POLIZIA NELLA STORIA

Posts written by giacal

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    Categoria: Personaggi
    Anno: 1966
    Luogo: Padova, caserma "Pietro Ilardi"
    Oggetto: colonnello Gaetano Genco ispettore di zona
    Fonte: collezione privata
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    Categoria: Personaggi
    Anno: 1966
    Luogo: Padova, caserma "Pietro Ilardi"
    Oggetto: colonnello Gaetano Genco in qualità di ispettore di zona.
    Fonte: collezione privata
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    Categoria: Personaggi
    Anno: 1965
    Luogo: Padova
    Oggetto: indicato dalla freccia, il colonnello Genco durante le esercitazioni del battaglione soccorso pubblico sul fiume Bacchiglione
    Fonte: collezione privata

    Edited by giacal - 1/1/2023, 12:01
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    Categoria: Personaggi
    Anno: 1965
    Luogo: Padova
    Oggetto: il colonnello Gaetano Genco assiste alle esercitazioni del battaglione soccorso pubblico sul fiume Bacchiglione
    Fonte: collezione privata
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    Categoria: Personaggi
    Anno: 1959, 12 febbraio
    Luogo: Padova, caserma di via Configliachi
    Oggetto: al centro il colonnello Dal Sasso, comandante del 5° Reparto Mobile di Vicenza
    Fonte: collezione privata
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    Categoria: Personaggi
    Anno: 1975
    Luogo: Milano
    Oggetto: il capitano Maurizio Montalto, ufficiale del 2° Reparto Celere di Padova.
    Fonte: archivio Alamy
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    Categoria: Personaggi
    Anno: anni cinquanta
    Luogo: Padova
    Oggetto: tre grossi nomi della storia della Polizia: i maggiori Dal Sasso, Genco e il tenente colonnello Melli
    Fonte: Lorenzo Manigrasso, fotolibro "2° Celere"
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    Categoria: Personaggi
    Anno: 1959
    Luogo: stazione ferroviaria di Padova
    Oggetto: il comandante Gaetano genio sovrintende alla formazione del convoglio ferroviario con destinazione Cecina per il campo-mortai.
    Fonte: Lorenzo Manigrasso, fotolibro "2° Celere"
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    Categoria: Personaggi
    Anno: 1972
    Luogo: Padova, caserma "Pietro Ilardi"
    Oggetto: il tenente colonnello Renato Barbè, comandante del 2° Celere dal 1968. Fu un ufficiale dalla fama molto controversa: chi lo considerò un buon capo, chi invece lo ritenne un severo burocrate. Vero è che l'eredità del 2° celere come costruito dal primo comandante Gaetano Genco stava ormai disgregandosi. Per una aberrante logica di destrutturazione di quel reparto voluta dal ministero, lo stesso divenne assegnazione punitiva di militari già compromessi disciplinarmente. Si stava avvicinando a rapidi passi il minimo storico che sfociò nel 1976 nel celeberrimo "caso Margherito". Da Padova il Colonnello Barbè passò Comandante alla Scuola Allievi Guardie di P.S. San Giovanni di Trieste, poi alla Scuola Sottuficiali di Nettuno: l'unica mania che aveva non voleva vedere capelli e barbetra i colleghi cera il fuggi fuggi quando arrivava lui, del resto era una persona seria,
    Fonte: foto e testimonianza di Secondo Ceccarello
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    Benvenuto, Giovanni Riccardo BALDELLI !!
    Grazie per l'iscrizione e buona partecipazione! Buone Feste!
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    Riproponiamo questo vecchio articolo scritto anni fa dal nostro compianto amico, collega e collaboratore Francesco Scinia

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    Il "Rapido 904" e il collega Filippo Alberghina

    (di Francesco Scinia)



    Il 23 dicembre 1984 il "Rapido 904", partito da Napoli e diretto a Milano, percorrendo la linea Firenze-Bologna imboccò, ad oltre 150 Km/h, il tunnel della Grande Galleria dell'Appennino, in località Vernio, presso San Benedetto Val di Sambro. Il treno era strapieno di viaggiatori, c'erano intere famiglie che stavano per raggiunge i parenti per trascorrere insieme le imminenti festività natalizie. Alle 19.08 il convoglio fu devastato da una terribile esplosione: una potente carica radiocomandata sventrò uno dei vagoni di centro, immediatamente travolto da quelli successivi, che si accartocciarono l'uno sull'altro in un interminabile schianto, un inferno di fumo, polvere, sangue e gelidi lampi nel buio. L'effetto della detonazione fu amplificato dalla galleria: una carneficina in cui trovano la morte 17 persone, mentre quasi 300 restarono ferite, molte in modo gravissimo. Giornali e TV consegnarono quell'attentato alla storia come la "strage di Natale del Rapido 904".

