POLIZIA NELLA STORIA

Posts written by giacal

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    Categoria: Polizia Ausiliaria
    Anno: 1945, 3 novembre
    Luogo: Brescia
    Oggetto: cerimonia di presentazione del Battaglione di polizia ausiliaria partigiana alla cittadinanza
    Fonte: Flavio Dalla Libera
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    Categoria: Polizia Ausiliaria
    Anno: 1945, ottobre
    Luogo: Brescia, corso Magenta
    Oggetto: una pattuglia del Battaglione di polizia ausiliaria partigiana
    Fonte: Flavio Dalla Libera
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    Categoria: Polizia Ausiliaria
    Anno: inizio 1947
    Luogo: Brescia
    Oggetto: un gruppo di guardie nella fase di transizione dalla polizia ausiliaria al Corpo delle Guardie di P.S.. Si nota l'estrema eterogeneità delle uniformi
    Fonte: Flavio Dalla Libera
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    Categoria: Polizia Ausiliaria
    Anno: 1946
    Luogo: passo Maniva (BS)
    Oggetto: il capitano del battaglione polizia ausiliaria Tomaso Bartoli in ispezione a un posto di controllo
    Fonte: Flavio Dalla Libera
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    Categoria: Polizia Ausiliaria
    Anno: 1945, 3 novembre
    Luogo: Brescia
    Oggetto: cerimonia di presentazione del Battaglione di Polizia Partigiana alla cittadinanza. Sfilamento delle compagnie.
    Fonte: Flavio Dalla Libera
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    Categoria: Polizia Ausiliaria
    Anno: 1945, 3 novembre
    Luogo: Brescia
    Oggetto: cerimonia di presentazione del Battaglione di Polizia Partigiana alla cittadinanza. Schieramento di truppa e veicoli di servizio.
    Fonte: Flavio Dalla Libera
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    Categoria: Ricerche storiche sulla costituzione della Questura di Padova
    Anno: anni cinquanta - oggi
    Luogo: Padova
    Oggetto: un confronto tra la vecchia struttura della palazzina della questura addossata a palazzo Wollemborg in uno scatto degli anni cinquanta e come invece è oggi
    Fonte: gruppo FB "La Vecchia Padova"

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    Grazie a GerardF1 per questa precisazione che non conoscevo.
    Proprio una beffa....
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    CITAZIONE (Giulio Quintavalli @ 25/5/2023, 17:12) 
    archivio centrale di stato....organi di governo.,,, direzione generale pubblica sicurezza..... consultare i tanti inventari ...

    Praticamente niente neanche dalle prime ricerche...
    Dunque, entrambi terminano la loro esperienza PAI con il grado di generale, quindi parliamo di un "fine carriera".
    Se fossero transitati nel CGPS lo avrebbero fatto con lo stesso grado e avrebbero quindi rivestito ruoli apicali che avrebbero lasciato tracce. Invece nulla, neanche di striscio, nemmeno sui primi numeri di Polizia Moderna.
    Strano.
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    Buongiorno Guglielmo Evangelista , ben trovato anche su questo portale!

    Il generale Umberto Presti lo troviamo a Roma tra il settembre 1943 e il giugno 1944, a capo delle forze di polizia di "Roma Città Aperta": nello specifico comanda sia la PAI che la GdF con compiti di pattugliamento, ma anche di formazione dei plotoni di esecuzione.

    Di lui c'era sicuramente il fascicolo personale che però è stato versato. Forse Giulio Quintavalli ci potrà aiutare. Sta di fatto che dopo la guerra non trovo più sue posizioni nel Corpo delle Guardie di P.S., nemmeno nei Bollettini (che di solito in questo sono Cassazione). Risulta in una lista testi nel processo contro Kappler celebrato tra il 1948 e il 1952, con una sua deposizione della quale però non trovo traccia: viene citato ancora con il grado militare, ma ciò non è sintomatico di una sua effettiva e attuale appartenenza al Corpo.

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    Da sinistra: il generale Presti assieme al comandante della PAI Maraffa, Kappler e un ufficiale della Or.Po. (credits: Wikipedia)



    Invece su Felice Gazzola ho solo alcuni riscontri risalenti però all'anno 1937. Poi, il nulla....
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    LA DICIOTTESIMA VITTIMA

    di Gianmarco Calore

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    Milano, 12 dicembre 1969.

    E’ una giornata uggiosa quella che si apre sul capoluogo lombardo. La frenesia della grande metropoli è soltanto parzialmente attenuata dalle imminenti feste di Natale: la gente si aggira per le strade cercando di far coincidere i mille impegni di ogni giorno con la corsa agli acquisti dei regali, alternando le ore di lavoro a qualche ritaglio di tempo di corsa tra un grande magazzino e un negozio. C’è quella nebbiolina fastidiosa che si mischia per tutto il giorno a un’altrettanto fastidiosa pioggia che rende i movimenti più rallentati e gli spostamenti più difficili: tram che si snodano lungo i viali in mezzo alle auto, gente intabarrata in cappotti, montoni, impermeabili, eskimi, qualche pelliccia…. L’abbigliamento che traccia invisibili linee di confine tra un quartiere e l’altro, tra una classe sociale e l’altra: Quarto Oggiaro, la Comasina, via via sempre più su fino al Duomo, Porta Venezia, via Montenapoleone, il salotto buono di Milano.

