La guardia aggiunta Antonio Zambello

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    Casalserugo, provincia di Padova.

    E’ il 10 luglio 1946, notte fonda. C’è una pattuglia di guardie di P.S. che sta percorrendo le stradine impolverate che dal centro del paesino portano a ridosso dell’argine maestro del Roncajette. Si tratta di una scalcagnata jeep residuato bellico americano con a bordo tre militari, la guardia scelta Antonio Scaldaferro, la guardia Livio Zanini e la guardia ausiliaria Antonio Zambello, quest’ultimo di soli 21 anni.

    Gli ordini sono perentori: avanti e indietro per le campagne patavine a fari spenti per sorprendere nientepopodimenochè quei ladri di galline le cui incursioni stavano così tanto preoccupando la pubblica sicurezza di allora. E per ladri di galline non intendo quattro banditelli sprovveduti: intendo proprio ladri di galline, nel senso letterale del termine! Gente che per fame o per rifornire il mercato nero post-bellico, nottetempo saccheggiava pollai e orti in un periodo storico in cui una gallina o una verza valevano più dell’oro. E per le quali non si esitava pure a sparare. In taluni casi questi briganti non avevano disdegnato nemmeno qualche fugace incursione nelle private abitazioni, per lo più casolari di campagna con l’uscio malamente accostato e tenuto insieme col fil di ferro, di solito subito allontanati dalle schioppettate esplose dalla doppietta del padrone di casa… tuttavia simili razzie avevano suscitato un allarme sociale abbastanza elevato, almeno da quello che si evince dalle cronache dell’epoca.

    La metodologia preventiva scelta dalla Polizia di allora non deve fare sorridere, ma preoccupare: otto ore di servizio al buio, a fari spenti, secondo quello che in quegli anni veniva definito “blocco volante” era la normalità. Una normalità che personalmente definirei tragica dal momento che neanche un anno più tardi nel Rodigino proprio una simile tecnica operativa costerà al nostro Corpo altri tre Caduti in un colpo solo, capottati in un fosso al rientro da un servizio analogo probabilmente a causa di un colpo di sonno dell’autista esausto e con gli occhi iniettati di sangue per la stanchezza….. Anche di questi tre (Nicolò Arena, Mario Sassoli e Ottorino Turchi del Gruppo Guardie del capoluogo polesano) nessuna traccia né in cronaca né agli atti ministeriali….

    Ma torniamo a noi, a quelle tre guardie nelle campagne padovane. Fanno parte del Comando Gruppo Guardie di P.S. di Padova, un’aliquota di pronto impiego a disposizione della locale questura per servizi territoriali di controllo: in quegli anni non esisteva la Squadra Volante, ma solo i cosiddetti “pattuglioni” approntati di volta in volta per fronteggiare un determinato problema. Per il pronto intervento bisognava contattare in qualche modo la Questura dove il funzionario di turno avrebbe adottato la soluzione ritenuta migliore.

    La notte del 10 luglio 1946 è senz’altro tiepida, tipicamente estiva, da quello che si deduce proprio dalle cronache de “Il Gazzettino” di allora: un’ondata di afa opprimente sta facendo boccheggiare di giorno mentre la notte a malapena si riesce a respirare. Verso le 3:10 succede che i militari, transitando nei pressi di uno dei tanti casolari immersi nel verde, si accorgono di qualcosa di sospetto: forse rumori strani, magari un cane che abbaia istericamente oppure qualcuno che cerca di nascondersi nell’ombra…. Decidono quindi di avvicinarsi a quel casolare costeggiandone la folta siepe di bosso che lo separa dal viottolo. Ma non fanno a tempo a fare altro perchè vengono investiti da una scarica di revolverate. Scaldaferro e Zanini riescono a scaraventarsi nel fossato, tra rovi e gramigna; Zambello risponde al fuoco sparando l’intero caricatore della sua “Beretta”, forse per coprire le spalle ai colleghi. Rimane tuttavia in piedi al centro di quella stradina, bersaglio troppo facile per i banditi: viene colpito più volte, ma riesce a trascinarsi anche lui nel fosso, tra le braccia degli altri due militari. Morendovi.

