POLIZIA NELLA STORIA

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    TRA CIELO E TERRA - I BOMBARDAMENTI AEREI SULLE CITTA' ITALIANE
    di Fabrizio Gregorutti




    Italia, Seconda Guerra Mondiale

    Entrano nelle case in fiamme perché qualcuno, alle finestre dei piani superiori ha implorato il loro aiuto. Avanzano nei corridoi intasati dal fumo, con l’unica protezione di un fazzoletto bagnato, salgono scale pericolanti per le fiamme, fino a raggiungere le persone in pericolo, per poi uscire insieme a loro in strada, al sicuro. Ma non sempre c’è il lieto fine, ed a volte il fuoco provocato dalle bombe divora vittime e salvatori, a pochi passi dalla salvezza.

    Lavorano tra le macerie e, guardando i loro movimenti secchi e meccanici per un attimo pensi a dei robot, ma non è così.

    Sono esausti. Sopravvivono solo bevendo pessimo surrogato di caffè e fumando pestilenziali sigarette di trinciato di tabacco che permettono loro di lavorare ancora un po’. Scavano da ore, a volte da giorni. Non dormono da tanto di quel tempo che ormai hanno dimenticato che cosa vuol dire chiudere gli occhi e abbandonarsi al sonno, anche perché hanno il terrore degli spaventosi incubi che li attendono in agguato nell’oscurità.

    Le loro mani sono coperte di tagli ed escoriazioni, perché quando non usano le pale ed i picconi scavano con le mani nude.

    Il loro volto è diventato grigio a causa di un impasto di sudore e polvere, a volte la bocca è quasi sempre nascosta da un fazzoletto o da uno straccio che li protegge dalla polvere delle macerie, dal fumo degli incendi e dal tanfo spaventoso dei cadaveri in decomposizione sotto quello che rimane delle case e degli edifici distrutti dalle bombe.

    I loro occhi sono vigili e attenti. Scrutano ogni centimetro dell’informe massa di macerie ai loro piedi, pronti a cogliere ogni segno di una presenza umana sotto di loro. Accade che scoprano corpi o i loro brandelli. Altre volte, invece, sono fortunati e scorgono un movimento ai loro piedi che fa intuire l’ esistenza di qualcuno ancora in vita. Il loro udito è diventato sensibilissimo, tanto che riescono a sentire il più fievole lamento sotto tonnellate di macerie. Allora fermano il lavoro e, con un grido a metà tra il sollievo ed il trionfo gridano “Ehi! C’è qualcuno vivo qua sotto!”. Non sempre è vero… spesso la speranza li tradisce, facendo scambiare loro un qualsiasi rumore sotto di loro per la presenza di qualcuno ancora in vita. Altre volte sentono davvero i lamenti o scorgono dei movimenti e scavano a lungo per scoprire infine che la vittima è morta prima di essere raggiunta e allora lo shock è tale che crollano a piangere su quelle che un tempo erano case, scuole, uffici. A volte infine accade anche che, mentre stanno per raggiungere la vittima scatta l’allarme antiaereo e allora, mentre il rombo dei bombardieri si fa sempre più vicino, scavano freneticamente con gli attrezzi e le mani nude per estrarre il sepolto vivo dalle macerie, per strapparlo alla morte.

    E allora, mentre le prime bombe iniziano a cadere sempre più vicine, lavorano ancora più disperatamente, urlando alla vittima: “Io non ti lascio qui! Mi hai capito? IO NON TI LASCIO QUI!”.



    Sono i combattenti del fronte interno. Sono vigili del fuoco, carabinieri, guardie di finanza, militi dell’antiaerea e poliziotti che dal 10 giugno 1940 al 25 aprile 1945 subiscono perdite terribili. Il Corpo degli Agenti di P.S. sino all’8 settembre 1943 addirittura perde più uomini sotto i bombardamenti che in combattimento nei Balcani contro la guerriglia jugoslava.

    L’Italia precipita nella Seconda Guerra Mondiale grazie al pressappochismo, all’arroganza e alla stupidità della sua classe dirigente di allora, convinta di entrare in una guerra già vinta dalla Germania nazista e di poter riscuotere a poco prezzo importanti vantaggi. L’unico risultato saranno la disfatta militare, politica, economica e morale della Patria.

    I bombardamenti sugli obiettivi civili non sono una novità. Nel corso dei primi mesi di guerra la Polonia è stata spietatamente attaccata dalla Luftwaffe. E’ fresco il ricordo del massacro di Guernica, la cittadina basca distrutta dagli aerei italiani e tedeschi durante la guerra civile spagnola. Gli aerei giapponesi hanno già bombardato spietatamente le città cinesi. Gli stessi italiani hanno già bombardato l’Etiopia. Ce ne sarebbe in abbondanza per approntare delle serie difese come una efficiente artiglieria contraerea, una efficace linea di protezione da parte dei caccia dell’Aeronautica e una valida protezione civile. La verità è che viene fatto poco o nulla per proteggere il Paese e il tutto viene lasciato alla buona volontà dei singoli che spesso non basta.

    Già il 12 Giugno 1940 a poche ore dallo scoppio delle ostilità, gli aerei inglesi bombardano Torino e Genova, causando 17 morti e qualche danno di lieve entità, senza essere stati messi in serio pericolo dalla contraerea italiana che anzi, nei giorni successivi, in seguito ad un falso allarme antiaereo bombarda Torino causando numerose vittime.

    Il 22 Giugno tocca a Trapani e Palermo, attaccate dagli aerei francesi provenienti dall’Algeria e dalla Tunisia, desiderosi di vendicare la loro Patria ferita dalla “pugnalata alle spalle” italiana.

    E’ a Trapani che gli agenti di P.S. hanno la loro prima vittima. E’ il vicebrigadiere Gaspare Pellegrino. E’ riuscito ad uscire intero dalle macerie della Pretura distrutta dalle bombe francesi. E’ salvo, potrebbe andarsene al riparo, a cercare sua moglie ed i suoi figli, ma è un Poliziotto ed obbedisce al richiamo del Dovere ritornando indietro per aiutare i feriti che invocano soccorso. Ed è lì che lo sorprende la seconda incursione. Gaspare viene gravemente ferito nel suo generoso tentativo e muore dopo due settimane di agonia. Verrà decorato alla Memoria per il suo eroismo. E’ il primo degli oltre 1.100 poliziotti Caduti nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

    La sera del 23 Ottobre 1942 il capoluogo ligure è sottoposto ad un’ incursione aerea inglese che causa pochi danni a causa del maltempo che impedisce ai bombardieri della RAF di colpire con precisione, ma la gente preferisce correre verso i rifugi portando con sé le proprie cose, gettate alla rinfusa all’interno di valigie o di sporte, o magari cerca una piccola comodità portando con sé una una sedia o addirittura un materasso. E’ così che spesso gli ingressi dei rifugi antiaerei si trasformano in veri e propri ingorghi umani, come accade quella sera all’ingresso della Galleria delle Grazie.
    Probabilmente all’origine della strage c’è la maledetta disorganizzazione alla base di tante, troppe tragedie italiane. Sembra che i cancelli del rifugio delle Grazie vengano aperti troppo tardi e che le forze dell’ordine che dovrebbero disciplinare l’afflusso siano praticamente assenti… ad eccezione di un maresciallo dei Reali Carabinieri fuori servizio, che si trova d’un tratto a gestire da solo l’entrata di centinaia di persone spaventate e costrette ad accedere al rifugio attraverso 112 gradini di una scala stretta, ripida e scivolosa.
    Ci sono tutti i presupposti per il massacro che sta per compiersi.
    La gente inizia a scendere, sempre più frettolosamente, terrorizzata dai bengala illuminanti lanciati dalla RAF… ed è a questo punto che qualcuno inciampa, forse su un gradino o su un materasso e cade sulle scale, trascinando altri nella caduta, finchè sul pianerottolo si crea un’autentica barriera di carne umana che blocca l’ingresso della galleria. E’ il panico, il terrore puro, ormai non sono più uomini quelli che scendono verso il rifugio, ma una mandria impazzita dalla paura che preme contro il tappo umano in fondo alle scale ed a nulla valgono gli inviti alla calma da parte del maresciallo dei carabinieri intervenuto il quale viene letteralmente stritolato contro la parete dal torrente umano che sembra inarrestabile, poi…. nel recente e ben documentato “Bombardate l’Italia” di Marco Gioannini e Giulio Massobrio, un libro sconvolgente ma essenziale per comprendere la tragedia dei bombardamenti sul nostro Paese, c’ è l’atroce racconto di uno dei pochissimi superstiti delle Grazie, trasportato verso il basso dall’ondata umana, mentre lui, certo spaventato ma tra i pochi che non cede al panico, urla di non spingere, di calmarsi. Niente da fare, nessuno lo ascolta.
    Poi ad un certo punto l’ondata si arresta.
    L’uomo sta per soccombere, quando sente le urla della mandria impazzita trasformarsi in gemiti, poi più nulla e il silenzio cala sulla scalinata. L’uomo si guarda attorno e, con orrore ne scopre il motivo. Gli uomini, le donne ed i bambini accanto a lui sono ancora in piedi, accalcati uno sull’altro, ma sono morti, schiacciati dalla spaventosa pressione di migliaia di chili di carne umana. Il superstite deve la vita ad un miracolo, al soprabito che porta sottobraccio e che lo ha protetto creando una piccola nicchia che gli ha impedito di morire schiacciato. Quando alla fine verranno estratti dei suoi compagni di sventura, ben 354 cadaveri (ma questa è solo la cifra ufficiale) verranno allineati all’esterno della Galleria. I superstiti saranno appena una dozzina.