    La distinzione tra i vari ceti in questo periodo non è qualcosa di astratto, anzi. E’ un fattore estremamente concreto che la gente vive, respira e pratica in ogni istante della giornata; una scriminante sociale resa ancora più sentita dal fermento che già da qualche anno ha iniziato a scuotere il mondo del lavoro, della scuola, della famiglia e che negli ultimi mesi ha assunto connotazioni politiche preoccupanti. Le piazze d’Italia, ma soprattutto quelle meneghine, sono sconquassate quasi quotidianamente da scontri che alternano studenti e lavoratori in alleanze sempre più strette e con rivendicazioni sempre più comuni: dall’altra parte della barricata, lo Stato italiano in tutte le sue accezioni e accusato di immobilismo di fronte alle accelerazioni politiche e culturali delle nuove generazioni. Non era trascorso nemmeno un mese da quel 19 novembre quando una guardia di P.S. del 3° Celere, Antonio Annarumma, era stata uccisa nel corso di violentissimi scontri con frange estremiste che si erano mescolate a un corteo di pacifici cittadini che stavano manifestando per rivendicare il loro legittimo diritto alla casa. I funerali del militare, che si erano snodati lungo le vie della città con la bara trasportata a passo d’uomo da un camion scoperto della Polizia, erano stati turbati dal gesto di un giovane, un tal Mario Capanna, che aveva gettato un fazzoletto rosso sul feretro: solo l’intervento di un giovane funzionario di Polizia riuscì a salvarlo dal linciaggio della folla che lo aveva inseguito inferocita da un simile affronto, salvo poi dimenticare tutto il giorno dopo.

    Quel 12 dicembre è un venerdì, l’ultimo giorno di lavoro della settimana: pratiche che devono essere chiuse, affari da concretizzare, tutto in fretta: poi, via di corsa a casa per il fine settimana, chiudendo fuori della porta problemi e preoccupazioni. L’albero di Natale, il Presepe, i panettoni e i torroni…. A tutto il resto ci penseremo con l’anno nuovo.

    In piazza Fontana c’è una grossa banca, si chiama “Banca Nazionale dell’Agricoltura”: è in realtà il principale collettore di denaro che viene veicolato dalle campagne alla metropoli per essere investito nello specifico settore agroalimentare. Quel pomeriggio l’istituto è pieno zeppo di gente, tutta indaffarata a chiudere transazioni e a depositare titoli e denaro: c’è da fare in fretta, ma del resto la fretta a Milano è la regola. La banca occupa un imponente edificio storico: da un portone posto tra due colonne si accede a un ampio atrio interno e da questo alla banca vera e propria. Atmosfera austera, poco spazio al superfluo: impiegati seduti a spartane scrivanie in legno, con i libri mastri e le calcolatrici meccaniche che emettono quel rumore metallico migliore espressione del denaro frusciante che viene depositato. Brusio, il fumo di qualche sigaretta, l’odore della pioggia sporca di smog che ogni tanto penetra all’interno quando la gigantesca porta a vetri viene aperta. Al centro della sala principale c’è un grande bancone su cui la gente può scrivere, appoggiare i propri effetti, magari leggere il giornale in attesa del proprio turno allo sportello. Nessuno nota una borsa di pelle nera adagiata sotto quel tavolo: ma del resto chi ha il tempo di farlo, soprattutto quando le borse di pelle nera sono la normalità in un simile ambiente? Alle 16:37 un lampo di luce bianca seguito istantaneamente da un’esplosione di inaudita violenza miete in un colpo solo diciassette vite umane e ne ferisce un’altra ottantina. Il clima natalizio che avvolge la città in una falsa assicurazione di pace e bontà viene spazzato via dall’onda d’urto di quella bomba e dalle sirene di Polizia, Carabinieri, ambulanze e Vigili del Fuoco. Non c’è più sicurezza da nessuna parte, questo è il messaggio che i Milanesi percepiscono per primo. Edizioni straordinarie di telegiornali, le prime ricostruzioni, dal Parlamento si susseguono i messaggi di cordoglio dei politici. Milano piomba in un incubo senza precedenti. Si fa subito strada la pista anarco-insurrezionalista: siamo ancora un po’ lontani dall’avvento delle Brigate Rosse e tutti gli attentati finora rivendicati avevano portato in quella direzione: prove di regia ne erano state fatte anche poco prima, addirittura pochi giorni prima con esplosivo trovato a bordo di treni o malamente celato in cestini dei rifiuti; addirittura quello stesso giorno era stato preso di mira l’Altare della Patria giù nella capitale e sempre a Roma si erano già contati tredici feriti in un’esplosione avvenuta nel sottopassaggio tra via Veneto e San Basilio; una seconda deflagrazione avviene quasi in simultanea in piazza Venezia e un’altra bomba inesplosa era stata disinnescata alla Banca Commerciale di Milano. Tanta gente, forse troppa, con facce sospette per nulla camuffate e che ostentava con molta arroganza quel giornaletto, come si chiama… ah, già: “Lotta Continua”! Dove comparivano quei ceffi, dopo poco veniva trovata una bomba, spesso roba artigianale fatta con polvere da cava o cordite malamente assemblata. Ma ugualmente letale. E l’Italia si trova improvvisamente sotto assedio con cinque attentati nello stesso giorno tra Roma e Milano.

