi di 5 giorni. L’uomo viene riportato in questura. Agli atti del processo è stato acquisito il foglio di viaggio dell’ambulanza e quello d’ingresso del pronto soccorso. Non riuscirono a indicarne il nome perché nel campo “Generalità dell’assistito” compare solo un “Toni Mecopa“, frase che il ragazzo sembra ripetesse ossessivamente. In dialetto veneto, “Toni Mecopa” potrebbe corrispondere a “Toni me copa“, cioè “Antonio mi ammazza“. Tuttavia un’ulteriore lettura in chiave difensiva insinuò che la frase dialettale poteva anche essere “Toni, i me copa!”, cioè “Antonio, mi ammazzano!”. Le escoriazioni certificate trovano una conferma indiretta nella testimonianza di un uomo che assistette alla colluttazione in via Avanzo: […] sono certo che lo sconosciuto cadendo abbia battuto il capo o quantomeno la parte alta del viso sul muretto di recinzione della casa di fronte […]”

    13:10: Badano viene trasportato nuovamente in questura sotto scorta e sempre a mezzo ambulanza. Appare in stato di torpore per l’effetto del tranquillante e perciò viene fatto sistemare in una delle camere di sicurezza per riposare. La sua vigilanza viene affidata a personale della Squadra Mobile del turno 13-19 mentre il personale del turno precedente si reca a mangiare in attesa di riprendere l’interrogatorio.

    15:00: giunge in questura il padre di Badano, Paolo, che verrà sentito a sommarie informazioni circa le abitudini del figlio. E’ un funzionario della FIAT di Padova e non si stancherà di ripetere a chiunque che suo figlio non avrebbe mai potuto perpetrare un simile delitto. Lo dipinge come il classico bravo ragazzo, di buona famiglia, in attesa di un lavoro che aveva trovato forse all’estero. Egli afferma di essere stato lasciato nel cortile della questura per molto tempo e di avere sentito le urla di qualcuno, ma di essere stato rassicurato da un agente di passaggio “che quello non era mio figlio“. Risulta che ha accompagnato gli agenti a casa sua per la perquisizione domiciliare cui ha partecipato: dalla perquisizione non emergono elementi rilevanti.

    16:00: negli uffici della Mobile arriva il difensore d’ufficio, l’avvocato Carlo Augenti. Egli si trova di fronte a una scena raccapricciante: il giovane è accasciato su una sedia, il volto completamente tumefatto, scalzo, con i piedi gonfi. L’avvocato pretende l’arrivo sul posto del sostituto procuratore dott. Mario Milanese che giunge di lì a poco. Resosi conto dell’impossibilità di condurre un interrogatorio, il magistrato pretende una visita medico-legale super partes, escludendo il medico legale della Polizia e preferendogli il medico legale di turno presso l’Istituto di Anatomia Patologica: è la dott. Anna Aprile, una giovane dottoressa che arriva accompagnata da un ancor più giovane specializzando. Dopo la visita viene disposto un nuovo ricovero in ospedale, ma il dott. Milanese (che sa fare bene il proprio lavoro) chiede che vengano verbalizzate almeno alcune spontanee dichiarazioni di Badano, dichiarazioni che finiranno agli atti. Le dichiarazioni furono: “Mi hanno sprangato, solo questo qui è stato buono“, riferendosi a un ispettore.

    19:20: Francesco Badano viene ricoverato nel reparto bunker dell’ospedale civile sotto stretta sorveglianza. Il reparto bunker era ubicato all’ottavo piano del Policlinico in un’ala esclusivamente riservata alla cura dei pazienti in regime detentivo. La vigilanza era affidata a personale della Questura, spesso della stessa sezione Volanti. Per accedervi era necessario oltrepassare due porte blindate la cui apertura era possibile solo dall’interno, vale a dire dal personale di vigilanza che occupava un primo disimpegno da cui si accedeva alle camere dei reclusi. Alle 12:30 del 17 maggio Badano verrà trovato impiccato con un lenzuolo fatto a strisce e fatto passare attorno al cardine della porta del bagno. Su questo frangente esiste agli atti solo la versione della Polizia. Da essa si evince che la mattinata era trascorsa in modo tranquillo: Badano era stato visitato dai medici e aveva ricevuto la visita del medico legale che lo aveva ritenuto interrogabile. Alle 12:15 un agente addetto alla vigilanza lo scorse mentre, steso a letto, cercava di togliersi l’ago della flebo: l’agente era entrato per assicurarsi circa le necessità del ragazzo il quale gli aveva risposto che la flebo gli faceva prurito al braccio; a specifica richiesta, rispose che non aveva bisogno di altro e sembrò nuovamente assopirsi. A distanza di 15 minuti, nel corso di un nuovo controllo, l’agente lo trovo a penzoloni sul montante della porta del bagno tra i cui cardini aveva fatto passare un lenzuolo precedentemente fatto a strisce. Fu immediatamente soccorso anche da personale medico e infermieristico che per mezz’ora tentò le manovre di rianimazione. Alle 13:00 fu dichiarato il decesso.