    Quella sera la RAF definì “fallimentare” il bombardamento di Genova, poiché a causa del maltempo le bombe non avevano raggiunto gli obiettivi prefissati.

    Un fallimento costato la vita a centinaia di innocenti.

    Gli abitanti di Roma ne sono convinti: gli Alleati non bombarderanno mai la Città Eterna.

    C’ è il Papa, è la Capitale della Cristianità, la culla della Civiltà occidentale…chi può volerla attaccare?

    E invece accade: gli scali ferroviari di San Lorenzo e del Tiburtino sono strategici, essenziali per il trasporto di armi e truppe verso il Sud Italia e, soprattutto, una incursione aerea sulla Capitale, colpirebbe al cuore il morale dell’Italia, costringendola ad abbandonare il conflitto. Dopo molte discussioni tra inglesi (favorevoli all’attacco) ed americani (contrari) ed un primo lancio di volantini con il quale i romani vengono avvertiti che l’illusione è finita e che la città verrà attaccata nei giorni successivi, i bombardieri statunitensi attaccano Roma il 19 Luglio 1943. Gli equipaggi hanno ricevuto ordini molto precisi, “per quanto è possibile” evitare di colpire monumenti o chiese. Le disposizioni verranno rispettate: i danni al patrimonio storico e religioso saranno limitati, non così quelli alla popolazione civile. Le vittime saranno da 1600 ai 3000, tra i quali anche molti agenti di Polizia, uno dei quali è la guardia scelta Costantino Sbraga. E’ colto di sorpresa dall’incursione aerea su Roma. Dopo un primo istante di sbalordimento inizia a correre verso il più vicino rifugio antiaereo. Manca poco…manca pochissimo. Costantino guarda davanti a sé la porta del rifugio, dalla quale alcuni colleghi si sbracciano invitandolo ad affrettarsi. Costantino pensa a sua moglie, ai suoi figli…dove saranno in questo momento, saranno salvi, saranno ancora vivi? Mancano pochi metri al rifugio, ora …. Costantino sente il fischio della bomba mentre precipita verso di lui e i colleghi nel rifugio lo vedono scomparire nell’improvviso bagliore dell’esplosione….che cosa può rimanere di un uomo colpito dallo scoppio di una bomba da una tonnellata di esplosivo?

    SBRAGA-Costantino


    La guardia scelta Costantino Sbraga



    Anche l’agente Giuseppe Sabatino appartiene alla Questura di Roma. Il 19 Luglio 1943, quando la Capitale viene bombardata è però a casa, in provincia di Foggia, forse in licenza. Probabilmente decide di tornare a Roma ma prima che riesca a farlo viene sorpreso e gravemente ferito da una incursione aerea Alleata su Foggia. Muore dopo cinque giorni di agonia, mentre quella della sua città dura per i successivi due mesi.

    Gli abitanti della città pugliese, come i romani, si sono crogiolati nell’illusione di venire risparmiati perché il sindaco di New York è originario della loro provincia. La realtà è che Foggia, oltre che un importante snodo ferroviario sulla direttrice adriatica, è circondata da una serie di aeroporti della Regia Aeronautica e della Luftwaffe ed è di conseguenza un importantissimo obiettivo strategico.

    Il 22 Luglio Foggia viene colpita dal primo dei tre spaventosi bombardamenti aerei americani che nell’estate del 1943 la distruggeranno al 75%.

    E’ stato scritto che i morti furono 20.000 (alcuni autori parlano addirittura di 24.000) un terzo degli abitanti di allora, un numero che accosterebbe Foggia ad altre città martiri come Amburgo, Dresda, Londra e Varsavia… la cifra è probabilmente esagerata e forse dovuta al trauma subito dai superstiti di fronte all’apocalisse di cui fu vittima la loro città e che li portò ad amplificare l’orrore.

    Quando cadono le prime bombe su Foggia in stazione si trovano due treni in attesa della partenza. Le centinaia di passeggeri cercano scampo nel sottopassaggio ferroviario…potrebbe essere la salvezza ma una delle bombe colpisce un convoglio di cisterne cariche di benzina, fermo su un binario vicino. Il carburante in fiamme si rovescia sulla banchina e scivola giù lungo i gradini del sottopassaggio, verso gli innocenti passeggeri dei due treni. Molti giorni dopo, quando il calore finalmente permette ai soccorritori di scendere nella galleria, di centinaia di esseri umani verrà trovato solo uno strato di cenere.

    Il futuro scrittore Luciano Bianciardi, all’epoca allievo ufficiale a Foggia, racconta di quando insieme ai propri commilitoni, partecipò al recupero delle salme. E’ una pagina atroce, un pugno nello stomaco. A leggerla si provano le stesse sensazioni di nausea e di orrore del giovane Bianciardi, mentre descrive i corpi macellati dalle bombe e impastati con l’asfalto liquefatto, il recupero del corpo di un vecchio con sopra la mano di un bambino recisa al polso, la disperazione del padre che ha visto morire i suoi tre bambini e che implora i soldati di portarlo via con loro, sullo stesso carro dei morti. E alla fine Bianciardi, rifiuta di farsi il segno della croce “perché quella non era una morte consacrata, era uno scempio osceno del corpo e dell’anima dell’uomo” e, traumatizzato, si siede su una tomba.

    Non sapremo mai quanti morirono a Foggia nell’estate del 1943, ma certo furono numerose migliaia. Come non sapremo mai con esattezza la cifra degli italiani che persero la vita durante i bombardamenti alleati e tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, alle quali vanno aggiunte anche le vittime dei bombardamenti sulle Terre Perdute, dove migliaia di civili furono uccisi a Zara, distrutta in una serie di incursioni aeree suggerite dagli jugoslavi ( i quali avevano falsamente fatto credere agli Alleati che la città dalmata fosse un importante obiettivo militare) e Spalato dove sono ignote le vittime della comunità italiana durante gli spietati bombardamenti tedeschi del settembre 1943. Gli studi più recenti ipotizzano che tra gli 80.000 ed i 100.000 italiani morirono sotto i bombardamenti ma gli stessi studiosi pensano che al già atroce numero debbano essere aggiunti coloro che negli anni successivi morirono per le ferite, i traumi e le mutilazioni subite.

    In questa spaventosa cifra vanno compresi gli oltre 140 Poliziotti italiani (ma anche qui il numero esatto non si conoscerà mai) che caddero sotto le bombe tra il 10 Giugno 1940 ed il 25 Aprile 1945.

    140 Poliziotti dei quali abbiamo voluto commemorare il sacrificio estremo, raccontando le storie di Gaspare, dello sconosciuto maresciallo genovese, di Costantino e di Giuseppe, di quattro Italiani travolti dalla guerra insieme ai loro connazionali ed alla loro Patria.

    E’ accaduto ieri.

    (Fabrizio Gregorutti)
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    Categoria: Concessioni coloniali del primo Novecento
    Anno: 1924
    Luogo: Tientsin
    Oggetto: un gruppo di poliziotti cinesi reclutati sul posto.
    Fonte: collezione privata
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    Categoria: Concessioni coloniali del primo Novecento
    Anno: --
    Luogo: Tientsin
    Oggetto: la mappa con l'estensione territoriale della concessione di Tientsin
    Fonte: collezione privata
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    Categoria: Concessioni coloniali del primo Novecento
    Anno: 1932
    Luogo: Tientsin
    Oggetto: una rarissima foto dell'ingresso di un commissariato di pubblica sicurezza.
    Fonte: collezione privata
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    Categoria: Concessioni coloniali del primo Novecento
    Anno: 1924
    Luogo: Tientsin
    Oggetto: la formazione degli agenti di pubblica sicurezza si avvalse della prassi (già collaudata in Africa con gli Ascari) di arruolare indigeni locali appositamente istruiti. La foto potrebbe essere stata scattata nella caserma "Carlotto", unica struttura deputata allo scopo in una concessione territorialmente molto piccola.
    Fonte: collezione privata
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    Tra il 1882 e il 1945, secondo fasi e finalità diverse e con governi altrettanto diversi, l'Italia pose in essere una serie di spedizioni in Africa con lo scopo di iniziare e quindi espandere un proprio dominio coloniale, sulla scorta di ciò che avevano fatto altre grandi potenze europee.