    L'ordigno, come emerse durante il processo, fu posto sul treno a Firenze, alla stazione di Santa Maria Novella, in esecuzione di un piano criminale ideato da uno strano connubio fra mafia siciliana, camorra napoletana, eversione nera, massoneria ed apparati deviati dello Stato, in uno dei troppi episodi di "Strategia della tensione" aventi l'obiettivo di intimidire chi investigava sui traffici della criminalità organizzata e di instaurare un clima di terrore per destabilizzare l'ordine democratico, secondo un copione avviato una decina d'anni prima e sviluppato sul denominatore comune dei trasporti ferroviari, come la strage del treno Italicus (1974) e le bombe alla stazione di Bologna (1980).

    Le vittime di quella strage furono:

    * Giovanbattista Altobelli

    * Anna Maria Brandi

    * Angela Calvanese in De Simone

    * Anna De Simone

    * Giovanni De Simone

    * Nicola De Simone

    * Susanna Cavalli

    * Lucia Cerrato

    * Pier Francesco Leoni

    * Luisella Matarazzo

    * Carmine Moccia

    * Valeria Moratello

    * Maria Luigia Morini

    * Federica Tagliatatela (di appena 12 anni)

    * Abramo Vastarella

    Pochi giorni dopo, per le gravi ferite riportate, morirono anche Gioacchino Tagliatatela e Giovanni Calabrò.

    Ma le cronache dell'epoca sono concordi nel ricordare anche una diciottesima vittima di quel feroce attentato. Fra i soccorritori, mobilitati per recuperare i feriti e i poveri resti dei morti di quella tremenda strage, c'era il giovane poliziotto Filippo Alberghina, 29 anni, che, alla vista di quei brandelli martoriati, ebbe un crollo nervoso, fu scosso da irrefrenabili singhiozzi e non riuscì a prodigarsi nelle operazioni di ausilio. Per tutta la notte rivide quelle immagini strazianti, cercando di allontanarle dalla mente, ma lo shock fu insopportabile e, sopraffatto dall'orrore, si tolse la vita, impugnando per l'ultima volta la pistola d'ordinanza. In una lettera d'addio al padre e alle sorelle, confessò di non riuscire più a vivere in un'Italia ormai divenuta una "società maledetta", disse che si rifiutava di "continuare a vivere in questo mondo assurdo". Il suo suicidio divenne subito il simbolo di quanto in Italia, a causa del terrorismo, i tempi si fossero nuovamente incupiti e gli "anni di piombo" non fossero ancora terminati.

    Filippo Alberghina incarna la negazione dello stereotipo del poliziotto insensibile, corazzato ed incapace di commuoversi di fronte alle tragedie umane con cui quotidianamente è chiamato a confrontarsi. Non è un robot, è solamente un uomo. Forse troppo sensibile per svolgere adeguatamente un mestiere che richiede una buona dose di durezza, una scorza emotiva che non deve accusare cedimenti, sia per evidenti ragioni di autoconservazione, sia per garantire alla collettività un intervento efficiente e professionale. Nondimeno, la sua morte viene considerata come diretta conseguenza della strage, della quale fu certamente la diciottesima vittima, tanto da essere annoverato, in numerose pubblicazioni e perfino negli elenchi ufficiali del Ministero, come uno dei Caduti della Polizia di Stato nella lotta contro il terrorismo.
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    Storie di guardie e di banditi sanguinari, quelle che riempivano le cronache dell'Italia del dopoguerra.
    Pur con tutti i limiti strutturali e di personale, la Polizia rispondeva comunque colpo su colpo, anche se spesso uno dei suoi figli restava a terra.
    Questa è la storia di una rapina "facile", almeno in apparenza. Ma di facile non c'è niente e l'imprevisto è sempre dietro l'angolo o - come in questo caso - a bordo di un tram.
    La rivista "Crimen" n° 14 del 19 aprile 1947 ci racconta tutta la storia nel solito stile ad essa ormai peculiare.