    LE INDAGINI

    Nel frattempo le indagini erano continuate a ritmo serrato. Già la sera del 16 maggio in questura era stato portato un secondo sospetto, Antonio Benelle detto “Toni”, 29 anni. Figlio di un famoso dentista patavino, anche lui legato all’estrema destra con un passato di picchiatore e da qualche tempo annoverato anche tra i consumatori di stupefacenti. Uno dedito alla bella vita, discoteche, belle donne. E soldi. Mai abbastanza. Lo pizzicarono subito in quel tardo pomeriggio nei pressi di casa sua, con le valigie pronte. Anche con lui non andarono giù morbidi, come testimonia una successiva denuncia da lui presentata per percosse. Ma con lui il cerchio non venne chiuso, non fu mai provata la sua partecipazione a quella rapina. Nel momento in cui le indagini sembrano a un punto morto, viene arrestato un terzo giovane: è Paolo Bertolin, 31 anni, capelli rossicci, un altro “stinco di santo”: al termine del processo, sarà condannato in via definitiva a 24 anni di carcere per rapina e concorso in omicidio. Fu dunque lui a sparare a Trevisan? Badano aveva i capelli scuri, leggermente stempiato, Benelle invece aveva i capelli neri e lunghi. Ma c’è di mezzo anche quella maledetta parrucca, in realtà mai ritrovata, di cui però si ricordano bene i testimoni della rapina. Oltre a ciò, le persone che assistettero alla fuga dei due banditi lungo il sottopasso ferroviario ed escusse a sommarie informazioni dichiararono che i due si fermarono nei pressi del binario 10 e afferrarono per un polso una ragazza trascinandola con loro. Tale ragazza non fu mai identificata né si riuscì a inquadrarne il ruolo, se mai ne ebbe uno.