    Il periodo che ci interessa (tra il 1882 e il 1915) coincide con la fase detta "impelialista" della nostra Nazione: oltre che le colonie d'Africa (Eritrea, Somalia e Libia), si arrivò addirittura nell'Impero del Sol Levante con un fazzoletto di terra in concessione a Tientsin.

    L'articolo che segue, estrapolato da "Il Lavoro" di Genova del 30 settembre 1913, cita espressamente la presenza di funzionari, sottufficiali e guardie dell'allora Corpo delle Guardie di Città inviati in quelle colonie a gestire la pubblica sicurezza coloniale.
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    Buongiorno a tutti!

    ForumFree ha introdotto una nuova modalità di inserimento delle fotografie nei vostri post attivando la funzione "Huppy" indicata dalla freccia verde nella foto qui sotto. Tale modalità vi consente di inserire più foto nello stesso post: basta cliccare sull'icona e seguire le indicazioni. Potete anche ampliare il vostro profilo fino a 2Gb di immagini!

    In alternativa, se dovete caricare una sola foto nel post, rimane attiva anche la funzione tradizionale "Scegli File" evidenziata dalle frecce rosse: basta cliccare sulla graffetta e scegliere il file da caricare.

    Buona prosecuzione!
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    Il malcontento tra gli agenti sfociò anche in organizzazioni tra commilitoni, tese alla ribellione.
    Questo articolo è tratto dal quotidiano "Il lavoro" di Genova del 10 settembre 1913.
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    Briganti e accoltellatori in Romagna, una brutta storia di omicidi.
    di Massimo Gay




    Non avrei immaginato che la storia di questa terra, dove ho soggiornato per diversi periodi di vacanza, potesse essere a me sconosciuta a tal punto. Leggendo numerosi testi e esaminando i giornali dell’epoca emerge una regione povera ma molto fiera, che ha sempre rivendicato con estremo compiacimento il proprio passato dal carattere ribelle e sanguinario enfatizzato e personificato in una figura simbolo: il “Passatore”. L’ex traghettatore e brigante Stefano Pelloni il cui viso barbuto, ancora oggi, occhieggia sulle etichette di noti vini romagnoli. Primo, per notorietà, di una serie di malfattori operanti in una regione non certo posizionata a sud, esponente di spicco di quel fenomeno “brigantesco” semisconosciuto in regioni più settentrionali, ma arcinoto in quelle meridionali del quale si è detto e si è scritto notevolmente.

    Rispetto al ricordo del bandito eroe, giustiziere dei torti subiti dalla povera gente, resistente contro la tirannide del governo e dei proprietari terrieri, diffuso tra i contadini del sud, quello emiliano-romagnolo ne mutuava solo il carattere della crudeltà, finalizzata al raggiungimento del solo e unico scopo: il denaro.

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    Uno dei tanti scontri tra guardie di P.S. e briganti



    I mezzadri e i contadini, loro obiettivi privilegiati, non importava se ricchi o poveri, ne erano terrorizzati. Il timore di rappresaglie, esercitato nei loro confronti, ne favoriva la latitanza trasformando i malcapitati coltivatori e allevatori, vittime indifese qualora residenti in zone rurali isolate, in manutengoli (sostenitori) o fiancheggiatori.

    A questo proposito, è emblematico l'episodio riferito da un giornale ravennate del 28 settembre 1865, dove si narra dell'assalto alla casa di un contadino da parte di una banda di quattro banditi che, non trovando nulla di valore da rubare, gli uccisero un figlio e gliene ferirono altri due.

    Le scorrerie sanguinarie poste in essere da bande cospicue di malfattori che invadevano, occupando “manu militari” interi paesi razziandoli dei loro beni, rivivono, ancora oggi, in ballate e racconti orali. A seguito di ciò, per porre al sicuro gli averi della popolazione, si ebbe la tendenza alla proliferazione, come in nessun’altra regione italiana, di banche rurali e locali.
    Gli anni che vanno dalla fine del brigantaggio, di pelloniana memoria, all’Unità d’Italia passarono lenti, colmi di sventure e tragiche calamità. Inondazioni e terremoti modificarono l’aspetto del territorio, specialmente quello della bassa ravennate; inoltre epidemie di colera falcidiarono la popolazione.

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    Ancora una tavola dell'epoca che immortala l'ennesimo scontro a fuoco tra guardie di P.S. e briganti



    Dopo l’Unità d’Italia nulla cambiò, anzi per il popolo le condizioni peggiorarono; i “Piemontesi” portarono nuove tasse e servizio militare obbligatorio, di durata notevole.

    La leva obbligatoria istituita, nel 1860, dai Savoia era di otto anni, senza scappatoie se non quella di pagare una cifra molto rilevante. I giovani erano chiamati a servire lo Stato per molto tempo, sottraendo braccia all’agricoltura, all’artigianato e sicuro reddito alle famiglie che si impoverivano sempre di più. Inoltre, nuove tasse reclamavano denaro per l’Erario, depauperato dalle guerre sostenute per unificare l’Italia. Così alcuni, più esasperati di altri si diedero al brigantaggio, altri ancora si costituirono in sette vincolate dalla segretezza e dall’omertà. Una tra le più famose fu quella degli “accoltellatori”, essa aveva connotazione e implicazioni prettamente politiche e, per lungo tempo, terrorizzò la provincia di Ravenna.

    Il termine “accoltellatore” era usato a quei tempi, per indicare genericamente tutti gli assassini che in quei luoghi (Romagne) si servivano prevalentemente del coltello o dello stile (stiletto). Col tempo la parola assunse una connotazione particolare, a designazione di omicida per motivi politici: non a caso era spesso abbinata anche alla parola “repubblicano”, usata dal governo monarchico per presentare questi ultimi come assassini sanguinari.

    Il banditismo da strada e le sette furono rigogliosi in Romagna in ogni epoca, anche sotto il governo clericale. Già dalla fine del ‘700 il popolo mostrava segni di ribellione nei confronti del clero e dei pochi latifondisti sfruttatori delle povere genti, i quali non si prestavano a reinvestire i propri proventi in miglioramenti dei fondi o delle condizioni di lavoro.

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    Spesso gli scontri a fuoco si trasformavano in drammatici corpo-a-corpo



    Più tardi si era radicato il seme depositato dalla rivoluzione francese; le idee di libertà, di democrazia e giustizia sociale avevano attecchito penetrando profondamente in un ambiente molto sensibile a quegli ideali politici. Le idee rivoluzionarie ribollivano come il vino in fermentazione, lo dimostra il nutrito seguito popolare ricevuto dalle sollevazioni popolari del 1831, del 1843 e del 1845. Neanche lo stato pontificio, sostenuto dalle truppe austriache, e l’invio di vari cardinali, tra i quali il famoso Agostino Rivarola, erano riusciti, nonostante la cruenta repressione, ad addomesticare i rivoltosi carbonari.

    Successivamente il territorio delle Romagne alimentò per decenni il volontariato garibaldino e mazziniano. La Romagna, repubblicana e mazziniana seguirà Garibaldi nelle sue spedizioni, anche le antecedenti a quelle che portarono all'unificazione. “L’Eroe dei due Mondi” era considerato colui che armando il braccio avrebbe fatto la rivoluzione. Dire di quella regione che fosse un covo di repubblicani è la pura e semplice verità.

    Le popolazioni di quei territori, specialmente quelle delle cittadine portuali dedite a commerci legali, per sopravvivere si davano sovente al contrabbando e, per assicurarsi facilmente l’impunità, cercavano la corruzione dei Pubblici Ufficiali (Guardie Daziarie e di Pubblica Sicurezza). Quelli, tra questi, che non aderivano e si evidenziavano per il troppo zelo venivano prima minacciati, anche per iscritto, se non addirittura uccisi.

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    Spesso i briganti dovevano essere stanati all'interno dei loro "covi"



    In pubblico la gente sfuggiva contatti umani approfonditi con i dipendenti governativi, in particolare poliziotti ed impiegati di Polizia. Considerati come “appestati” venivano isolati dal resto della cittadinanza, soprattutto per il timore che si potesse essere ritenuti dalla pubblica opinione informatori della Polizia e, soprattutto, delle conseguenze che i malviventi potevano infliggere a coloro che li avvicinavano.