    Palermo, aprile 1947
    "Si è ormai sulla buona pista. Le responsabilità saranno chiarite, i colpevoli raggiunti. Prima o poi tutti pagheranno". Così terminava un articolo di Crescenzo Guarino, datato da Napoli e pubblicato qualche settimana addietro su "Crimen". E la giustizia ha raggiunto con la sua infallibile mano i colpevoli a Palermo, dove i delinquenti erano venuti a continuare le loro gesta criminali.

    Li ha raggiunti di sorpresa mentre percorrevano la via più centrale della città: uno, Sebastiano Gagliano, è rimasto freddato, sforacchiato da colpi di pistola; l'altro, Luigi La Nara, "il pericolo mediterraneo n° 1", ha preferito arrendersi piuttosto che morire.

    Ma è bene che noi rifacciamo succintamente un po' di storia, per coloro che non conoscessero i precedenti.

    Siamo a Napoli; una fredda mattina di gennaio un camion targato RO86871 delle Ferrovie dello Stato mentre si reca alle officine Granili viene assalito in via Stella Polare da cinque individui. Sul veicolo sono l'autista Matteo Bove ed i ferrovieri Luigi Somma e Salvatore Puzo; essi portano cinque milioni e duecentomila lire che debbono servire per la paga degli impiegati. Un altro camion di colore giallo ha sbarrato la strada e costretto alla fermata la macchina delle officine Granili; armi spianate, cinque malfattori riescono facilmente ad impossessarsi dei cinque milioni. Nel frattempo giunge una tranvia; da essa scende l'agente Ciro Jorio che, per volersi rendere conto di quanto succede, viene fulminato da una scarica di mitra. Più tardi si ritrova il camion giallo che sarà il filo conduttore delle indagini. L'auto appartiene a tale Giuseppe Gargiulo che, si seppe poi, l'aveva data a noleggio per 117 mila lire ai banditi. Questi cerca di imbrogliare in un primo momento la questura, poi finisce col dichiarare di avere acquistato la vettura assieme a certo Armando Tagliaferri e di averla dietro compenso, tramite tale Luigi Esposito, noleggiata ad alcuni siciliani. Le fila vengono dipanate: la rapina risulta organizzata dal pericoloso delinquente Luigi La Nara che gli alleati avevano soprannominato "il pericolo mediterraneo n° 1".

    Le piste seguite dalla polizia conducevano all'arresto di Amedeo Tagliaferri, fratello di Armando; della amante di quest'ultimo a nome Giuseppe Esposito detta "Pepparella"; di Elvira Fourier, moglie di Luigi Esposito, del guidatore del camion giallo, di una certa Mancinelli. Non rimane che acciuffare il La Nara e qualche altro che, dalle ricerche fatte, risultava avessero preso la via del sud.

    Frattanto a Catania vengono tratte in arresto la moglie e l'amante del Gagliano. La polizia in seguito a questi arresti opera le opportune indagini che daranno i frutti sperati. Le donne sono interrogate lungamente. Si conferma sempre più la convinzione che i superstiti si trovino in Sicilia: infatti è così. Il La Nara e il Gagliano hanno continuato la loro serie di delitti nell'isola. Omicidi, sequestri, estorsioni, rapine e furti vengono commessi dai due e numerosi altri mandati di cattura sono spiccati a loro carico.

    La Squadra Mobile di Catania appura che entrambi i banditi sono riusciti a recarsi a Palermo. Le ricerche si trasferiscono quindi nel capoluogo dell'isola. Il Vice Questore di Catania, comm. Scrivani, assieme ai suoi agenti giunge nella nostra città; si accorda con l'Ispettorato Generale di P.S. e col comando della Legione dei Carabinieri. Si formano parecchie squadre che iniziano la caccia ai delinquenti. Gli agenti in borghese cominciano a perlustrare le vie malfamate, i ritrovi frequentati di solito dalla teppa locale. Sono effettuate ricerche nelle pensioni e nelle bettole.