    L’abbigliamento e la descrizione dei due rapinatori furono uno degli aspetti maggiormente controversi. Alcuni testimoni presenti in piazzale della Stazione e che assistettero alla loro individuazione e alla sparatoria parlarono di uno spolverino bianco indossato da uno dei due che portava in mano anche un fazzolettone blu annodato; sempre uno dei due (ma l’attribuzione descrittiva non è chiara) “indossava una parrucca nera a ricci a caschetto, con viso scarno e sguardo allucinante. Poteva essere di altezza sul 1,80 […]”. L’autista dell’autobus da cui furono fatti scendere dichiarò: “Quello che ha sparato era alto metri 1.83 circa, corporatura snella, non aveva nè barba nè baffi, ritengo che i capelli erano di colore rossastro, indossava uno spolverino o impermeabile di colore bianco sporco, aveva una borsa con i manici abbastanza grossi di colore grigio sintetico; l’altro era alto circa metri 1.75, corporatura un po’ più grossa dell’altro, non aveva nè barba nè baffi, capelli neri e ricci e penso che fosse una parrucca, anch’esso aveva lo stesso spolverino dello stesso colore forse con jeans neri sotto; mentre il primo aveva i jeans celesti. Il primo aveva ai piedi delle scarpe tipo Timberland colore marrone o cuoio con la suola bianca. L’altro non ricordo. Il secondo aveva anche lui una borsa simile alla prima. Quest’ultimo non ha sparato e cercava di divincolarsi”. A questo proposito, in base alle testimonianze agli atti, è bene trarre alcune conclusioni: il primo bandito (colui che materialmente sparò a Trevisan) era alto metri 1.83 circa, capelli rossastri, vestito con spolverino bianco sporco, jeans celesti e scarpe Timberland marroni con suola bianca; il secondo bandito (colui che NON sparò a Trevisan) era più basso, con parrucca nera, spolverino bianco sporco simile al complice, pantaloni probabilmente neri. Quando Francesco Badano fu portato in questura era vestito con uno spolverino bianco sporco sotto al quale portava un maglione e il giubbetto antiproiettile, aveva jeans azzurri e scarpe tipo Timberland color cuoio con la suola bianca. Un altro testimone parlò invece genericamente di un “giubbotto” indossato dal bandito che non sparò, mentre fu concorde nel descrivere lo spolverino bianco indossato dall’assassino. Ancora un altro testimone, un autista: “[…] entrambi indossavano un impermeabile bianco o comunque di colore chiaro; l’individuo che come ho detto ha sparato all’agente aveva capelli corti di colore castano, altezza 1.80/1.85, di corporatura piuttosto robusta; l’altro era più basso, circa 1.70/1.75, di corporatura forse più esile, con capelli neri lunghi ricci, forse non naturali […]”. Riguardo alle borse in possesso dei due, un testimone cui passarono vicino dopo essere stati catturati da Trevisan dichiarò: […] udivo rumori metallici provenire da tali borse […]. Su questo particolare tuttavia un altro testimone dichiarò che “[…] lo sparatore non aveva alcuna borsa in mano […]”. Sull’abbigliamento di sicuro non fa maggiore chiarezza la testimonianza di un Carabiniere che era uscito sul piazzale dopo avere sentito i colpi di pistola, ma che alla luce della sequenza temporale ricostruita fa riferimento a persone viste quando i banditi avevano già imboccato il sottopasso: “[…] mi sono portato nell’atrio della stazione dove vi sono le biglietterie, attraversando le porte a vetro che notavo avevano dei buchi probabilmente da arma da fuoco [i colpi sparati dall’agente Romerio, n.d.r.]. Nella confusione generale mi precedeva un individuo armato di pistola che correva verso l’uscita e che descrivo così di seguito: altezza 1.70/1.75 circa, scuro di carnagione, capelli neri ondulati taglio medio lunghi, di età compresa tra i 25/27 anni, vestiva jeans con giubbotto pure in jeans, preciso che non so se si trattava di un agente in borghese o di un rapinatore. […] Successivamente mi sono portato fuori dall’atrio sul marciapiedi di attesa taxi […] sono stato attratto da un individuo indossante una camicia bianca con gilè scuro e jeans, capelli castani lisci un po’ lunghi sulle spalle, di età tra i 20/25 anni, che correva verso i pullman e precisamente in direzione piazzale ex Guidovie, sparendo dalla mia vista […] quello che mi ha colpito è stato il fatto che è uscito da dietro un pullman a gran velocità abbassandosi una volta, senza mai voltarsi indietro a guardare […]”. Circa i mezzi di travisamento usati, come anticipato non vi è unità di testimonianze: in ufficio postale i due si presentano “travisati uno con un casco blu e l’altro con una parrucca lunga di colore scuro”; dall’ufficio postale tuttavia vedono allontanarsi “due giovani a bordo di un vespino, entrambi con caschi”; una testimone dell’incidente avvenuto tra il vespino dei banditi e una vettura parla invece di “guidatore della moto con casco nero” e del passeggero che “aveva in testa un passamontagna rosso”. I testimoni a bordo dell’autobus parlano di parrucca nera. La conclusione istruttoria fu che i malviventi disponessero di artifizi da travisamento proprio nelle borse che si erano portati dietro. Un altro aspetto che emerse in modo abbastanza sporadico fu che i due avevano il volto mascherato con una specie di cerone o di fondotinta: in effetti in uno dei borsoni successivamente sequestrato fu rinvenuto un barattolo di fard usato. Un testimone: “[…] entrambi mi sembravano di carnagione scura, addirittura notavo che la pelle del loro viso fosse come sporca […]”. Un’ulteriore precisazione arrivò da un’anziana che stava scendendo le scale del sottopassaggio da via Avanzo in direzione stazione e che fu superata da questi due giovani che correvano: […] ho notato in un primo momento un individuo che mi superava proprio all’altezza dell’ultimo gradino della scalinata che porta al binario 10 infilandosi un impermeabile bianco o comunque di colore chiaro, nel frattempo l’uomo dopo essersi messo l’impermeabile raggiunge un altro individuo il quale anche indossava un impermeabile beige rivolgendosi chiamandolo col nome di Toni. Entrambi a passo veloce e cercando di nascondersi il viso si avviavano verso l’uscita sinistra della stazione. Entrambi gli uomini apparivano molto concitati […].

    La cattura di Francesco Badano (integrazione del 19 luglio 2013). Riportiamo la testimonianza integrale su questo aspetto e fornita direttamente dall’allora agente F.F..