    I briganti

    La presenza di briganti, nel territorio emiliano e romagnolo è attestata da documenti storici almeno fin dal Cinquecento. Sottoposte allo Stato della Chiesa, con parti del territorio controllate da altre entità confinanti (Granducato di Toscana, Legazioni di Bologna e Ferrara, oltre a territori in carico alle odierne Marche), le Romagne videro scorrere un flusso incessante di merci di contrabbando che alimentarono la piccola criminalità locale. Il salto di qualità, da contrabbandiere a brigante, non era scontato, ma la rete di potenziali manutengoli legata al traffico illegale, favorita dalla povertà endemica del territorio, erano fattori che potevano contribuire al proliferare di bande brigantesche, particolarmente attive nei periodi di crisi delle istituzioni. Bande che potevano sfruttare le zone ancora difficili da controllare come: le paludi della Bassa Romagna, i territori montani e quelli di confine tra Stati confinanti, che adottavano legislazioni diverse, dove i briganti potevano fuggire in caso di inseguimenti o rastrellamenti.

    Nell'Ottocento i dati sui briganti sono molteplici e contribuiscono a ricostruire un quadro abbastanza preciso, a partire dall'età Napoleonica fino alla progressiva estirpazione del fenomeno, dopo l'Unità d'Italia.

    Ecco un elenco, parziale, di alcuni briganti noti, per le loro gesta, a partire dalla fine del Settecento.
    Sebastiano Bora detto “Puiena”, attivo tra la Presidenza d’Urbino e la Legazione di Romagna.
    Tommaso Rinaldini da Montemaggiore (Urbino) detto “Mason d’la Blona” (Tommaso dell’Isabellona), che succede a “Puiena”, insistendo grosso modo sul suo territorio. Numerosissimi i briganti attivi durante i primi momenti dell'invasione napoleonica. La situazione si stabilizza nel 1802, ma dal 1805 il fenomeno ricompare.
    Spicca in questo periodo il brigante trentenne Michele Botti, detto "Falcone", attivo nelle zone intorno a Bagnacavallo. La sua carriera termina durante lo scontro a fuoco con le forze dell’ordine alle 9,00 del 14 maggio 1810, in Fondo Roncorosso a Bagnara. Dopo la restaurazione il fenomeno, endemico, del brigantaggio prosegue in sordina.
    Spostandoci ai confini tra Marche e Romagna troviamo Antonio Cola, soprannominato “Fabrizj”. È il delinquente dalla carriera più lunga tra i briganti che hanno agito anche in territorio romagnolo. La sua zona di azione, tuttavia, andava da Saludecio a S. Giovanni in Marignano, Gallo di Pesaro, Carpegna, Fano; per alcuni anni in Umbria, fino a Gubbio e addirittura a Todi.
    Celeberrimo, qualche anno più tardi, Stefano Pelloni, detto “il Passatore”, che venne ucciso il 23 marzo 1851. Gli succedette Giuseppe Afflitti, di Cantalupo di Imola, detto “Lazzarino”.
    Gaetano Prosperi di Lognola detto “Lo Spirito”, morto nel 1865, molto noto ancora oggi come “Il brigante del Papa Re”, contestatore della leva, probabilmente di sentimenti clericali.
    Luigi Casadio detto “Gaggino”, per via dei suoi capelli rossi, che in camicia rossa e con due crocefissi al collo derubava e uccideva i passanti nelle campagne intorno Ravenna.
    Ed ancora, il “Ripa”, l'Altini e il “Maccione”, mentre l'ultimo brigante di un certo rilievo sarà l'Ometto, dopo l'Unità.

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    Il "passatore" Stefano Pelloni in un disegno dell'epoca



    L'ammonizione e il domicilio coatto

    Per cercare di arginare il fenomeno del brigantaggio e della delinquenza in genere, furono emanati provvedimenti eccezionali, approvati dal Governo con Legge n. 294 del 6 luglio 1871. Questi erano, tra gli altri, l’ammonizione ed il domicilio coatto. Con tale provvedimento legislativo, furono delineate meglio due figure già presenti nell’ordinamento, dandogli valenza giuridica: l’oziosità e il vagabondaggio.
    L’ammonizione si applicava a seguito della denuncia scritta dell’autorità di P.S., “…ovvero anche senza denuncia in seguito della pubblica voce o notorietà...”.

    Il magistrato poteva chiamare a se il vagabondo o l’ozioso e con lo spauracchio dell’arresto, da tre a sei mesi, se non avesse obbedito, lo ammoniva a darsi immediatamente a stabile lavoro e, nel contempo, lo obbligava a non allontanarsi dalla località di dimora senza comunicazione all’autorità di Pubblica Sicurezza. Se non cambiava atteggiamento il magistrato gli comminava l’ammonizione.

    Per realizzarsi l’oziosità dovevano concorrere tre elementi, cioè che l’imputato fosse:
    - Sano e robusto, abile al lavoro.
    - Non provveduto di sufficienti mezzi di sussistenza, non in grado di vivere senza lavorare.
    - Non dato a stabile lavoro, dal quale possa ricavare i mezzi di sussistenza.

    Realizzandosi queste tre circostanze l’imputato era legalmente ozioso, e si presumeva che vivesse di mezzi illeciti, “…cioè coi proventi del giuoco o del lenocinio o della frode o del furto, e quindi lo annovera fra le persone pericolose per la Sicurezza Pubblica o lo punisce coll’ammonizione”.

    A costituire il vagabondaggio dovevano concorrere tre elementi, cioè che l’imputato fosse:
    - Senza domicilio certo, vale a dire senza un’abitazione nella quale abitualmente dimori, perché non basta che abbia un domicilio legale, o una casa in cui non abiti.
    - Senza mezzi di sussistenza, non in grado di vivere senza lavorare.
    - Senza l’esercizio abituale di un lavoro realmente sufficiente a procurargli i mezzi di sussistenza.

    Concorrendo questi tre elementi l’imputato era legalmente vagabondo, quindi: “…la Legge presume che, come l’ozioso, viva di mezzi illeciti, lo annovera fra le persone pericolose per la Sicurezza Pubblica e lo punisce col carcere”.
    Ne conseguiva che: “…I vagabondi dichiarati legalmente sono puniti con tre mesi di carcere, mentre gli oziosi soggiacciono alla stessa pena solamente quando abbiano contravvenuto ad una precedente ammonizione…”.

    L’invio al domicilio coatto, rispetto all’ammonizione, era un provvedimento esclusivamente amministrativo, subordinato per legge, alla condanna per contravvenzione dell’ammonizione.
    Infatti: “Il Prefetto nell’interesse dell’ordine e della Sicurezza Pubblica, può sempre vietare al condannato come ozioso e vagabondo di stabilire il domicilio nella città od altri luoghi da lui scelti dopo che ha finito di espiare la pena”.

    Con la nuova formulazione il domicilio coatto si doveva applicare, dal Ministero dell’Interno, per gravi circostanze di sicurezza e ordine pubblico, contro l’ozioso e il vagabondo già condannati, per un periodo di sei mesi fino a due anni. E da un anno a cinque anni sempre per le medesime figure, se recidive.

    Infine; ai sensi dell’art 105 della Legge sulla Pubblica Sicurezza, le medesime fattispecie si potevano applicare anche alle persone sospette “..come grassatori, ladri, truffatori, borsaioli, ricettatori, manutengoli, camorristi, maffiosi, contrabbandieri, accoltellatori e tutti gli altri diffamati per crimini e per delitti contro le persone e le proprietà”.

    In antitesi alle legge vigente all’epoca, esimi studiosi affermavano che “non si deve punire l’intenzione, il sospetto o la capacità del reato, ma il reato commesso” Secondo i detrattori di tale sistema, invece, il domicilio coatto era “…una istituzione sbagliata ma l’applicazione non potrebbe essere peggiore“, inoltre “…non si può considerare come ulcera benigna da potersi guarire con mezzi terapeutici, ma come cancro da estirparsi col ferro, se si vuole offrire al corpo sociale ammalato l’unico modo di risanare.”

    Una volta ammoniti lo si era per tutta la vita, in quanto difficilmente si poteva uscire dal circolo vizioso in cui si era stati catapultati e che tale istituto era lasciato esclusivamente all’arbitrio dei carabinieri e dei poliziotti che lo utilizzavano, spesso in modo discutibile, ma soprattutto dei magistrati poco accorti che lo applicavano “de plano”, senza controllo né ingerenze.