    Il giorno 27, verso le ore 13, gli agenti della Squadra Mobile di Catania scorgono nei pressi di piazza Massimo i due criminali. Non v'è alcun dubbio. Nella stessa piazza Massimo è la sede dell'Ispettorato Generale di P.S.; uno di essi corre a chiedere rinforzo, mentre gli altri si mettono a pedinare i malviventi.

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    Il La Nara e il Gagliano percorrono la via Ruggero Settimo, imboccano la stretta via Di Stefano ed entrano nel ristorante Sperlinga. Un locale pieno di gente di passaggio che mangia a prezzo fisso. Un tentativo là dentro sarebbe pericolosissimo perché in caso di reazione potrebbe verificarsi un eccidio. Gli agenti catanesi, assieme ai sopravvenuti carabinieri dei Nuclei Mobili, comandati da due ufficiali e da sottufficiali, si dispongono in maniera che, uscendo, i due delinquenti non possano sfuggire alla cattura.

    Manca poco alle ore 15, quando finalmente sia il La Nara che il Gagliano escono dal locale dove si sono trattenuti esattamente un'ora e venti minuti. Entrambi sono vestiti con una certa ricercatezza. Il La Nara porta occhiali neri; il Gagliano ha con sé una grossa borsa di pelle che tiene sotto il braccio destro. Due agenti sono in fondo alla via Di Stefano: hanno la consegna di sbarrare il passo ai malfattori se decidessero di andare in quella direzione. I due ricercati imboccano invece via Ruggero Settimo, gremita di passanti. Svoltano a sinistra; il La Nara si indugia a far l'elemosina a una vecchierella che mendica all'angolo. Pare che i banditi non si siano accorti della presenza della forza pubblica; in verità sarebbe loro assai difficile, tanto accortamente sono stati disposti gli agenti in abito borghese.

    Il La Nara ed il Gagliano percorrono una cinquantina di metri dirigendosi verso piazza Politeama; all'altezza dell'Unione Militare gli agenti ed i carabinieri che hanno accelerato il passo li raggiungono e li accerchiano. Alle spalle dei banditi tuona il "mani in alto" di uno degli ufficiali; una girata sui tacchi dei malfattori che vedono dieci e forse più pistole puntate. Restano un attimo immobilizzati dalla sorpresa. Il La Nara capisce subito che nulla gli resta a fare, ed alza le mani; il Gagliano invece compie un estremo disperato tentativo: caccia la mano destra nella borsa di pelle ed estratta una pistola spara all'impazzata sul gruppo degli agenti. Il carabiniere Giuseppe Sanmasardo, colpito, cade a terra; il ribelle, accortosi che l'arma gli è insufficiente contro tanto spiegamento di forze, ricaccia la mano nella borsa per tirare fuori una delle bombe contenute in essa. A questo punto gli agenti, ritenendo fatale ogni ulteriore indugio, scaricano le loro armi. Colpito al collo, al petto ed alle gambe, il bandito si abbatte al suolo invocando "mamma mia!" e, poi, al La Nara che sta più in là più terrorizzato che mai, con le mani alzate, grida: "Vigliacco, vigliacco!". Uno specchio del bar "Pinguino" è andato fragorosamente in frantumi per il colpo di pistola sparato da un carabiniere dal marciapiedi opposto: il barista spaventosissimo è saltato dal banco rifugiandosi nella vicina agenzia della Cassa di Risparmio; anche la folla dei passanti che non si è resa bene conto di quanto è accaduto, si è data a correre cercando scampo nei portoni più vicini. Una signora che aveva per mano una bambina è svenuta. Ma la calma ritornò presto. Il La Nara, inebetito, venne ammanettato ed ebbe una crisi di pianto. Il Gagliano, caricato su una camionetta e trasportato nell'ospedale di piazza Marmi, morì subito dopo il suo arrivo, dissanguato. Il carabiniere Sanmasardo, portato alla clinica Orestano, e sottoposto a intervento chirurgico per una ferita all'inguine sinistro, venne messo fortunatamente fuori pericolo.