    “Quella mattina me la ricordo come fosse oggi. Avevamo da poco ultimato la scorta a un furgone postale e per quel servizio Arnaldo, che era giunto alla sezione Volanti da appena due settimane e non era ancora pratico della città e delle tecniche di scorta, mi aveva chiesto se avessi potuto sostituirlo alla guida: infatti l’autista era lui, io ero invece il gregario. Così fu fatto e questo probabilmente mi salvò la vita…. Quando per radio arrivò la nota di rapina, ci dirigemmo subito in via Avanzo verso cui erano stati visti allontanarsi i due rapinatori. Quando arrivammo in corrispondenza del sottopassaggio ferroviario, alcuni passanti ci fecero segno che due giovani avevano appena avuto un incidente con un vespino blu lasciato sul posto ed erano subito scappati proprio nel sottopassaggio. I colleghi Rossano Romerio e Arnaldo Trevisan a loro volta corsero nella direzione indicata e io rimasi alla macchina, posizionandomi sul marciapiedi imbracciando la mitraglietta. Considera che all’epoca non avevamo nemmeno le radio portatili che sarebbero arrivate subito dopo questi tragici fatti… A distanza di forse 10 minuti notai un folto gruppo di persone che usciva quasi di corsa dal sottopassaggio, alcuni di loro mi dissero che in stazione stavano sparando. Avvisai subito la sala operativa e restai in attesa; di lì a poco uscì un altro gruppo di persone e alcuni mi dissero che era stato colpito un poliziotto. Non potevo fare altro che attendere, non c’era modo di comunicare con i colleghi sul piazzale principale della stazione: ero lì in piedi, con il mitra imbracciato e osservavo tutta la gente che usciva dal sottopassaggio. Improvvisamente, mescolato a un folto gruppo di persone (circa una quarantina) mi passò a neanche un metro di distanza un giovane tutto sudato e che notai perchè in faccia aveva una sorta di cerone che gli colava di dosso: era un ragazzo molto alto, robusto, vestito con uno spolverino chiaro sotto cui portava qualcosa di ingombrante. Lui mi vide, i nostri sguardi si incrociarono per qualche secondo e vidi che teneva una mano in tasca. Solo dopo seppi che in tasca teneva una pistola: non mi sparò probabilmente perchè capì che di quanto era successo poco prima non ne sapevo ancora niente…. Si allontanò velocemente attraversando la strada e imboccando via De’ Menabuoi, continuando a girarsi nella mia direzione guardandomi. Io lo seguii con lo sguardo perchè mi era sembrato un personaggio sospetto, ma non sapendo ancora nulla di preciso, non sapevo chi o cosa dovessi ricercare. Appena lo persi di vista, un passante mi disse che chi aveva sparato era uscito proprio da lì qualche attimo prima. Capii subito che quel ragazzone tutto sudato era uno dei responsabili: in quel momento arrivò la volante con a bordo gli agenti T.S. e il povero Giovanni Borraccino [che morirà tre anni dopo in un conflitto a fuoco, n.d.a.]. Gridai loro di andare in via De’Menabuoi perchè avevo visto il sospetto, cosa che fecero immediatamente. Io risalii sulla mia volante e, tempo di invertire la marcia e di raggiungere i colleghi, che già li trovai in piena colluttazione proprio con quel ragazzo che poi fu identificato per Francesco Badano: era a terra, con le mani bloccate tra il suo corpo e il marciapede e mi avvidi con orrore che si era impossato della mitraglietta di Borraccino il quale riuscì per fortuna a infilare una mano e staccare il caricatore rendendo l’arma inerte. Fu una colluttazione furibonda, con 6 colleghi che quasi non riuscivano ad avere la meglio su questo colosso. Solo con molta fatica fu ammanettato e portato via. Quando alla fine rientrammo in questura, rividi quel ragazzo, Badano, chiuso in una delle camere di sicurezza, sicuramente portava addosso i segni della precedente colluttazione: mi fu chiesto se lo riconoscevo come quello che mi era passato davanti, io risposi di sì. Poi tutto passò nelle mani degli ispettori della Mobile. Alla luce di questi fatti, posso ritenermi due volte miracolato: la prima, per essermi scambiato alla guida con Arnaldo; la seconda perchè Badano decise di non spararmi…”

    La Redazione ringrazia sentitamente il sovrintendente F.F. per questa testimonianza.

    Le armi utilizzate. A Francesco Badano fu sequestrato un revolver marca Ruger cal. .357 Magnum a canna corta da 2 pollici con tamburo rifornito, in tasca altre 21 cartucce dello stesso calibro e compatibili con quelle che avevano attinto l’agente Trevisan. Spuntò però una seconda arma: la vide un testimone che al momento della sparatoria si trovava nei pressi di una cabina telefonica interna all’atrio della stazione e che assistette alla fuga dei due delinquenti. Dichiarò: “[…] ho notato una persona di circa 26-30 anni, corporatura robusta, altezza metri 1.75 circa, vestiva un impermeabile bianco, la faccia era priva di barba e baffi e non portava occhiali, capelli non lunghi forse castani o scuri, nella mano sinistra portava un borsello o valigetta di colore scuro o grigio. Costui si stava dirigendo verso l’entrata che porta alla ferrovia adiacente al primo bar. Giunto a metà del percorso, si è girato verso la sua destra ed io seguendo il suo sguardo ho notato che fissava una persona in divisa. A quel punto lo sconosciuto ha estratto con la mano destra dalla cintola, almeno così ritengo, una pistola molto lunga. Si è poi girato nuovamente verso la porta a vetri dove si è diretto. A quel punto l’agente in divisa si è inginocchiato e ha esploso 4 o 5 colpi in direzione dello sconosciuto. Prima di fare ciò però ho udito che gridava allo sconosciuto di fermarsi […] La pistola del fuggitivo mi è sembrata automatica e non a tamburo […]” . La differenza nelle armi rileva dal momento che nel borsone rinvenuto dopo l’arresto di Badano venne trovata una pistola semiautomatica Beretta 98F cal. 7,65 Parabellum con 11 proiettili nel caricatore: essa potrebbe essere stata abbandonata proprio dal bandito che riuscì a fuggire ed è compatibile con la descrizione verbalizzata. Entrambe le pistole erano state rapinate a due guardie giurate poco più di un anno prima dei tragici avvenimenti in esame.