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    Milano, 12 dicembre 1969. Dall’alto, l’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura e i successivi sopralluoghi delle Autorità (si ringrazia lo studio Farabola per il materiale gentilmente fornito)



    La sera del 12 dicembre 1969, quando ancora i soccorritori stavano operando all’interno della banca, il questore di Milano Marcello Guida va in televisione e in una conferenza stampa indica da subito la pista anarchica come l’unica percorribile assicurando nel contempo che giustizia sarebbe stata fatta. In questura a Milano c’è un giovane funzionario di Polizia: è il commissario capo Luigi Calabresi, uno tosto che il suo lavoro lo sa fare davvero bene, tanto da essere approdato in appena quattro anni all’Ufficio Politico, l’attuale DIGOS. E’ l’uomo che ai funerali di Annarumma aveva salvato Mario Capanna dal linciaggio. Il commissario Calabresi si era distinto per la sua tenacia e per i suoi metodi risoluti nella gestione dei delicati servizi di ordine pubblico che in quegli anni preoccupavano più di ogni altra cosa: è un uomo dinamico e risoluto che, accanto ai tradizionali metodi di indagine, ne affianca altri di non codificati ma di sicuro successo; metodi derivanti dal buon senso e da quell’intuito investigativo così particolarmente innato da renderlo subito un funzionario di punta tra tutti i colleghi della questura. E infatti il questore affida a lui immediatamente le indagini: si dice che in una concitata riunione al secondo piano di via Fatebenefratelli, Guida gli avesse dato carta bianca. Calabresi si mette subito al lavoro, circondato da altri funzionari non meno in gamba di lui. In quegli anni non esistevano intercettazioni telefoniche o ambientali; non c’erano cellulari ma telefoni a gettone; non esisteva internet ma rivendicazioni in ciclostile battute a macchina su carta velina. Calabresi sguinzaglia i suoi segugi che vanno a “spremere” tutti gli informatori, senza sosta, senza mangiare o dormire, 24 ore su 24. E i primi risultati non tardano ad arrivare. Già la notte del 12 dicembre in questura ci sono più di ottanta fermati, gente proveniente essenzialmente dal circolo anarchico “22 marzo” e già schedata come sovversiva. Tra essi figura anche un ferroviere con numerosi precedenti specifici: si chiama Giuseppe Pinelli, anche lui è uno tosto, uno che non si fa intimorire dai metodi sicuramente rudi con cui vengono condotte le indagini. Il suo interrogatorio, iniziato quella notte, si protrae per tre giorni senza sosta: un “torchio” deciso a fronte di diciassette morti innocenti. Ma succede qualcosa di inaspettato: la mattina del 15 dicembre Pinelli precipita dalla finestra di uno degli uffici della squadra politica e muore. L’inchiesta subito avviata dal procuratore D’Ambrosio attribuisce il fatto a una fatalità: Pinelli si era sentito male e, sporgendosi dalla finestra cui si era affacciato per prendere una boccata d’aria, era caduto giù. In quel momento il commissario Calabresi non era nemmeno nella stanza dell’interrogatorio, come verrà stabilito. Ma serve un capro espiatorio e chi meglio di lui, che già era nell’occhio del ciclone per la sua risolutezza operativa, poteva essere indicato come il responsabile se non materiale almeno morale di questo fatto?

    Calabresi muore quel giorno: il 15 dicembre 1969.