    Condotto alla Legione dei carabinieri, il La Nara subì il primo interrogatorio. Venne trovato in possesso di una carta di identità falsa a nome di Pasquale Padovano. Il suo corpo presenta numerose cicatrici che sono ricordo di conflitti sostenuti con la Military Police. Anche addosso al morto venne rinvenuta una carta di identità falsa, un orologio d'oro e qualche centinaio di lire. Nella borsa di pelle sequestrata, due pistole Beretta ed alcune bombe a mano.

    E' stato stabilito che il Gagliano venne ucciso dai colpi sparati dal carabiniere Calabrò, dell'Ispettorato Generale di P.S.. Il Calabrò è stato tempo addietro decorato di medaglia d'argento al valore poiché nel corso di un conflitto a fuoco in territorio di Sambuco di Sicilia, era riuscito a uccidere quattro delinquenti di una terribile banda.

    Più tardi il La Nara ci ha narrato la sua storia in tono pietistico. Appartiene a famiglia di lavoratori e anche lui da giovane lavorava in un silurificio di Napoli. Poi si è buscato tre anni di confino di polizia per lesioni in rissa, anni scontati all'isola di Ustica. Tornato a Napoli nel 1940, gli fu difficile riprendere il lavoro (dice lui), data l'onta della pena inflittagli. Fatta amicizia con il Gagliano, si dettero insieme a commettere delitti. Il bandito narra quindi il colpo organizzato contro il camion delle officine Granili e naturalmente dice che è stato il mitra del Gagliano a uccidere l'agente Ciro Jorio. Poi venne in Sicilia assieme al Gagliano in seguito all'arresto della moglie di quest'ultimo, per mettere nelle mani di un avvocato tutta la faccenda.

    Quando parla della sua famiglia qualche lagrima gli luccica all'angolo degli occhi. Il padre è un pensionato dei telefoni; una sorella, laureata in lettere, si dedica al piccolo commercio mentre un'altra sorella è impiegata presso il Banco di Napoli. Ma il La Nara ridiviene buio in viso allorché gli si chiede qualche dettaglio sui precedenti che lo hanno legato al Gagliano. Si limita a dire con i denti stretti: "Sarebbe stato capace di fulminarli tutti!"

    Marcello Sofia
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    Purtroppo la strada ha preso una deriva che, anche in caso di inversione, ci metterà anni a rientrare nella normalità.
    Percepisco un completo disinteresse per un settore che, anche in fatto di polizia giudiziaria, con le poche risorse che ha continua a fare risultato.
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    In questi giorni ho terminato di sistemare l'immensa mole di fotografie e di documenti riguardanti quella che fu la Specialità per eccellenza: la Polizia Stradale. Un caleidoscopio di colori, dal rosso amaranto al bianco-azzurro passando per il grigioverde; centinaia di migliaia di uomini che dal 1947 si sono avvicendati sulle strade italiane tra mille difficoltà e fino ai fasti degli anni Ottanta quando gli "angeli della strada" erano onnipresenti in ogni landa del Paese, dalle vecchie "strade consolari" alle moderne autostrade.

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    In tutte queste vecchie foto, pure tra mille difficoltà esterne e interne al Corpo, negli occhi dei vecchi "Centauri" si leggeva un orgoglio indicibile, una fierezza e un senso di appartenenza che ben di rado ho visto nelle altre meritorie articolazioni della nostra amministrazione. Eppure era una vita grama: come ho detto, difficoltà esterne e interne.

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    Quelle esterne, beh, sono più che intuibili: una tipologia di servizio espletato con qualsiasi condizione ambientale e quasi sempre in moto. Freddo infernale e caldo torrido, pioggia, vento, grandine e neve hanno da sempre accompagnato i nostri "pattuglianti" che nel corso dei vari anni dovettero ricorrere agli artifizi casalinghi tra i più fantasiosi per ripararsi, dai giornali infilati sotto la divisa alla "sosta operativa" nei punti dove spirava quella leggera brezza che offriva momentaneo sollievo dentro una divisa obsoleta e superata.

    E poi i morti. Tanti morti. La Specialità della Stradale ha mietuto un impressionante numero di Caduti in servizio, la maggior parte per incidenti stradali (per lo più cadute dalla moto o investimento).