    Il soprannome “Toni”. E’ un altro elemento investigativo sul quale vale la pena di soffermarci. Questo soprannome tipicamente veneto (perché in veneto si esprimevano i malviventi) emerge in vari momenti processuali come utilizzato da uno dei rapinatori per apostrofare l’altro. Lo testimoniano i presenti all’interno dell’ufficio postale, lo testimoniano almeno due persone che lo udirono pronunciare durante la fuga nel sottopasso ferroviario, è il soprannome ossessivamente pronunciato da Francesco Badano una volta portato in questura, tanto da campeggiare anche nel verbale di ingresso al pronto soccorso (Badano declinerà le proprie generalità soltanto a metà pomeriggio del 16 maggio). Soltanto al momento della sua esatta identificazione Badano confermò l’identità del complice in quella di “Tonino” Benelle, pregiudicato tossicodipendente di cui sembrava avere paura: di qui l’espressione “Toni me copa”, nel senso che Benelle lo avrebbe ammazzato una volta scoperto di essere stato tradito. A lui “scaricò” anche la paternità dell’omicidio dell’agente Trevisan ribadendo che Benelle per quella “infamata” lo avrebbe ucciso. Fu dunque proprio Benelle il suo complice?

    Il “guanto di paraffina”. Ad esso furono sottoposti entrambi gli arrestati, Badano nel primo pomeriggio, Benelle in tarda serata appena giunto in questura. Se ne dà ampio risalto nelle informative di reato acquisite al fascicolo processuale. Circa l’esito, nulla…. Esistono rinvii agli atti specifici della Polizia Scientifica che si faceva riserva di trasmettere ma gli atti processuali esaminati non contengono alcun riferimento all’esito. Una prova “regina” che per noi risulta invece un mistero. L’unica risposta possibile è che l’esito non sia stato acquisito al fascicolo del giudice istruttore a seguito del sopravvenuto suicidio di Francesco Badano. A Bertolin invece quell’accertamento non venne mai fatto dal momento che egli venne catturato a distanza di mesi. Allora, chi sparò davvero?

    La teoria del “terzo uomo”. Fu una tesi investigativa che si affacciò nelle prime concitate fasi d’indagine. L’input venne involontariamente offerto proprio da una testimone, la titolare del chiosco gelati “La casina delle rose” che si affaccia su piazzale Stazione. “[…] notavo un poliziotto che entrava nell’atrio della stazione dalle porte a vetro che danno sul primo binario, impugnando la pistola, guardandosi attorno, osservando le persone presenti nell’atrio che a quel momento non era affollato. […] Ho notato un individuo attraversare la prima porta vetrata di accesso all’atrio da parte dell’uscita che è ubicata a fianco l’esercizio in cui lavoro. Questo individuo, che indossava un impermeabile bianco lungo e piuttosto ampio, con una parrucca a riccioli non tanto lunga, rotonda, con in mano una valigetta tipo 24 ore di colore scuro, che si fermava per un attimo all’angolo del chiosco dove si girava indietro per guardare attraverso i vetri all’uscita e subito dopo si dava alla fuga attraverso la porta vetrata ubicata sulla destra del chiosco che immette sotto i portici e contemporaneamente udivo 3 o 4 colpi d’arma da fuoco. Devo precisare che quando l’individuo entrava, il poliziotto non l’ho più visto e presumo che mentre l’individuo entrava il poliziotto sia uscito dall’altra porta […]”. Una simile testimonianza aveva avallato l’ipotesi della presenza di un terzo complice al momento della sparatoria: in realtà, vista l’ubicazione del chiosco rispetto al luogo dell’uccisione dell’agente Trevisan, la testimone descrive il tentativo di allontanamento di uno dei due banditi tenuti sotto tiro da Trevisan; i colpi uditi sono quelli del secondo bandito che uccide il poliziotto.