    Gli accoltellatori e l’assassinio del Procuratore del Re, Cesare Cappa

    L’avvocato Cesare Cappa (cugino del Maggiore di P.S. Domenico Cappa, noto per aver scritto nel 1892 un libro autobiografico che narra anche del suo servizio svolto in varie città d’Italia), era Procuratore del Re presso il Tribunale di Ravenna. Egli fu mortalmente ferito da una pugnalata alle spalle, inferta da sconosciuti, la sera del 1° giugno 1868, mentre percorreva via Mariani, verso le 21,30, diretto a casa. Sembra che gli autori del tragico misfatto siano stati gli accoliti della setta degli accoltellatori di Ravenna per vendicare i compagni “che marcivano in prigione per colpa sua”.

    Considerato, dopo la morte, dal quotidiano “Il Ravennate””Un martire del proprio dovere”, pochi giorni prima di morire così scriveva ad un suo amico: “…m’e venuto ripetutamente il pensiero di rinunciare a questo posto difficile, arduo e pericoloso e vivere quietamente nel mio paese… ma abbandonare un posto in queste circostanze e in un momento in cui c’è tanto bisogno di magistrati onesti, vigorosi e indipendenti da ogni camorra, mi parrebbe assai brutta cosa e tale da mettersi a paro della diserzione in tempo di guerra. Resto dunque perché il dovere mi impone di restare e la coscienza di giovare al mio paese mi è adeguato compenso alle fatiche e ai disgusti che provo”.

    Anche dopo l’assassinio di Cappa, preannunciato da minacce anonime, vennero effettuati come già in circostanze analoghe, ma con impegno maggiore data l’eclatanza dell’omicidio dell’illustre tutore dell’ordine, arresti massicci forse operati senza indizi certi, in una città sottoposta, di fatto, a regime militare in seguito all’acquartieramento in quei luoghi del 4° Battaglione Bersaglieri, normalmente di stanza a Bologna.

    Precedentemente al suo omicidio, in una relazione al Governo, Cappa si esprimeva così circa la situazione delle sette nella provincia romagnola: “In questa città e campagna non una, ma più sono le società, parecchie delle quali, costituite con apparenza di mutuo soccorso, di sociale convegno e di lecito scopo politico, altro non sono che tante specie di sette segrete contro la sociale sicurezza. Lo scrivente discorrerà delle più note fra le medesime e con la citazione dei fatti dimostrerà che, sebbene in apparenza dirette a buon fine, od almeno innocue, mirano allo scopo ricordato di somministrare il mezzo ad alcuni di primeggiare, ad altri di impunemente delinquere ed a molti di premunirsi contro i soprusi dei malvagi, associandosi loro o facendoseli amici…”.

    “....Come nelle città così anche nelle campagne lo scopo è quello di osteggiare le autorità e la forza pubblica, e più ancora di aiutarsi a vicenda i soci nei loro pravi disegni, con quella solidarietà che ha scritto sulla bandiera: uno per tutti, tutti per uno”.
    Ed ancora: “.…in questi paesi le persone del popolo sono quasi tutte armate, e sembrerebbe un disonore per un giovinetto non portare lo stile o la pistola; tanta è la passione delle armi che chi non ha denaro superfluo per comprarle si priva del necessario per mettere assieme all’uopo poche lire. Di qui i frequenti omicidi e ferimenti che altrove finirebbero in semplici alterchi e vie di fatto”.

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    Il Maggiore di P.S. Domenico Cappa (pura omonimia con il procuratore del Re di cui sopra), comandante delle Guardie di P.S. a Torino, Ravenna e Milano




    Ravenna, Faenza e il circondario

    Già ai tempi degli Austriaci, bande di accoltellatori sfidavano i rigori della giustizia.
    Nella statistica dei reati dal 1849 al 1870, nel circondario di Faenza, vi furono 559 omicidi dei quali 305 senza colpevoli; nel 1867, 16; nel 1868, 15; nel 1869, 18; nel 1870, 10.
    Cronache giornalistiche di quei tempi narrano di numerosi delitti, di furti, rapine, di taglieggiamenti e di rapimenti perpetrati oltre che a Ravenna anche nel suo circondario, in particolare a Faenza.

    Nel 1865 il brigante “Maccione” rapinava i passanti sulla strada tra Ravenna e Godo, altri due banditi il “Baldrati” ed il “Ripa”, compivano le loro gesta nella zona di Lugo e in quella di Ravenna. Nella medesima zona a settembre dello stesso anno, ci furono due omicidi commessi da ignoti. A Faenza, nel mese di novembre fu ucciso un sottobrigadiere, altri ferimenti a Lugo e Solarolo. Nel gennaio 1866, a Ravenna, di nuovo un omicidio e in febbraio l’uccisione di una Guardia di P.S.. Successivamente da marzo a novembre un omicidio ed altri ferimenti.

    Alcuni dati statistici renderanno meglio, e in sintesi, la gravità del fenomeno omicidiario e dei delitti in genere:
    nel 1868, durante un dibattito parlamentare sui fatti avvenuti nelle Romagne, il Ministro dell'Interno, Cadorna, affermò che tra il 1° settembre 1867 e il 31 maggio 1868 si erano registrati, nella sola provincia di Ravenna, 1.119 reati tra i quali 64 omicidi e 237 grassazioni.
    Nel 1871 la statistica dei reati, redatta dal medesimo Ministero, dichiarava che su una popolazione pari a 221.115 unità, si erano verificati 1.584 reati, 159 dei quali omicidi volontari.

    In seguito all’aumento delle violenze nel 1862 il sindaco di Faenza, Achille Laderchi, si fece promotore di una rimostranza al Governo con questo tenore: “…perché voglia adottare più energiche e decisive misure atte a garantire la sicurezza pubblica”. La giunta comunale di quella città, nella seduta del 17 settembre 1862, propose ai comuni limitrofi Lugo, Bagnacavallo, Brisighella ed altri, di fare causa comune “per invocare provvedimenti efficaci ad arrestare i fatti delittuosi che frequentemente ed anche impunemente, si commettono dai malandrini alla campagna ed anche in pieno giorno”.

    Nel trasmettere la richiesta egli espose un quadro della situazione sicuramente poco rassicurante, aggiungendo: “… le frequenti aggressioni, il numero crescente di fatti lacrimevoli a danno dei pacifici cittadini e dei viandanti hanno portato lo spavento ed il terrore in mezzo alla popolazione di questa provincia, tanto che niuno ormai azzarda di muoversi dalla città , o dai paesi, ed è costretto perfino di privarsi delle ricreazioni e dei piaceri della campagna……”.

    Un episodio, avvenuto a Ravenna nel maggio 1867, rende assai bene il clima intossicato di quel periodo, l’aggressione a due Carabinieri di pattuglia da parte di tredici individui. Era successo che, questi “galantuomini”, erano stati fermati per schiamazzi notturni nel borgo Adriano, e che reagissero accoltellando i malcapitati tutori dell’ordine, apostrofandoli con gli appellativi di “boia, vigliacchi, assassini”. Al processo esposero le loro giustificazioni: “Volevamo cantare e urlare quanto ci piaceva, ché non erano più i tempi del Papa”.

    E gli sforzi del governo, al fine di arginare il fenomeno, non tardarono ad arrivare, già erano stati inviati capaci funzionari e numerose truppe per controllare il territorio, ma evidentemente non bastarono. Ci fu una recrudescenza del fenomeno delittuoso, basti dire che nel gennaio 1868 furono commessi a Faenza tre omicidi in un solo giorno e, tempo dopo nel territorio di Lugo, otto omicidi in un mese e diciotto grassazioni in un giorno solo.

    Vari tumulti si erano già verificati, verso la fine del 1868, in varie località romagnole, per protestare sulla tassa del macinato, qualche tempo dopo vere e proprie insurrezioni di ispirazione mazziniana videro il rinfocolamento degli odi politici e, in particolare, dell’omicidio politico inquadrando, dal 1870, prevalentemente nel territorio faentino l’attività “terroristica” delle sette.

    La reazione governativa non si fece attendere, essa fu incessante, forse in alcuni casi inefficace perché affidata a funzionari e agenti (ma anche i carabinieri non scherzavano) inetti, inadeguati se non addirittura corrotti. In effetti nel 1871 le forze di polizia nel distretto di Faenza erano il doppio di quelle mediamente assegnate in altre provincie.