    “Il Gazzettino” dell’epoca dedicò ampio spazio a questo fatto di cronaca nera che si inseriva in un quadro più ampio di stillicidio di militari: solo due notti prima poco distante da lì, in località Piove di Sacco, un gruppo di malviventi fu sorpreso dalla guardia di P.S. Benigno Glicerio mentre stava rubando un camion: lo travolsero e lo imbottirono anche con un’aggiunta di piombo, tanto per gradire. Ironia della sorte, Glicerio morirà proprio quel 10 luglio in ospedale, a poche ore di distanza dal collega Zambello. Di più: tutto quel periodo venne funestato da quotidiani conflitti a fuoco tra delinquenti comuni e Forze di Polizia che avevano portato su un letto di ospedale anche alcuni Carabinieri delle stazioni di periferia, anche loro impegnati in attività di contrasto alla microcriminalità. Altrettanto grande risalto fu dato dalla stampa ai solenni funerali di entrambi i militari: fanfare, picchetti, bandiere abbrunate, il cordoglio di tutta la cittadinanza troppo stanca di sentire sparare….

    Poi più niente.
    Sessant’anni di assoluto silenzio, almeno per la guardia ausiliaria Antonio Zambello. Niente all’Ufficio del Personale, niente in Prefettura, addirittura niente di niente al Ministero dell’Interno, nemmeno il suo cartellino d’archivio. Un altro fantasma, uno dei tanti, troppi “dimenticati” della Pubblica Sicurezza. Forse perchè Glicerio era una guardia effettiva mentre Zambello un semplice ausiliario? Può darsi: di tali “discriminazioni” burocratiche in questi anni ne ho incontrate tante. Troppe.

    Padova, autunno 2007.
    Sono nella biblioteca civica della mia città, intento a sfogliare centinaia di pagine ingiallite de “Il Gazzettino”: varie annate, 1944, 1945, 1946….. Sono i mesi di “studio matto e disperatissimo” dell’inizio di collaborazione con Cadutipolizia. Mesi in cui si ricostruiscono storie di decine di Caduti conosciuti, ma anche in cui ne emergono quasi per caso di assolutamente ignoti, magari nominati di sfuggita in un trafiletto (come è stato per la guardia Ettore Bregolato) o in un necrologio che nulla ci dice circa i dettagli della morte se non un generico “per causa di servizio” (come è stato per la guardia Nino Picardi). Di alcuni di essi salta fuori solo il cognome in un articolo commemorativo di una delle prime feste della Polizia del dopoguerra: “guardia Gobbi, raggruppamento Celere di Padova, deceduto nel luglio del 1945 in tragiche circostanze”….. Solo che di quell’anno il Gazzettino conta pochissime copie conservate: e manca all’appello proprio l’intero mese di luglio….. Pagina dopo pagina, arrivo ai fatti di Zambello, inciampandovi per puro caso ma riuscendo in questo modo a ricostruirne la storia e a dare il giusto e meritato ricordo anche a lui. L’assenza di notizie istituzionali sul suo conto e la sua qualifica di guardia ausiliaria me lo fanno subito collocare tra quei tanti militari di P.S. che dal dopoguerra fino a tutti gli Anni Cinquanta venivano assunti tramite decreti prefettizi, quindi a livello locale, per far fronte alle esigenze contingenti di quella provincia: i “precari della Polizia”, come li ho tristemente battezzati…. gente che sopravviveva di anno in anno, a volte di mese in mese, nella speranza di venire confermata nel ruolo e di avere quindi la sicurezza di uno stipendio.