    La sacca con le armi. Di Badano abbiamo detto. Resta da capire cosa fece il secondo bandito. Qui ci soccorre la testimonianza di un operaio che stava effettuando dei lavori nella vicina via Bixio che – per chi non conosce Padova – si trova quasi di fronte all’uscita della stazione, al di là del piazzale. “[…] mi trovavo per lavoro all’interno di uno stabile sito in questa via Nino Bixio n° 1 intento ad eseguire lavori di manutenzione dell’impianto elettrico, notavo un giovane provenire dal piazzale antistante la stazione ferroviaria di Padova con andatura trafelata il quale si infilava sempre correndo nei garages dello stabile sito al civico n° 1. Poiché il suo atteggiamento mi insospettiva, dato che avevo all’interno del garage la mia motocicletta con i documenti, sono sceso dal piano rialzato andando nei garages per vedere cosa costui stesse facendo. Quando sono giunto all’ingresso dei garages notavo questo individuo che stava salendo la rampa di accesso al piano stradale spingendo una bicicletta da donna con la quale giunto sul piano stradale la inforcava allontanandosi velocemente. Poiché sempre in ragione del suo atteggiamento l’ho seguito con lo sguardo notando che dopo avere raggiunto via Tommaseo l’ha attraversata nonostante il grande traffico dirigendosi verso piazza De Gasperi fino che l’ho perso di vista. […] Trattavasi di un giovane sui 25 anni circa, capelli lunghi mossi castano scuri con la nuca rasata con taglio di tipo militare. Vestiva un giubbetto di tessuto leggero tipo spolverino di colore chiaro, mi pare sul giallo o beige che gli scendeva oltre la vita; calzava pantaloni scuri. Recava con le maniglie infilate nel braccio destro una borsa di forma tubolare di colore grigio scuro e di tessuto fine peraltro rigonfia […]” La testimonianza di questo elettricista è particolarmente importante perchè descrive in maniera precisa la fisionomia di Paolo Bertolin che all’epoca portava proprio quella “nuca rasata con taglio di tipo militare” notata nell’occasione. Si ricava dunque un altro elemento determinante, addirittura fondamentale: Paolo Bertolin era il giovane che sull’autobus indossava la parrucca nera e aveva lo sguardo allucinato. Al momento dell’osservazione si era con ogni evidenza sbarazzato di quella parrucca che non fu mai recuperata. Bertolin inoltre aveva una capigliatura castano-rossiccia compatibile con alcune delle descrizioni fornite soprattutto dai testimoni che assistettero alla rapina e all’incidente stradale avuto dai due banditi prima del tragico epilogo. In quel garage, su segnalazione di un cittadino, quel pomeriggio la volante recupererà un borsone contenente un fucile a pompa marca Franchi con 7 cartucce di cui una in canna, una cartuccera da caccia con altre 25 cartucce cal. 12 per il fucile, altre 3 cartucce cal. 12 sfuse, 13 cartucce cal. .357 Magnum, una pistola semiautomatica Beretta mod. 98 cal. 7,65 Parabellum con 11 cartucce nel caricatore, un casco integrale per motociclista di colore nero, un giubbotto antiproiettile di colore bianco, una bomboletta di spray narcotizzante, un tubetto di fondotinta marca Orlane, una giacca a vento di colore azzurro, un piede di porco, un berretto da pescatore e un impermeabile di colore bianco.

    La borsa con il denaro. Sempre su segnalazione di un cittadino che se l’era ritrovata nascosta nel suo giardino di via Pietro Liberi, nella serata del 16 maggio la Squadra Mobile recupera anche il secondo borsone: in esso vengono rinvenuti i soldi della rapina, i documenti personali di Badano, una bomboletta di spray paralizzante, un casco, due “carichini” per revolver di cui uno contenente 6 proiettili inesplosi marca Norma cal. 357 Magnum e un altro vuoto; vengono recuperati anche 6 bossoli cal. .357 Magnum marca Norma sparati: quelli usati per uccidere il poliziotto. Fu recuperato anche uno scontrino di deposito bagagli della stazione: nella terza borsa ivi recuperata furono rinvenuti altri effetti personali di Badano, un paio di guanti da chirurgo uguali a quelli trovatigli in tasca e un altro paio di guanti di cotone.

    Le perquisizioni. A casa di Francesco Badano non fu trovato nulla, lo abbiamo detto. A casa di Antonio Benelle la Polizia sequestrò invece uno spolverino bianco con il colletto macchiato di fard. Egli si giustificò dicendo che quello spolverino lo usava la sua ragazza, ma tanto bastò per corroborare le esigenze di custodia cautelare a suo carico. Come mai le indagini si concentrarono subito su Benelle, lasciando a Bertolin il tempo di fuggire? Dalla sequenza temporale degli atti di Polizia Giudiziaria acquisiti al fascicolo processuale emerge che i vari testimoni (e furono qualche decina…) non vennero fisiologicamente escussi a sommarie informazioni tutti quel 16 maggio, giorno in cui gli elementi di indagine si susseguirono a ritmo frenetico; molti di loro furono sentiti anche nei giorni successivi, almeno fino al 22 maggio, con attività delegata non solo alla Squadra Mobile ma anche alla Sezione di Polizia Ferroviaria direttamente coinvolta per territorio. Il raffronto degli atti e la tracciatura di un percorso investigativo lineare portò via ancora altri giorni preziosi e solo a fine maggio (con Benelle già uscito di scena) si cercò Paolo Bertolin. Ma allora perchè quel “Toni me copa” pronunciato ossessivamente da Badano? Perchè egli fece il suo nome, e non quello di Bertolin? Questo non lo sapremo mai.