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    Quelle interne sono invece legate a un regolamento per certi aspetti anacronistico, dalla disciplina portata spesso all'esasperazione, con ispezioni a sorpresa che miravano più alla punizione che alla reale verifica del corretto assetto formale e delle dotazioni di servizio: quante le punizioni per essere stati sorpresi senza quegli inutili guanti alla moschettieri da indossare obbligatoriamente anche da fermi e con qualsiasi temperatura? Quante le punizioni per non avere indossato il cappello? O per essere stati trovati fuori itinerario, fosse anche solo di qualche centinaio di metri? Legate anche a una burocrazia ottocentesca, ancora oggi ben lontana dall'essere aggiornata: lettere di trasmissione, trasmissione delle trasmissioni, triplici e quadruplici copie, timbri a china, brogliacci a mano, roba che andava bene ai tempi di Napoleone, ma che oggi (o anche solo vent'anni fa) avrebbe bisogno di essere buttata al macero.

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    Ma la passione era tanta, naturale o indotta. E lo fu fino ai primi anni novanta, quando iniziò un lento, costante, inesorabile processo di destrutturazione di un settore che veniva ammirato in tutta Europa fin dai suoi aspetti formativi del proprio personale. Chi è stato al CAPS di Cesena negli ultimi tempi penso fatichi a riconoscere quella "università della polizia" che faceva uscire agenti specializzati nel vero senso della parola: al riguardo voglio ricordare che, solo a soffermarci all'infortunistica stradale, il vecchio "stradalino" usciva con una formazione che superava perfino quella di tanti periti e che molti di questi ultimi furono costituiti spesso da "stradalini" in pensione.

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    I motivi di tale destrutturazione non sono facilmente comprensibili, se non nell'ottica di cedere al migliore offerente decine di anni di formazione e professionalità accresciute anche grazie agli stessi colleghi che misero la loro passione al servizio delle "nuove leve" in quella sorta di druidico passaparola che, oltre al sapere accademico, trasfusero anche tantissimi trucchi del mestiere imparati quotidianamente sulle strade.

    Motivi politici, senza dubbio, a partire da scelte criticabili di un certo vertice che volle "riportare gli uomini dentro le città" svuotando le periferie: ecco allora che le pattuglie sulla viabilità ordinaria iniziarono a diminuire sempre più, fino alla loro attuale pressoché totale scomparsa. Si volle delegare ad altri comprimari la gestione della circolazione stradale, senza prima accertarsi se tali comprimari ne avessero le risorse e le capacità: a farne le spese, gli utenti della strada che ottennero in cambio un abbassamento della qualità del servizio, soprattutto nel rilevamento degli incidenti stradali.

    Ma anche motivi di disamoramento verso un servizio visto sempre più lontano dalle aspettative, ridotto al far quadrare statistiche (tot veicoli controllati, tot sanzioni elevate, tot questo, tot quello... quasi a essere ragionieri e contabili anziché poliziotti). Disamoramento reso ancora più evidente dal fatto che i (pochi) assegnati alla Specialità presentano oggi subito domanda di trasferimento per andarsene altrove, magari in articolazioni molto meglio remunerate e con un rischio professionale decisamente più basso. Il CAPS ha smesso di fare il CAPS e oggi in pattuglia ti ritrovi lo sbarbatello che sa a malapena allacciarsi gli stivali; prima, invece, dovevi passare attraverso i mesi di formazione capillare del corso di specialità che ti faceva indossare lo scudetto sulla manica sinistra: solo così potevi uscire di pattuglia, naturalmente "a rimorchio" dell'agente più anziano che ti faceva passare dalla teoria alla pratica.

    Cosa resta oggi della Stradale? Una vecchietta sdentata, relegata in un angolo a rimuginare su quanto bella era un tempo, su quanti amori ha conquistato, su quanto era richiesta e contesa tra i vari pretendenti. Una vecchietta afflitta da un male subdolo, questa lenta e costante emorragia che la sta dissanguando: nelle sue vene non ci sono più nuovi globuli rossi, né bianchi, né piastrine. Le poche rimaste fuggono via, uscendo dal suo corpo. E nessun medico vuole fare quella trasfusione che la salverebbe da una tale lenta assurda agonia.

    Eppure, basterebbe così poco.... basterebbe VOLERLO.
424 replies since 17/11/2019
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