    Muore come funzionario. Progressivamente isolato dai suoi stessi colleghi che iniziano a evitarlo, dai suoi superiori che lo guardano con sempre maggiore sospetto, dal mondo politico che non ha mai preso una posizione a difesa di uno dei suoi migliori servitori. Sui muri di Milano iniziano a campeggiare con sempre maggiore insistenza frasi di condanna a morte firmate dalle solite sigle; nei comizi della sinistra extraparlamentare un esponente di “Lotta Continua”, Adriano Sofri, blatera come la morte di Calabresi sarebbe un atto di legittima difesa per Pinelli. A casa Calabresi il telefono inizia a squillare sempre più a vuoto: telefonate mute che suonano peggio di qualsiasi minaccia perchè con il loro silenzio dicono ai suoi componenti: “Sappiamo dove siete”. Ma Luigi Calabresi non molla, neanche quando la vedova Pinelli lo denuncia per omicidio e a suo carico si aprono almeno due procedimenti disciplinari interni che creano malumori e veleni tra i corridoi di via Fatebenefratelli. Calabresi continua ad andare dritto per la sua strada con la coerenza di sempre anche quando le sue mansioni di funzionario vengono limitate ad attività marginali. Perchè intanto l’attentato di piazza Fontana viene inquadrato politicamente in una nuova cornice che chiamano ora “strategia della tensione”: in un’ottica politica frange estremiste mirano a destabilizzare il Paese evidenziandone i limiti e l’inadeguatezza attraverso attentati sempre più efferati in grado di colpire chiunque e ovunque. Contro Calabresi parte una campagna mediatica di attacchi senza precedenti per un uomo dello Stato: articoli di giornale, dibattiti pubblici, trasmissioni televisive, l’intellighenzia composta da filosofi, sociologi, tuttologi e varia umanità lo trascinano in una sorta di girone dantesco in cui il funzionario continua a muoversi con disinvoltura, sempre a fronte alta. Ma sempre più solo. A confusione si aggiunge confusione: la pista anarchica viene ben presto messa in discussione additando come mandanti ed esecutori soggetti appartenenti all’opposta corrente neofascista di “Ordine Nuovo”. La gente comincia a non capirci più nulla. Ma la confusione torna utile a molti, soprattutto a livello politico.

    Il panorama politico che si stava delineando già da qualche anno vedeva infatti una Democrazia Cristiana, fino ad allora il primo partito politico italiano, sempre più in crisi: una continua emorragia di voti che migravano da Piazza del Gesù a via delle Botteghe Oscure rafforzando un partito politico da sempre avversato e tenuto lontano dalla “stanza dei bottoni”: il Partito Comunista Italiano. Da un po’ di tempo, inoltre, c’è un personaggio politico della corrente sinistrorsa della DC che ha capito che è inutile persistere in uno scontro frontale tra scudo-crociati e comunisti. Per la prima volta viene tentato un dialogo che alla lunga avrebbe dovuto portare a quel clima di convergenze parallele che avrebbe visto un governo di conciliazione tra DC e PCI. Per molti, un abominio. L’uomo politico si chiama Aldo Moro, il suo progetto verrà chiamato “compromesso storico”. Una simile idea sta facendo tremare le vene ai polsi a più di qualche compagno di partito di Moro: ma in quegli anni la politica era fatta di frasi sibilline e messaggi subliminali, non come adesso in cui quanto più si urla tanto più si viene ascoltati. La strategia della tensione evidenzia quindi da subito la sua logica, ma anche i suoi limiti fatti da evidenti contraddizioni: alcuni analisti politici la rinominano “strategia della sopravvivenza” alludendo alla regia di potenti esponenti DC che si avvalgono di frange deviate dei Servizi Segreti usate per reindirizzare con la violenza le preferenze politiche distolte dallo scudo-crociato e indirizzate altrove. Si voleva dire:”Votate a destra e a sinistra, avete abbandonato la DC e non vedete a chi state dando i vostri voti? A una manica di violenti senza scrupoli!” Una simile strategia di sopravvivenza colpiva indiscriminatamente PCI e MSI a tutto occulto vantaggio del partito di sempre. La politica si combatte anche così e in guerra ogni metodo è lecito quando ne va della tua vita.

    In un quadro così ampio, l’attentato di piazza Fontana (senza nominare gli altri) e le figure di Pinelli e Calabresi diventano due micro ingranaggi di una macchina perversa il cui moto era diventato inarrestabile. Ingranaggi gestiti e manovrati da altri ancora più grandi in una sequenza piramidale di cui non si vedrà mai il vertice.

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    Calabresi alla fine muore anche come uomo. La mattina del 17 maggio 1972 il commissario si alza di buon’ora, in tempo per fare colazione con la moglie Gemma. Di quel giorno resta un particolare non da tutti conosciuto. Calabresi si veste con la sua solita inappuntabile precisione: un completo grigio su cui arditamente appone una cravatta rosa. Dopo avere dato un bacio alla moglie, esce per recarsi al lavoro. Tuttavia qualcosa lo fa rientrare in casa. Quel qualcosa è il suo desiderio di cambiarsi improvvisamente quella cravatta rosa che viene sostituita da una più sobria di colore bianco. Alla moglie, che lo osserva con uno sguardo tra il serio e il divertito, si giustifica dicendo: “Voglio una cravatta bianca perchè il bianco è il colore della purezza”. Sono le sue ultime parole. In strada c’è un commando terrorista che lo attende e che non gli dà nemmeno il tempo di salire sulla sua 500. Calabresi, da molti considerato dopo il caso Pinelli “un morto che cammina”, viene trucidato con cinque colpi di pistola, diventando a tutti gli effetti la diciottesima vittima di piazza Fontana.