    Poi l’idea.
    Nella lapide commemorativa dei Caduti della mia questura c’è grande confusione di appartenenza: in essa sono elencati militari e – dopo la riforma – agenti che lavoravano anche presso uffici diversi dalla territoriale: Polizia Ferroviaria (Mario Lazzarini e Salvatore Schillaci), Reparto Celere (Mario Nodari, Gino Grandis, Salvatore Mendola, Vito Stefano Orlandi e Giordano Coffen), addirittura Polizia Stradale (Antonio Balducci, Lander Sambin e Benigno Glicerio). Perchè non fare inserire anche questo giovane militare, da troppo tempo dimenticato? Butto giù una prima relazione di servizio indirizzata al Questore, dopo averne naturalmente parlato con il mio dirigente: l’idea sembra attecchire, pure tra mille difficoltà soprattutto di ordine burocratico. Non potete immaginarvi l’iter che si deve attraversare per scrivere un nome su una lapide…..da far perdere la pazienza anche ai santi. Tant’è. Presento la relazione e mi accingo ad aspettare i cosiddetti “tempi tecnici”.

    Poi, da allora solo silenzio.

    Padova, primavera 2010.
    Sono passati tre anni dalla mia richiesta. Un po’ troppo, anche per i “tempi tecnici” dei nostri geronti ministeriali. Vado all’Ufficio di Gabinetto a chiedere lumi e qui mi guardano come un extraterrestre appena sbarcato sulla Terra. Relazione? Quale relazione? Zambello? E chi è? Poi un fuoco di fila di domande sul perchè-percosa-percome mi sto interessando a questa storia…..mi dico: sta a vedere che mo’ ti indagano pure!!
    Ma siccome il mio carattere è tignoso e testardo e quando mi metto in testa una cosa non c’è verso di togliermela, decido di ritornare alla carica. Nuova relazione, stavolta con l’accortezza di farmela prima protocollare. Mio nonno mi diceva sempre: insisti, caro, insisti…chè chi la dura la vince!! Alla relazione unisco però anche una sana dose di “pressing” psicologico fatto di incursioni mensili all’Ufficio del Personale dove trovo una persona che si rivelerà essere il mio asso nella manica e che conoscevo già per la sua tenacia nell’avermi aiutato a risolvere un altro mistero, quello della guardia Gino Grandis, altro illustre sconosciuto restituito agli onori della memoria. Stavolta qualcosa sembra muoversi: dopo poche settimane il dirigente dell’Ufficio del Personale mi convoca e mi chiede di produrre il materiale storico su Antonio Zambello in quanto il Questore ha disposto di istruirne la relativa pratica per l’iscrizione del nome sulla lapide commemorativa. La valanga si è mossa: dopo una serie di relazioni integrative vengono presentati all’Ufficio Economato due preventivi da altrettante ditte del settore, entrambi inviati per via gerarchica al Ministero per l’approvazione di spesa. Poi di nuovo un lungo silenzio: da Roma tutto tace. Per mesi.

    Padova, 31 maggio 2011.
    Nuova telefonata da parte dell’Ufficio del Personale: Roma ha dato l’OK per la spesa! Antonio Zambello avrà il suo posto meritato anche sulla lapide della mia Questura! Questo ragazzo di appena 21 anni che dalla provincia di Verona era venuto a Padova con un’Uniforme addosso per trovare lavoro, farsi magari una famiglia e dove invece ha trovato la morte in una tiepida notte d’estate di sessantacinque anni fa dentro a un fosso tra le braccia di altri due suoi Fratelli di Giubba per mano di un gruppo di ladri di polli rimasti ignoti sarà finalmente ricordato come merita.