    Da un articolo riportato sulla Gazzetta Piemontese del 17 maggio 1871 apprendiamo un episodio avvenuto a Ravenna e di quanto la situazione fosse esplosiva:“Racconta il Ravennate che nel giorno di domenica, avendo luogo in Borgo Adriano una festa religiosa in onore della Madonna del Soccorso, due guardie di P.S. procedettero all’arresto di un individuo che si trovava tra la folla. Mentre esse si avviavano col loro prigioniero verso la stazione dei carabinieri, diversi compagni del medesimo lo strapparono alle guardie, le quali però aiutate da parecchi carabinieri a, riuscirono a riprenderlo e condurlo nella Caserma davanti alla quale si era accalcata una gran massa di persone che urlava, fischiava e gettava sassi. In seguito a ciò, due carabinieri, altri dicono Aggiunti carabinieri, fattisi ad una delle finestre del piano superiore della loro Caserma, spararono diversi colpi sulla folla sottostante, senza pensare che se fra questa vi erano colpevoli, vi era pure una quantità di persone innocenti che solo il caso , o la curiosità aveva chiamato. Fatto sta che una povera giovane, un soldato di 2^ categoria che trovasi a Ravenna per la istruzione militare e tre altri borghesi, rimasero feriti dai proiettili esplosi. Questo fatto, aggiunge il giornale, che noi abbiamo narrato a seconda di quanto ci è stato riferito da persone degne di fede, che si trovavano presenti al tafferuglio, ha provocato nell’intera città una giusta indignazione; e perciò giova sperare che le competenti Autorità faranno giustizia, e sapranno punire chi, per ignoranza, o per imprudenza, o per cattiveria, ha abusato delle sue forze”.

    Ma ancora nel giugno 1874, il Procuratore Generale del Re presso la Corte d'Appello di Bologna, in una lettera indirizzata al Ministro di Grazia e Giustizia Vigliani, lo informava che ben 13 delitti erano avvenuti in provincia di Ravenna, tra il 23 marzo e il 2 giugno. Il 27 giugno, il medesimo Procuratore informava il Ministro dell’Interno, Cantelli, del fatto che a Ravenna e a Faenza, era stato organizzato un servizio di agenti di Pubblica Sicurezza travestiti da cacciatori.

    In quattordici anni Ravenna ebbe ben dodici Prefetti, di volta in volta rapidamente sostituiti per incapacità, o per corruzione. Ce ne fu addirittura uno, nel 1874, che venne riconosciuto colpevole di brogli elettorali.

    Uno dei rappresentanti delle Istituzioni che seppe distinguersi per capacità ed efficienza fu il Questore di Ravenna Luigi Serafini, a lui si deve l'eliminazione della setta degli “accoltellatori”. Avvalendosi di un delatore, uno degli accoliti della setta, Giovanni Resta, riuscì con numerosi arresti ad azzerarne i ranghi. Giuntovi nel marzo 1871, vi rimase per quattro anni in un ambiente politico dove, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il contrasto tra le forze moderate e quelle democratiche divenne sempre più manifesto, dissidi politici tra ferventi fazioni si accendevano e spesso “ci scappava il morto”. Come quella volta in cui in prossimità di Porta Alberoni, a Ravenna, durante il funerale del simpatizzante socialista Achille Spada, morto giovanissimo, nacque un tumulto tra polizia e internazionalisti e, durante gli scontri, decedette una Guardia di P.S.. Oramai erano permeate le idee dell’internazionale Socialista, sorta a Londra nel 1864, ad orientamento marxista, evolutesi successivamente in anarchiche (a Bologna, nel 1874 fallì una sollevazione capeggiata dall'anarchico Michail Bakunin), tutte orientate contro un governo che stava trasformandosi in capitalista, creando malessere nelle classi povere e sfruttate.

    Nel marzo 1870, avvenne l’uccisione del Prefetto Militare della città di Ravenna, il Generale nizzardo Escoffier.

    A seguito del deteriorarsi della situazione dell’ordine pubblico nella provincia di Ravenna, e per porre un freno alla delinquenza, che era riuscita, nonostante il precedente invio di militari poliziotti e carabinieri, a non essere eliminata o quantomeno limitata, si decise di accentrare le attribuzioni civili, di indirizzo politico e militari nelle mani di un’unica persona capace di gestire questo “grande potere”. Venne inviato dal Governo il Generale Escoffier, il quale si diede molto da fare per cercare di estirpare la piaga del malandrinaggio. Costui si dimostrò ligio ai propri doveri e zelante, al punto da applicare le disposizioni penali col massimo rigore, riuscendo ad assicurare alla giustizia numerose persone indiziate di omicidi, grassazioni e altri delitti.


    L’assassinio del prefetto di Ravenna, Generale Carlo Pietro Escoffier

    Carlo Pietro Escoffier, nato a Nizza il 29 giugno 1825, già pluridecorato (era stato ferito nella battaglia di S. Martino e questo gli valse una medaglia d’argento al Valor Militare), era giunto a Ravenna nel settembre del 1868 da Forlì, dove comandava una Brigata con il grado di Maggiore Generale. Tre mesi prima era avvenuto l’assassinio del Procuratore del Re Cesare Cappa, ed anche a seguito di questo efferato delitto fu presa, da Giovanni Lanza, la decisione di inviare un Prefetto che riunisse a se poteri civili e militari onde poter fronteggiare meglio la recrudescenza degli episodi delittuosi.

    Il Generale attirò su di se le antipatie dei repubblicani ravennati e di quelli romagnoli, in quanto emanò vari provvedimenti molto restrittivi tra i quali spicca, per la sua singolarità, la chiusura anticipata dei locali pubblici. Concorse inoltre alla cattura del brigante “Gaggino” così chiamato perché “gagio”, rosso di capelli. Noto alle forze dell’ordine per la sua scaltrezza nel fuggire e nascondersi nei campi, tra le coltivazioni, oltre che per la sua crudeltà, aveva ucciso per pochi spiccioli un sacerdote. A seguito di una delazione, per intascare la taglia posta sulla sua testa, fu ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri a Filetto nell'ottobre 1868.

    Altri provvedimenti intrapresi furono: lo scioglimento, a Faenza, della “Società del Progresso”, della quale faceva parte anche Aurelio Saffi, colpevole di “aggregare uomini irrequieti e turbolenti facinorosi e rei”, e lo scioglimento della Guardia Nazionale (organo posto a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, militarmente organizzato, composto da volontari), probabilmente ritenuta corrotta o non idonea a fronteggiare tale frangente.

    Altri metodi ritenuti “tirannici” vennero, da questi, intrapresi per ristabilire l’ordine nel circondario di Faenza dove, a detta della pubblica opinione, la situazione era, rispetto a Ravenna, di gran lunga peggiore. A riprova basti citare ad esempio le cronache cittadine dal 10 al 14 dicembre 1869, che registrarono tre feriti e un morto.

    La stampa di parte progressista e repubblicana attaccò, dalle pagine dei propri giornali, i metodi dispiegati dal Prefetto, anche Giovanni Lanza che un tempo aveva proposto Escoffier, di fatto poi lo sconfessava in alcuni dibattiti parlamentari. Solo la stampa locale di parte moderata, ne enfatizzava le gesta e i risultati citando addirittura episodi precedenti: di come si fosse prodigato per impedire alla Polizia di sparare contro la folla a Forlì, durante un tumulto, oppure di come dispose, in occasione dell’omicidio di una Guardia di P.S., tale Ninfalone da Vicenza, fatto avvenuto il 7 novembre 1869 a Ravenna presso Porta Sisi, durante una zuffa tra alcuni giovani e guardie di P.S., la scarcerazione di 13 delle 16 persone che il Questore aveva fatto imprigionare.

    Unico neo, del quale molto si rammaricava, tacciando di incapacità il Questore, fu l’episodio del furto di 44 franchi perpetrato nei suoi confronti da Angelo Forti, un soldato posto al suo servizio, il quale dopo l’episodio si rifugiò a Roma. In realtà non fu reso di dominio pubblico il fatto che il soldato, oltre al denaro, fece sparire alcune carte (sicuramente molto importanti) dall’ufficio di Escoffier, quasi certamente egli era una spia al soldo del governo clericale. Vane furono, infatti, le richieste di estradizione avanzate verso il governo papalino.
    A seguito dell’episodio, si dovettero registrare numerosi trasferimenti di poliziotti da Ravenna verso altre sedi, voluti ed ottenuti dal Prefetto, il quale presupponeva, forse supportato da prove, connivenze della P.S. con i contrabbandieri locali, già avvenute in passato con le ex gendarmerie pontificie.

    In un simile contesto maturò il suo omicidio, che tanto scalpore suscitò tra la popolazione ed ancor più nelle istituzioni.
    Il delitto avvenne la mattina del 19 marzo 1870 nell’ufficio del Generale, a commetterlo il Questore di Ravenna Pio Cattaneo, reo confesso.
    L’Ispettore di P.S. nativo di Novi Ligure, già avvocato, si era distinto in precedenza per la lotta senza quartiere che aveva ingaggiato nelle provincie di Avellino e Caserta, contro i briganti locali, addirittura presso quest’ultima cittadina si era visto insignire della qualifica di “cittadino onorario”. Risulta anche decorato, nel 1869 quando era Questore a Messina, di medaglia di bronzo al Valor Civile.