    La storia prosegue con anni di indagini, processi, accuse, incarcerazioni: nomi come “Lotta Continua” e “Ordine Nuovo” continuano a rincorrersi fino a tutti gli anni Novanta. Trent’anni di indagini che hanno dovuto spesso ripartire da zero. E zero è rimasto il numero dei responsabili di quella maledetta bomba di Milano. Una storia di fantasmi in cui la giustizia si è impantanata nelle paludi della politica di comodo, vera “eminenza grigia” pronta a intervenire quando gli inquirenti si avvicinavano troppo alla verità. E non solo gli inquirenti: piazza Fontana allunga i suoi tentacoli anche sull’omicidio Moro e sulla sparizione di quel famoso suo memoriale in cui indicava proprio nei servizi deviati la responsabilità di quell’eccidio.

    L’Italia continua a rimanere il Paese dei misteri: un Paese che formalmente non riesce a rendere giustizia a quelle innocenti vittime del suo stesso perverso sistema di potere. Un Paese che formalmente arriva ad alzare bandiera bianca evidenziando così quella stessa inettitudine e impotenza che proprio la strategia della tensione voleva negare attribuendola invece ai soliti “estremisti eversivi”. Tutto questo, formalmente. Perchè in realtà i morti di piazza Fontana e il commissario capo Luigi Calabresi si collocano in una precisa ottica di mantenimento incondizionato del potere politico: la strategia della sopravvivenza.

    Sono passati tanti anni da quel 12 dicembre. Nessuno ha colpa, non ci sono responsabili quasi che quella bomba sia stata lì da sempre.
    Tanti anni, diciotto vittime: con l’impressione latente di essere stati tutti presi in giro.

    Per la redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore
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    Categoria: Polizia Ausiliaria
    Anno: 1945, post bellico
    Luogo: Milano
    Oggetto: pattuglia della Squadra Volante su FIAT 1100 L, composta da appartenenti alla Polizia Ausiliaria partigiana
    Fonte: Autocapital, 1989
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    Su Antonio Annarumma e sulla sua uccisione abbiamo scritto tanto, ma mai abbastanza. Nel nostro piccolo abbiamo anche cercato di fare chiarezza su quei fatti, arrivando probabilmente molto vicino all’individuazione del momento esatto della tragedia . Questo ulteriore tassello, trasmesso alla Redazione parecchi anni fa, era stato purtroppo omesso nelle fasi di passaggio dal vecchio al nuovo sito di Cadutipolizia: fu scritto da un collega di Antonio, Giovanni Magliocca, anch’egli coinvolto nella famigerata “battaglia di via Larga”. Un contributo interessante quello di Magliocca, dal punto di vista emotivo, ed una testimonianza di un uomo di parte su uno dei periodi più controversi della storia della nostra nazione. Noi cerchiamo di rappresentare tutti i punti di vista e ringraziamo Giovanni per averci offerto il suo.



    In Ricordo di Antonio Annarumma
    (di Giovanni Magliocca)





    “Una storia dimenticata, una verità distorta e distrutta – racconta Magliocca – il giorno dopo, quella dell’assassinio dell’Agente di Polizia Antonio Annarumma. Era il 19 Novembre del 1969 e succedeva alle spalle del Duomo di Milano: Via Larga. Era di mercoledì, un giorno come tanti per i Milanesi, abituati ormai al folclore delle bandiere rosse, del cosiddetto “autunno caldo”, per i cui disagi alla circolazione e ai negozi ed agli stessi lavoratori, poco si faceva per riportare alla normalità le tante schegge impazzite di una rivoluzione annunciata e pubblicizzata dalle più disparate sigle del più abietto estremismo della militanza comunista, proiettata verso un delirio di onnipotenza ed un’orgia di violenza inaudita per una città civile come Milano.

    Per noi poliziotti, invece, l’ennesimo sacrificio mattutino, l’ennesimo servizio iniziato alle 3 del mattino per stazionare nei punti nevralgici del percorso dei dimostranti; l’ennesimo servizio d’Ordine Pubblico affrontato con scarso e stanchissimo personale costretto a rientrare di buon ora alla mezzanotte di ogni giorno per riuscire in servizio alle 3 del mattino, per fronteggiare una marea d’imbecilli imbevuti di odio ideologico e pronti a prendersi la propria giornata di gloria, in onore alla militanza, per qualche scaramuccia con “i servi dei padroni” che eravamo, poi, noi poliziotti.