    Padova, 30 giugno 2011.
    Da questa mattina la guardia ausiliaria di P.S. Antonio Zambello figura ufficialmente su quella lapide!
    A molti di voi tutto ciò sembrerà una sciocchezza: a chi vuoi che importi di un ragazzino in divisa, uno dei tanti caduti per di più di oltre mezzo secolo fa? Importa a noi, poveri pazzi della Redazione! Perchè Antonio Zambello può a buon diritto considerarsi l’icona di tutti quei Poliziotti di tutte le epoche, morti per adempiere al proprio dovere e poi “dimenticati” magari per colpa della burocrazia ottocentesca che ancora attanaglia la nostra pubblica amministrazione. Caduti che purtroppo sono destinati a restare nell’oblio perchè di loro nessuno si è curato di perpetuarne il ricordo o almeno di lasciare una traccia del loro passaggio. Caduti a volte scomodi che era meglio dimenticare per non dover dare spiegazioni imbarazzanti oppure perchè la propaganda di un determinato regime doveva inculcare nella testa della gente l’immagine di un’Italia forte è indistruttibile: guarda caso, negli Anni Venti e Trenta abbiamo “stranamente” il picco minimo di Caduti della Pubblica Sicurezza…eppure la tormentatissima epoca ne dovrebbe annoverare molti e molti di più sia per motivi di ordine pubblico, sia per motivi bellici e di criminalità comune. Il mio desiderio è proprio questo: che la guardia ausiliaria di Pubblica Sicurezza Antonio Zambello rappresenti tutti Loro, Fratelli dimenticati.
    Voglio ringraziare dal più profondo del cuore il signor Questore della Provincia di Padova dott. Luigi Savina per la sensibilità dimostrata nell’appoggiare questo progetto e nel farlo realizzare; la dottoressa Maria Serafina Corbascio, dirigente dell’Ufficio del Personale della questura di Padova per l’attenzione prestata nel seguire questa pratica; e infine – ultima ma non certo ultima – la signora Elisabetta Caprioni per l’indispensabile consulenza e la pazienza certosina nelle ricerche di archivio. Senza nessuno di loro si sarebbe potuti arrivare a questo piccolo grande gesto che, oltre a rispondere a un preciso dovere, racchiude in sé tutto l’amore per la nostra Polizia.
    Per la redazione Cadutipolizia e Polizianellastoria: Gianmarco Calore


    INTEGRAZIONE DEL 31 AGOSTO 2015



    Quando su una storia credi di avere scoperto tutto (e magari l’hai anche archiviata nel grande raccoglitore virtuale della memoria), salta fuori d’improvviso un nuovo tassello che stravolge completamente la vicenda, nel nostro caso facendo assumere alla stessa tinte fosche e terribilmente atroci che mai nessuno avrebbe creduto possibile.

    E’ un brutto tassello, quello che aggiungiamo a questo mosaico che credevamo completo. Un tassello che per decenni era rimasto sopito, occultato in un fascicolo ingiallito a sua volta sepolto tra altre centinaia di suoi simili.
    Avevamo lasciato la guardia ausiliaria Antonio Zambello tra gli onori dei nostri Caduti, doppiamente onorato perchè dimenticato da quelle istituzioni che avrebbero dovuto perpetuarne la memoria. Ci siamo battuti perchè il suo nome comparisse sulla lapide dei Caduti della Questura di Padova, con esito favorevole.

    Vi dico subito che il suo nome continuerà a comparire su quella lapide. Mutano tuttavia radicalmente le circostanze del decesso che oggi proviamo a ricostruire sulla scorta proprio di quel tassello ricomparso dopo quasi settant’anni da quei tragici avvenimenti. Questo tassello è costituito da una nota dell’Arma dei Carabinieri di Padova datata 16 febbraio 1952.

    Lo scenario operativo da cui muoviamo è quello dell’intricato suburbio dei “precari della Polizia”, quelle guardie ausiliarie assunte tramite decreti prefettizi di cui abbiamo già parlato. Perchè “ausiliari” sono tutti i comprimari di questo dramma. A nulla serve ribadire la precarietà dei requisiti richiesti per beneficiare di una tale assunzione. A nulla serve trovare una giustificazione a ciò che in realtà rimane un fattaccio assolutamente esecrabile. Ma la storia non ammette la menzogna. Vuole solo la verità.