    Durante il processo, l’ex poliziotto affermò di aver perso la testa dinanzi alla decisione di Escoffier di trasferirlo a Grosseto e sostituirlo con il Delegato Cesare Campadelli, suo stretto collaboratore. Questo era stato l’ultimo di una serie di atti ostili che avevano visto fronteggiare i due, già in altre circostanze erano avvenuti dissapori, come quella volta in cui il Generale fece scarcerare una parte degli arrestati a seguito dei fatti, già citati, del novembre 1869 avvenuti a Porta Sisi.

    Durante la discussione precedente al delitto, il funzionario, al quale la propria reputazione e la carriera dovevano essere immensamente care, implorò il superiore di bloccare per qualche tempo il provvedimento, al fine di non farlo tacciare di infamia dai suoi dipendenti e dai cittadini. Escoffier ribatté minacciando di farlo arrestare dai Carabinieri e Cattaneo, giunto al culmine della momentanea pazzia, estratte due pistole, fece fuoco due volte contro il Generale, uccidendolo. Nella concitazione conseguente gli spari, cercò di far credere ad un incidente avvenuto mentre mostrava le armi al Prefetto, ma poco dopo messo alle strette confessò e fu arrestato.

    Circa trenta giorni dopo fu celebrato il processo. Esso si concludeva, il 29 aprile alle 23,55, con la lettura della sentenza di condanna dell’imputato a vent’anni di lavori forzati e pene accessorie di legge. Dai resoconti del dibattimento si scopre che Cattaneo non presenziò in aula e che il verbale del suo interrogatorio fu, stranamente, dettato in carcere subito dopo l’arresto.


    L’uccisione del Sottobrigadiere di P.S. Vincenzo Valli

    Vincenzo Valli, nativo di Faenza, aveva 55 anni quando fu trovato morto in circostanze misteriose. Viene descritto dal Deputato Lodovico Caldesi, in una sua lettera al quotidiano il "Ravennate", come "Veterano della Libertà" e "Sincero Patriota". Il Valli, perseguitato sotto il governo clericale, dovette emigrare in Francia trovando lavoro nelle miniere e successivamente come operaio ferroviario. Dopo l'amnistia poté ritornare a Faenza, ma incurante dei rischi legati ai suoi sentimenti politici venne di nuovo perseguitato e accusato di omicidio, quindi condannato, assieme ad altri, ai lavori forzati a vita. Ottenne uno sconto di pena dopo che una deputazione di cittadini si recò dal Pontefice, per perorare la sua condizione: quattordici anni di Bagno Penale. Liberate le Marche, annesse al Regno d'Italia, fu liberato dalla prigione dove scontava la sua pena e tornò di nuovo dai suoi affetti a Faenza, come Patriota perseguitato poté ambire al posto di Guardia di P.S. e, poco tempo dopo, promosso Sottobrigadiere.

    La sera dell'8 novembre 1865 venne assassinato da ignoti, con un colpo d'arma da fuoco. Non si hanno elementi certi se per motivi della sua attività lavorativa o per acrimonia di natura politica.


    L’assassinio del Delegato di P.S. Cesare Campadelli

    Cesare Campadelli, trasferito da Imola a Ravenna nel febbraio 1866, fu uno dei più valenti collaboratori del prefetto Escoffier. Laboriosamente raccolse le prove, interrogò gli indiziati e accertò i misfatti posti in essere dalla setta, mettendo in condizione la magistratura di istituire un processo e di giungere, successivamente alla sua morte, decretata per la sua troppa solerzia, alla condanna degli omicidi settari.

    Il delitto avvenne il pomeriggio alle 15,00 del 4 aprile 1870 a Lugo. Subito dopo la morte di Escoffier, il quale lo aveva proposto per l’avanzamento di grado, era stato promosso Delegato di 1a classe e trasferito frettolosamente presso la Delegazione di Bologna perché si temeva per la sua vita. Aveva già spedito le masserizie e si accingeva a partire anch'egli con il treno delle 18,15. Si era congedato dal salutare un amico in strada Cortalunga e si incamminò verso la stazione. Arrivato nei pressi della piazza principale, venne affrontato da due individui che gli spararono due colpi di pistola che andarono a vuoto, questi misero quindi mano ai coltelli e gli assestarono numerosi colpi e poi lo percossero con i calci delle pistole e, vistolo oramai esanime a terra, si allontanarono in direzione della campagna. Il Campadelli spirava poco dopo l'arrivo delle Guardie di P.S., richiamate dagli spari.

    Era disarmato perché aveva portato la sua arma dall'archibugiere che gli doveva fondere delle palle di piombo.

    Le successive indagini, portarono all’arresto di un solo individuo che venne riconosciuto colpevole e, il 7 Maggio 1877, condannato ai lavori forzati a vita.


    La morte della Guardia di P.S. Ninfalone (nome sconosciuto)

    Liberamente tratto da una cronaca de “Il ravennate” del 10 novembre 1869.

    Durante una pattuglia notturna per le vie di Ravenna, due Guardie di P.S. incontrarono degli schiamazzatori ubriachi, i poliziotti li invitavano a cessare gli schiamazzi e ne scaturiva un alterco che degenerava in una colluttazione. Essendo in numero superiore, gli avvinazzati riuscivano ad avere la meglio sui poliziotti disarmandoli e, subito dopo, si davano a precipitosa fuga, non prima di avere estratto, uno di questi, un lungo coltello che affondava nelle carni della povera guardia Ninfalone, di Vicenza, ferendolo mortalmente. Soccorso dal compagno e da alcuni colleghi passati lì nei pressi per caso, veniva trasportato all’ospedale dove decedeva l’8 novembre 1869, giorno successivo ai fatti.

    Da notare nell’articolo che o c’è un refuso, oppure il servitore dello Stato non era degno neanche che il redattore si accertasse del nome di battesimo e lo trascrivesse.

    La morte della Guardia di P.S. Fortunato Granucci

    Fortunato Zaccaria Granucci, di Nicodemo e Marianna Meschinelli era originario di Pariana comune di Villa Basilica (LU). Nato il 13 marzo 1839, morì il 24 Settembre 1871 a Faenza, in uno scontro a fuoco con un gruppo di malviventi. La Guardia di P.S. Granucci, insieme a due suoi colleghi, le Guardie di P.S. Elia Marinelli e Desiderio Zucchi, era impegnata in un servizio di perlustrazione in una zona alla periferia della città romagnola dove, in una taverna, si stava svolgendo una festa. Giunti nei pressi dell'osteria, i tre vennero insultati da un nutrito gruppo di avventori del locale. I tre poliziotti invitarono alla calma i presenti, ma uno di questi si scagliò sul Marinelli, aggredendolo verbalmente e insultandolo pesantemente, tanto da costringere il poliziotto ad arrestarlo. Durante tale tentativo, uno degli altri avventori estrasse di tasca una pistola e fece fuoco contro il Marinelli, la pallottola però colpì alla testa il Granucci che era accorso in difesa del collega, uccidendolo. Nel frattempo altri individui si scagliarono contro la Guardia Zucchi, tentando di disarmarla nonostante la sua disperata resistenza. Il Marinelli intervenne quindi in suo soccorso, riuscendo a sottrarlo agli aggressori, dopo avere esploso numerosi colpi con la rivoltella d’ordinanza, ferendo almeno uno degli aggressori e costringendo il resto del gruppo a darsi alla fuga. Durante la notte vennero arrestate numerose persone, ritenute coinvolte nell’assassinio del Granucci.

    Il 22 novembre 1871 solamente le Guardie Marinelli e Zucchi, vennero decorati, il primo di Medaglia d’Argento al Valor Militare, mentre il secondo, solamente con una menzione onorevole. Nulla per il povero Granucci.
    L'episodio è stato raffigurato in una cartolina celebrativa della serie “Atti eroici delle Guardie di P.S.” edita dal Ministero dell'Interno e illustrata dal pittore Vittorio Pisani.


    L’assassinio del Delegato di P.S. Gedeone Cavazzoni

    Il Delegato di P.S. Gedeone Cavazzoni, veniva ferito mortalmente con due colpi di pistola alla schiena, la sera del 16 luglio 1872, a Faenza. A marzo dello stesso anno era stato trasferito presso la Delegazione di Alessandria per “autotutela”, perché aveva ricevuto numerose minacce anonime e si temeva per la sua incolumità.

    Molto attivo a livello investigativo, vantò numerosi arresti operati nel circondario di Faenza.