    Siamo nel giorno della ennesima manifestazione sindacale con CGIL CISL UIL e l’accozzaglia dell’estremismo che a vario titolo partecipavano a questo esercizio di banditismo politico, sempre più deciso ad imporre il proprio potere al Parlamento con la imposizione della piazza.

    C’erano, infatti, insieme alle onorate sigle sindacali tutti i facinorosi coriandoli dell’estremismo rosso, dagli Anarchici a potere operaio fino ai marxisti – leninisti di estrazione maoista, questi ultimi per l’occasione si erano dati appuntamento al Teatro Lirico di Via Larga di Milano, mentre i sindacati ufficiali manifestavano in piazza Duomo.

    La manifestazione si articolava in un corteo dei sindacati che si sarebbe mosso da piazza Duomo, per corso Vittorio Emanuele, Piazza Festa del Perdono, Via Larga, imbocco via Pantano, ritornando poi di nuovo in Piazza Duomo. Un corteo di ben 30.000 mila dimostranti, girò per due volte il percorso, nel primo i dimostranti si approvvigionarono di tubolari delle impalcature edilizie, la seconda volta i tubolari comparvero contro di noi.

    La dinamica dell’inizio della guerriglia, di certo sarebbe stata studiata a tavolino, perché lo scontro avvenne allorquando i maoisti che uscivano dal teatro lirico si stavano accodando al corteo dei sindacati scortati a corta distanza dalle jeep della polizia.

    Fu in quel momento che una delle militanti maoiste, fingendo di essere stata urtata da uno dei mezzi di scorta, si buttò a terra gridando: la polizia carica! Quello doveva essere il segnale del proditorio attacco alla polizia. Fu l’inizio dell’inferno.

    Era mezzogiorno che non descrivo di fuoco poiché fu una vera e propria guerra. Non si sparò per il buon senso di tutti noi. Nulla fu risparmiato contro di noi, dai tubolari del primo assalto, ai sampietrini, alle biglie di ferro, fino a stracci imbevuti d’acido ed incendiati, accompagnati dal lancio delle famigerate molotov.

    Dimostranti coperti in volto, accorrevano da ogni parte, sbucavano come dal nulla, dalla zona della Università Statale, occupata col patrocinio di Mario Capanna, per lanciarsi contro di noi in Via Larga. Veri assalti di guerriglia.

    Un orda di delinquenti in assetto di guerriglia, con sciarpe rosse al collo, fazzoletti al viso, tascapani a spalla ripieni e bottiglie molotov si riversarono come avvoltoi sulla preda di appena trecento poliziotti in tutto.

    In quest’orgia di violenza un tubolare colpì alla testa Annarumma che si accasciò sul volante della sua jeep, perdendone il controllo, venendo disarcionato dalla stessa jeep dal mezzo di un altro collega che lo tamponò, nel mentre si disponeva “a carosello”, secondo le istruzioni antiguerriglia per i casi in questione.

    Lo ricordo sul selciato di Via Larga, con la testa immersa in una chiazza di sangue e la materia cerebrale che gli fuoriusciva dal cranio.

    Una interminabile guerriglia che iniziata alle 12,00 finì alle 14,40, quando sfiniti dovemmo affrontare l’ultima umiliazione, in quanto, nel prendere posto sui mezzi che ci avrebbero dovuto portare in caserma fummo costretti a passare, sotto le forche caudine di due ali di dimostranti che ci riempirono di sputi, dimostrando che il loro odio non si fermava nemmeno davanti all’assassinio del poliziotto.

    Torpore e rabbia erano i sentimenti che ci accompagnavano nel dover prendere atto della pochezza dello Stato e della pusillanimità dei tanti suoi rappresentanti.

    In caserma S. Ambrogio molti poliziotti svennero per attacchi d’isterismo a causa di tutto quanto di tossico avevano dovuto respirare in Via larga.

    La nostra sembrava la caserma della ritirata di Caporetto. Un silenzio assordante, volti grigi e tanta ma tanta amarezza dentro, a fronte di una classe politica vile e pericolosa che vendeva la Polizia per ingraziarsi, fin d’allora, i futuri padroni della piazza e dello Stato, abbandonandola alle farneticanti intenzioni rivoluzionarie degli assalitori quotidiani con lo scopo di intimidire i benpensanti, che non avrebbero accettato il nuovo corso politico di una sinistra al potere.

    Quanti danni a cose, persone e forze dell’Ordine si dovettero subire. La storia infame non si fermò davanti a quell’assassinio, di fronte al quale tutti avrebbero potuto e dovuto avere un momento di riflessione e fermare quel delirio di follia rivoluzionaria ed omicida; ma non fu così, poiché per primo si cercò di ridimensionare l’accaduto, con l’atavico vizio della menzogna, sostenendo la tesi di una morte accidentale, poi cercando di addossare colpa ad ipotetici infiltrati, per finire a colpe di qualche ipotetico compagno che avrebbe potuto sbagliare.