    Antonio Zambello non morì attinto dal fuoco “nemico” di una banda di ladroni colti sul fatto. Morì invece colpito dai proiettili delle armi d’ordinanza in dotazione a quell’equipaggio, quello che oggi noi definiremmo un colpo accidentale di arma da fuoco”. Quello che fa inorridire è tuttavia il contorno che fece passare quella morte da colposa a volontaria. La nota dell’Arma non fa molta luce sulla dinamica degli eventi, nè sulla stampa di quegli anni viene data eco a una notizia morta e sepolta come la sua vittima. Non credo tuttavia di andare lontano proponendovi ciò che con ogni evidenza deve essere accaduto quella notte.

    Abbiamo lasciato i nostri tre militari la notte del 10 luglio 1946 nelle campagne del Padovano, intenti a un servizio di perlustrazione al fine di prevenire i furti nelle abitazioni. Un servizio evidentemente noioso, disimpegnato da giovani guardie ausiliarie che magari si sono lasciate sopraffare dalla noia, dal caldo, dal sonno. Accade così che tra una chiacchiera e l’altra, per vincere il sonno, qualcuno si mise a giocherellare con una delle armi in dotazione. Quel qualcuno è la guardia ausiliaria Livio Zanini; quell’arma è un MAB automatico.

    Il boato dell’esplosione squarcia una nottata di piena estate, seguito da un momento di assoluto silenzio in cui anche i grilli e le raganelle nei fossi hanno smesso di cantare. Sul retro della jeep, Antonio Zambello sta morendo, colpito al ventre dal proiettile, non si sa se uno solo o se addirittura una raffica. Gli altri due militari si guardano attoniti, invasi da un panico sconfinato e dal terrore per le ripercussioni penali e disciplinari di un simile avvenimento. Ricordiamo che in quell’epoca anche l’omicidio colposo prevedeva la reclusione in carcere.

    E deve essere stato proprio il panico ad avere ottenebrato la mente dei due militari sopravvissuti, facendo compiere loro la peggiore delle scelte. Non so da chi è partita l’idea, ma a giudicare dai successivi capi di imputazione non stento a credere che Antonio Scaldaferro abbia avuto la sua buona parte: in accordo con Zanini decide di simulare una sparatoria con alcuni fantomatici banditi. Tanto, chi può dire il contrario, in una campagna desolata e assonnata? Antonio Zambello viene scaricato dalla jeep e gettato in un fosso. Gli viene messa in mano la pistola d’ordinanza, con la quale viene svuotato l’intero caricatore per rendere più credibile la ricostruzione della falsa dinamica.

    Dinamica alla quale inizialmente tutti credono. Non saprei dire cosa possa avere indotto i Carabinieri a indagini riservate e silenziose; potrei azzardare una perizia balistica o forse alcune lievi contraddizioni nelle dichiarazioni rese dai due militari e inizialmente giustificate dallo shock.
    Dal 1946 al 1952 passano sei anni. In questi sei anni Scaldaferro e Zanini (citati nella nota dell’Arma come ex guardie ausiliarie di P.S.) sono stati processati e condannati rispettivamente per favoreggiamento personale, falso ideologico e (per il solo Zanini) per omicidio colposo in danno del parigrado Antonio Zambello.

    Credo non ci sia molto altro da aggiungere a una vicenda che, nel suo squallore, lascia l’amaro in bocca. Un amaro assolutamente incancellabile.
    N.d.A.: nel carteggio dell’Arma la guardia aggiunta Livio Zanini (così indicato sulla stampa dell’epoca) viene citato con il nome di Lino Zamesi. La redazione non è riuscita ad accertare le esatte generalità del soggetto.

    Per la redazione Polizianellastoria: Gianmarco Calore
     
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