    Ma chi erano i due arrestati? Francesco Badano non annoverava precedenti di alcun genere, tanto che in questura non esisteva alcun fascicolo su di lui. Era stato segnalato come frequentatore degli ambienti di estrema destra nei quali non disdegnava di menare le mani. Aveva frequentato l’istituto alberghiero di Abano Terme diplomandosi e trovando lavoro a bordo di una nave da crociera sulla quale si era imbarcato nel precedente mese di marzo, periodo a partire dal quale il padre dichiarò di avere perso i contatti. Viene descritto come taciturno, ma come buon ragazzo, tutto casa e famiglia. A questa descrizione fa da contraltare una dichiarazione di un vicino di casa (peraltro non assunta a testimonianza) il quale descrisse un episodio avvenuto quando Badano aveva 17 anni: si era comprato una motoretta con la quale amava scorrazzare per le stradine del quartiere e che teneva come un orologio; un pomeriggio, vinto dalle insistenze di un suo coetaneo che gli pregava di fargliela provare, gliela prestò. L’amico, forse poco pratico del motore, dopo pochi metri cadde rovinosamente a terra strisciando la moto. Badano, dopo essere accorso sul luogo della caduta, investì di calci e pugni l’amico per il danno che aveva provocato.

    Antonio Benelle era invece un personaggio assai noto. Proveniente dai salotti buoni della Padova-bene, da picchiatore dell’estrema destra, dedito al lusso e alla bella vita era stato di recente risucchiato nel vortice degli stupefacenti. I soldi non gli bastavano mai e non faceva mistero del fatto che per averli avrebbe fatto qualsiasi cosa. Non aveva un’occupazione stabile, preferendo vivere di rendita con i soldi dei genitori. Il suo nome viene legato anche a una rissa avvenuta tempo prima in una discoteca: nell’occasione aveva addirittura estratto una pistola (non si sa se vera o finta) minacciando gli antagonisti. Le foto allegate agli atti e scattate il giorno del suo arresto lo mostrano come un ragazzo dalla corporatura normale, dal viso magro contornato da una folta capigliatura nera che gli scendeva fin quasi alle spalle secondo la moda maschile degli anni Ottanta. Era dunque lui il soggetto descritto di numerosi testimoni come quello dallo sguardo allucinato e dai capelli scuri?

    Il procuratore capo Marcello Torregrossa aveva impresso in quei giorni un ritmo forsennato alle indagini, combattendo anche sul fronte della stampa e cercando di stemperare i toni soprattutto all’indomani del suicidio di Francesco Badano. L’avvenimento aveva riscosso uno scalpore a livello internazionale, anche in considerazione della nazionalità austriaca della mamma e del possesso dei relativi documenti da parte del ragazzo. Fu aperta un’indagine sulla spinta dei genitori e a 6 poliziotti (compreso il dirigente della “Mobile” Carmine Damiano) fu consegnato quello che oggi si chiama avviso di garanzia, ma che allora si chiamava molto più severamente comunicazione di indagine, per i reati di abuso d’ufficio, percosse e lesioni personali aggravate. A fine dicembre 1988 il tribunale di Padova, su proposta del giudice istruttore, archivia la questione con un “non doversi procedere per non aver commesso il fatto”. Tale sentenza provoca un ennesimo putiferio mediatico e politico che arriva ad oscurare perfino la morte del giovane Poliziotto: ormai il caso non era più il “caso Trevisan” ma il “caso Badano”.

    Mentre tuttavia Antonio Benelle uscì di scena quasi subito (la sua partecipazione a quella rapina non fu mai completamente provata a fronte di un quadro accusatorio meramente indiziario), le indagini si erano concentrate sul nuovo arrestato, quel Paolo Bertolin che verrà condannato a 24 anni. Egli era riuscito a fuggire in Portogallo pochi attimi prima di essere arrestato; inseguito da un mandato di cattura internazionale, fu bloccato alla fine del 1988 ed estradato: le prove a suo carico riguardarono un legame stabilito dall’Interpol tra lui e il fucile a pompa Franchi usato per la rapina: a questo riguardo, il fucile era stato importato illegalmente dall’Austria da un altro pregiudicato padovano, Renato Garibaldi, il quale aveva venduto l’arma proprio a Bertolin pochi giorni prima della rapina all’ufficio postale. Bertolin si è sciroppato la condanna in via definitiva, nel 2003 balza agli onori delle cronache per essere stato “pizzicato” da una Volante fuori casa mentre doveva scontare gli arresti domiciliari proprio per quei fatti. Il capo d’accusa per lui fu di rapina aggravata, concorso in omicidio ma per un fatto diverso da quello voluto. In sostanza, la Corte sancì che il vero complice di Badano fu proprio Bertolin che, all’epoca dei fatti, viveva in via Danieletti, poco distante da quell’ufficio postale. La sua condotta processuale non è stata chiara: si professò innocente, cercò di attribuire i fatti unicamente a Badano che dichiarò di conoscere superficialmente (tesi poi smentita dall’accusa).