    Supposizioni indicate nella martellante propaganda dei gruppuscoli e stampa indipendente tesa ad acclarare un attacco della polizia ai lavoratori.

    Non si stese neanche un velo di pietas, che poteva essere supportato dalla retorica per il destino di un ragazzo venuto dal sud e morire a Milano per pochi soldi; ne di meno della commiserazione di un padre che da buon contadino traeva orgoglio di un figlio poliziotto, sentimento tra l’altro provato dai nostri genitori, e che per quel piccolo orgoglio aveva definitivamente perso l’unico figlio maschio.

    No.

    Tutto ciò non poteva esistere, perché rimanevi un poliziotto nemico del proletariato. Non contava poi che eri un ragazzo povero, che delle 65 mila lire al mese 40 mila le mandavi a casa per il papà contadino.

    Non contava l’angoscia e la disperazione di un padre che non capiva neanche il perché fosse potuto succedere quella disgrazia al suo ragazzo così buono, bravo, ed educato.

    Qualunque sentimento finiva al macero di una ideologia che aveva la pretesa di distruggere quella umanità e buon senso che ognuno di noi porta dentro, pur di imporre la fredda ragione di una logica assassina e ideologica.

    Non nascondo che dopo il silenzio iniziale, nella Caserma S. Ambrogio di Milano, col passare delle ore e man mano che tutti i reparti rientravano dai servizi, cui erano stati destinati, l’aria cominciava a diventare pesante e la follia di una rivalsa si stava impadronendo di tutti noi.

    La scintilla scoppiò allorché il Reparto di Senigallia al rientro da Bergamo dove era dislocato si rese conto di ciò che era accaduto a Milano, degli assalti da noi subiti, dei facinorosi del Movimento studentesco che con Mario Capanna ancora occupavano la Università Statale, decisero di uscire dalla Caserma per dare una lezione agli occupanti della Università, tra l’altro in maggioranza estremisti e guerrafondai, equipaggiati in assetto da guerriglia urbana.

    Fu allora che la Caserma tremò, come tremarono i tanti ufficiali, l’infermeria continuava a ricevere agenti feriti e quelli che svenivano per la tossicità dei gas respirati; le stanze furono invase da lacrimogeni per costringere tutti a scendere nel piazzale.

    Gli ufficiali superiori, spauriti, sparirono.

    Si limitarono a filmare le scene dai piani alti del cortile. La tensione era altissima, l’unico ufficiale superiore che tentò disperatamente di impedire l’uscita degli automezzi, fu strattonato, anche se riuscì nell’intento, in quanto la pausa favorì la possibilità di un dialogo interlocutorio.

    Non venne accettato nessun ufficiale come interlocutore dei cinquemila agenti di stanza nella Caserma, alloggiati per l’occasione, anche nelle piccionaie. Solo il Questore Guida, non senza difficoltà, ebbe il via libera ad interloquire con i poliziotti.

    Non so come, ma quella sera l’interlocutore, a causa della voce afona del Questore, che dovette trasmettere a tutti le parole da riferire fui proprio io, Giovanni Magliocca, collega di corso di Annarumma, arrivato al III Reparto Celere, da dove da poco io ero stato trasferito alla Caserma S. Ambrogio.

    In quella bolgia di lamentele, di rabbia, di imprecazioni contro gli ufficiali superiori e recriminazioni circa i massacranti servizi, ricordo aver detto con voce nitida e tonante una frase suggeritami dal questore: “Bisogna stare attenti, perché se noi ci abbandoniamo a reazioni incontrollabili perderemo quel poco di credibilità che ancora abbiamo nella opinione pubblica milanese”.

    Ancora, di fronte alle lagnanze della insostenibilità del servizio, senza riposi ed incentivi, mi fu ordinato di dire: “Noi siamo lo Stato, vedrete che le cose cambieranno”.

    Comunque quanto da me detto, i riferimenti del questore, frenarono gli impulsi, generarono apprensioni ed anche preoccupazioni sulla condotta militare.

    La stanchezza fece il resto, si rientrò a miti consigli e verso l’agognato riposo.

    Il giorno dopo, 20 novembre di primo mattino si pensò subito, da parte degli ufficiali superiori, mandare via il reparto di Senigallia, noto per la intemperanza dimostrata, mentre alle 10,00 si assistette alla ennesima provocazione, per un corteo di militanti comunisti che sfilò davanti la caserma per sfidare chi aveva il morto in casa.

    In fretta e furia si chiuse il portone, mentre montava di nuovo la protesta, per questa provocazione, ancora una volta non capimmo il perché non ci fosse stato l’ordine di disperderli, visto l’aria di lutto esistente per l’Agente ucciso. Ancora tensione, ancora una grande paura.

    Capimmo poi che l’apparato politico milanese, con in testa il Sindaco Aniasi e suoi referenti di partito, dai giornali acquiescenti quale il Corriere della Crespi, tuonava contro la polizia etichettandoli “fascisti”, in omaggio alla piazza.

    Questa volta però la Polizia si preparava alla sfida. Fu la volta che tremò il Governo. Tanto è vero che davanti alla Caserma S. Ambrogio e davanti il III Reparto Celere della Bicocca furono inviati a stazionare blindati militari con carabinieri. Infine sempre in ossequio alla imposizione della cialtroneria di sinistra che gridava : fuori i fascisti dalla polizia”, e la viltà di chi governava, il 21 novembre, nel mentre si preparavano liste di proscrizione di tanti poliziotti da trasferire e prosciogliere, il Governo dovette rassicurare che le proteste dei poliziotti per il commilitone ucciso erano in assonanza con la vita militare. La spavalderia dei lanzichenecchi rossi non si fermò di fronte a niente, tanto si sentivano impuniti e sicuri, che persino ai funerali di Annarumma, onorato da oltre trecentomila cittadini milanesi, stufi delle continue scorrerie di questa masnada di sinistri delinquenti politici, che mettevano tutti i giorni a ferro e fuoco Milano, si permisero di oltraggiare il morto all’uscita dalla chiesa.

    Individuato in Mario Capanna, costui fu sonoramente bastonato dai cittadini. Tutto si concedeva alla canea rossa. Nulla si negava ai politici, già corrotti, favorevoli all’ascesa comunista al potere, fortunatamente, in seguito, anche se tardi la magistratura c’è ne ha liberato. Sull’altare di quella loro viltà molti poliziotti furono immolati e per aver difeso lo Stato, trasferiti e prosciolti. Io sono uno di quelli.

    Per il resto, nessun pentito, nessun responsabile. Annarumma non ha ricevuto giustizia. In tutto questo a distanza di tanti anni quello che più fa male è la ipocrisia circa la indulgenza a posteriori che si cerca di dare a chi della violenza ne aveva fatto una pratica di vita ed un mito ideologico. Un revisionismo a senso unico, senza pudore, avulso dei danni prodotti alla coscienza, ai beni, alla vita di tanti, che spesso nulla avevano a che fare con le loro follie rivoluzionarie.

    Come i Tanti di noi che dovettero difendere Milano e uno Stato che non c’era. E’ vergognoso far circolare i volti dell’odio e della violenza alla Mario Capanna, quasi a dirgli bravo hai fatto storia. Semmai ci sarà anche qualcuno che in chiave romantica, seppure ex poliziotto alla Michele Placido, si eserciterà nell’enfatizzare: “il sogno di una generazione”.

    E poi… Tutto il resto… Non conta. Non contano i morti come Annarumma. Non contano i morti alla Calabresi. Una logica tendente al perdonismo, mantenuta ipocritamente sia quando offendono e ammazzano, sia quando vanno per ammazzare e sono uccisi come nel caso Giuliani al G8, finito per essere un eroe, mentre i delinquenti rimanevano il Carabiniere che si è difeso per non farsi ammazzare e l’altro che ha perso un occhio.

    Gli intendimenti criminali vanno tali considerati e comunque sempre perseguiti. Sessantotto e non, delinquenti erano e tali dovranno rimanere, al fine di non alimentare nella società quel cordone ombelicale di intellettuali acquiescenti e revisionisti, attori e giullari senza vergogna che sull’onda della emozione seguirebbero per firmare manifesti di solidarietà, o brindare per la liberazione di qualche delinquente politico, come successo per gli “intellettualoni” del tempo, quando si brindava per il rilascio dei fermati di Via Larga, e si firmavano manifesti per mettere alla gogna, fino al massacro, un grande poliziotto quale era il Commissario Calabresi.

    Un disegno politico, non riuscito, il loro, pur avendo costruito l’odio e la follia di quella generazione dei cosiddetti “anni formidabili” con consapevolezza e spietata convinzione, coinvolgendo quella Italia ruffiana, colta e borghese che giocò alla rivoluzione addestrandosi sulla pelle dei poliziotti e magistrati. In nome, dunque del buon senso e del pudore, finiamola – conclude Giovanni Magliocca – con questi revisionismi a senso unico, con la pietas e i fallimenti umani e rendiamo onore agli Annarumma, ai Calabresi, ai Borsellino che del loro senso dello Stato ne hanno fatto un dovere fino alla morte”.
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    Qui abbiamo altre statistiche, ricavate dalla tesi di laurea del dott. Michele di Giorgio presentata all'università Ca'Foscari di Venezia e dal titolo "Per una Polizia nuova - il movimento per la smilitarizzazione e per la riforma della Pubblica Sicurezza in Italia"

    statistiche1
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    Un sondaggio della fine degli anni sessanta riportato in una delle riviste dell'epoca traccia uno spaccato sulla provenienza degli arruolati dell'epoca. E' un'Italia decisamente sbilanciata, che riflette il netto distacco tra il nord e il meridione.
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