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    Una rara immagine di Paolo Bertolin durante il processo (da Il Mattino di Padova)

    Ma chi fece cosa quel tragico lunedì di sangue, nemmeno la Cassazione è riuscita a stabilirlo con certezza. Risuona solo quella dicitura per tutti i reati contestati a Bertolin: “in concorso”….

    Il bilancio: un agente di Polizia assassinato; un sospetto trovato suicida dopo presunti maltrattamenti avvenuti durante l’interrogatorio; 6 agenti di Polizia indagati dal sostituto procuratore Lorenzo Zen, con pratica successivamente archiviata per insufficienza di prove; due presunti complici sui quali non è mai stata fatta chiarezza definitiva circa i rispettivi ruoli in quel tragico giorno. E allora, chi ha sparato al giovane Arnaldo Trevisan?

    I FAMILIARI

    Qui subentra il lato più umano di quello che fu definito “un pasticciaccio brutto”, parafrasando lo scrittore Carlo Emilio Gadda.

    Da un lato, l’agente della Polizia di Stato Arnaldo Trevisan: lasciò nella disperazione la mamma, il papà e un fratello. Nella sua biografia mi sembra di ricordare anche una sorella, mi scuso fin d’ora per l’eventuale imprecisione. Il padre morì a sua volta a distanza di poco tempo straziato dal dolore, lui che proprio quella mattina di fronte alla questura aveva salutato per l’ultima volta suo figlio che si apprestava a prendere servizio. Ad Arnaldo è stata dedicata una via nella frazione di Ballò di Mira (VE), è stato intitolato l’Auditorium di Mirano (VE) e gli è stata concessa la Medaglia d’Oro al Valor Civile. Fu promosso Agente Scelto per merito straordinario.

    Dall’altro, la mamma e il papà di Francesco Badano. Il padre si è battuto come un leone per conoscere la verità. Ha scritto anche un libro, “Effetti mortali”, una sorta di dialogo postumo con Francesco. Ha percorso tutte le strade lecite per avere risposte. Invano. La mamma fu addirittura denunciata (e poi assolta) per intralcio alla giustizia dopo l’ennesima lettera di proteste spedita in Procura. Ho letto il testo delle molte interviste da lui rilasciate: aspetti più o meno condivisibili, fino ad arrivare alla supposizione della sostituzione del cadavere del figlio, a malapena riconosciuto in obitorio. Parlò di manipolazioni di prove, di testimonianze artefatte, dell’impossibilità per suo figlio di perpetrare un crimine così orrendo. Restano tuttavia più sfoghi di dolore, manca la produzione di spunti di indagine alternativi e oggettivamente rilevanti. Circa la dinamica del suicidio del figlio, Paolo Badano accampò l’impossibilità per suo figlio di poter ridurre a brandelli un lenzuolo e arrivare ad impiccarsi, visto come era conciato. Questa tesi venne smentita proprio da quel certificato medico redatto dai dottori che lo avevano in cura e che lo avevano dichiarato soltanto due ore prima “perfettamente interrogabile”. Arrivò perfino a insinuare l’ipotesi che il figlio fosse stato “giustiziato” da quegli stessi poliziotti che lo avevano arrestato il giorno prima: un absurdum che non trovò mai alcun sostegno probatorio ma che contribuì a innalzare in modo intollerabile la tensione già di per sè elevatissima. Di condivisibile resta il dolore per la perdita di due vite umane, indipendentemente dai ruoli avuti in quella tragedia. Perché di fronte alla morte non c’è odio che tenga. E la vendetta non fa parte del DNA di noi Poliziotti. Rabbia? Quella sì, tanta. Soprattutto perché l’assassino di Arnaldo Trevisan non è stato individuato con assoluta certezza.

    Oltre a questa ricostruzione non si può andare: è stato già di per sé faticoso confrontare centinaia di pagine e di fascicoli processuali in nome dell’obiettività. Indulgere in ulteriori speculazioni non gioverebbe a nessuno, meno che mai ai diretti interessati e ai loro familiari.

    La Redazione di Polizianellastoria è come sempre a disposizione di tutti i lettori per qualunque approfondimento.

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    Una delle ultime fotografie scattata il mese prima della tragedia: Arnaldo Trevisan è il primo a sinistra
     
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