    Proprio per testimoniare in un procedimento penale contro alcuni malfattori faentini, appartenenti ad una setta, si recò a Ravenna. Trovandosi nelle vicinanze, dopo lo svolgimento dell'udienza, volle tornare dove aveva lavorato in precedenza, per rivisitarne i luoghi e, probabilmente, ritrovarsi con alcuni colleghi. Fu così che, verso le 19,30, mentre si trovava a passeggio, a due passi dalla piazza maggiore, in compagnia di altri Delegati di P.S. suoi amici, fu colpito alla schiena da due individui rimasti sconosciuti, che si diedero repentinamente alla fuga. Gli assassini, nonostante fossero inseguiti dai funzionari presenti, fecero perdere le loro tracce.

    A seguito delle ferite riportate, il Cavazzoni decedeva il successivo 18 luglio.


    Conclusioni.

    Troviamo briganti già dalla fine del ‘700, motivati prevalentemente dalla povertà endemica, i quali spadroneggiavano nei territori dove era meno presente il controllo da parte delle istituzioni. Spesso goderono delle protezioni di coloro i quali ne subivano le vessazioni, per paura di rappresaglie. Questo consentì, per parecchio tempo, l'inefficacia degli strumenti messi in campo al fine di estirpare il fenomeno: quali esercito, forze di polizia e leggi speciali. La loro latitanza si interrompeva spesso in modo tragico, molto spesso catturati armi alla mano venivano giustiziati sul posto, come sancivano le leggi dell'epoca. Hanno lasciato in eredità, alle popolazioni, i miti e le leggende legate al territorio.

    A differenza dei briganti, gli appartenenti alle sette provenivano quasi totalmente dagli ambienti repubblicani o mazziniani. Molto spesso soci o quadri dirigenziali delle società di mutuo soccorso, sorte a tutela dei diritti degli operai e dei contadini. Perseguitati dal Governo, ossessionato dal repubblicanesimo, che vedeva in loro dei sobillatori, alteratori della pace sociale, essi volevano sovvertire il Regno in Repubblica. Resisi conto dell'impossibilità e vistisi braccati dalla repressione governativa, spesso passarono coi briganti, e dove non uccisi in scontri a fuoco, qualora arrestati, come nel caso dei presunti associati alla setta degli accoltellatori, furono processati frettolosamente e, descritti ai cittadini come sanguinari assassini, condannati sulla scorta di prove non sempre certe.

    Quale enorme cifra sia stata spesa per sostenere l'apparato statale, preposto al contrasto di questi fenomeni, non lo sapremo mai. Certo quei quattrini si sarebbe potuti spendere meglio.
    Strano paese questo Regno d'Italia; monarchia costituzionale che ottenne l'Unità per mezzo dei garibaldini, gran parte dei quali erano giovani repubblicani o mazziniani. Parecchi di loro, laddove non morirono in battaglia prima, morirono dopo condannati a morte dallo stesso Stato che contribuirono a creare.

    Per finire voglio mutuare un giudizio, non mio, ma di Pasquale Villari storico e letterato napoletano, deputato (1870) e poi senatore (1884), infine Ministro della Pubblica Istruzione (1891): “Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose l'urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurgi e pessimi medici...”.

    Come dargli torto?

    Edited by giacal - 22/4/2024, 18:26
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    Categoria: Controllo del Territorio
    Anno: 1965
    Luogo: Alto Adige
    Oggetto: una guardia del Raggruppamento Mobile "Alto Adige". Notare l'uso della cordella azzurra.
    Fonte: Josef Kofler, credits: gruppo FB "Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza"
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    Nella continua ricerca dei nostri Caduti è capitato spesso di imbatterci in articoli di cronaca e addirittura nei fascicoli dei rilievi di incidenti stradali occorsi ai nostri Colleghi negli anni Cinquanta e Sessanta.

    Pagine ingiallite di vecchi quotidiani scritte in linguaggio molto formale, vecchie "veline" battute a macchina in uno strettissimo "burocratese" (che al giorno d'oggi in certi uffici non è poi cambiato di molto) ci tramandano le descrizioni di una viabilità da terzo mondo, con le odierne strade statali ancora definite "lo stradale per....", spesso in ghiaia e terra battuta. A deviare da esse si entrava poi in una sorta di terra di nessuno, fatta di stradine secondarie spesso tortuose, poco manutentate e - di notte - per nulla illuminate.

    Eppure erano i famosi "itinerari" che gli agenti della Polizia Stradale dovevano percorrere tassativamente a qualunque ora del giorno e della notte, con qualsiasi condizione atmosferica. E sempre, sempre motomontati.... Erano tempi in cui lo "stradalino" era e doveva essere un tutt'uno con la moto, secondo una visione nata obsoleta già nel 1947, antico retaggio di strutture arcaiche ormai scomparse; erano tempi in cui al proprio rientro in caserma alla fine del turno lo "stradalino" si vedeva contare dal proprio comandante i chilometri percorsi, per vedere se effettivamente l'itinerario era stato rispettato, costasse quello che costasse. Anche la vita.

    Erano i tempi delle famigerate ispezioni a sorpresa, anch'esse fatte a qualunque ora del giorno e della notte, spesso contraddistinte più dalla sadica voglia di disciplina: guai a farsi trovare con la divisa in disordine (e poco importa se poco prima eri stato a rilevare un incidente in mezzo al fango o alla polvere); guai a farsi trovare anche solo un metro fuori itinerario (abbiamo visto con i nostri occhi le "veline" con le punizioni perchè la pattuglia era stata trovata trenta metri fuori il limite territoriale imposto...); guai a farsi trovare senza quei ridicoli guanti "alla moschettiera" o senza casco, anche in pieno ferragosto... Guai, guai, solo guai.

    Era la disciplina militare, già di per sè impegnativa, ma a volte resa ancora più ottusa da superiori gerarchici che con essa volevano solo sfogare le proprie frustrazioni. Certo, vi furono anche comandanti di sezione, sottosezione o distaccamento le cui figure ancora oggi vengono tramandate con paterno affetto. Ma l'attitudine alle punizioni era in generale più facile a trovarsi: come quel comandante di sezione che punì con 3 giorni di consegna una guardia aggiunta che aveva lasciato la mantella cerata ad asciugare appesa alla moto di servizio dopo essere rientrato da un turno fatto sotto un nubifragio. Quei 3 giorni di consegna però il militare non li scontò mai: morì due giorni dopo, schiacciato da un camion.

    A tutto questo aggiungiamo la pressochè totale assenza di un servizio di pronto soccorso organizzato. Le ambulanze erano poche, concentrate negli ospedali dei grossi capoluoghi. Ma quando uscivi da essi, perchè l'itinerario ti portava lontano, eri in mano a Dio. Non c'erano numeri di emergenza da chiamare e spesso il telefono più vicino era quello del "posto pubblico telefonico" (un'osteria, una farmacia, una cantoniera dell'ANAS). Radio di bordo non ce n'erano, tanto che le guardie erano costrette a chiamare ogni ora in comando per dare la posizione e ricevere disposizioni sfruttando gli apparecchi telefonici appena citati.

    Ed ecco quella frase ricorrente in quasi tutti gli articoli ingialliti di cronaca, e anche in qualche rapporto di servizio: "Prontamente soccorso dal collega di pattuglia, veniva avviato all'ospedale a bordo di un'auto di passaggio". Quante vite si sarebbero potute salvare con un intervento di soccorso professionale? Probabilmente tante. Ma anche fosse stata una soltanto, sarebbe bastato.

    I Caduti della Polizia Stradale sono in proporzione agli altri una cifra immensa: alla data attuale (aprile 2024) sono 424 a partire dal 1946 su 3641 a partire dal 1852: fatta la media? A parte pochi uccisi in conflitti a fuoco, colpi accidentali di pistola o mitra, malori o malattie di servizio, sono tutti caduti in incidenti stradali. Per quelli deceduti negli anni Cinquanta e Sessanta gli incidenti non derivati da investimento dipesero quasi sempre da cadute dalla motocicletta. Molte volte queste cadute non ebbero un effetto letale immediato: magari si trattò di una gamba rotta, o di traumi interni per i quali un soccorso celere e professionale avrebbe potuto evitare l'infausto decorso. Mettiamoci infine l'assoluta ignoranza nelle tecniche di pronto soccorso (come immobilizzare un arto fratturato, come distinguere un trauma alla colonna vertebrale o i sintomi di una commozione cerebrale...) e il trasporto a bordo di un mezzo non idoneo (sui sedili posteriori di una "Topolino" o sulle panche del cassone di un autocarro), e la frittata era fatta. C'era solo quella buona volontà, quell'attitudine del buon samaritano che però in molti casi fu un rimedio peggiore del male: la caduta dalla moto, il collega a terra, l'onnipresente "auto di passaggio" in cui caricare in fretta e furia l'infortunato, la corsa a rotta di collo in ospedale...

    Oggi, quando basta una telefonata e nel giro di pochi minuti arrivano ambulanze, elicotteri, Vigili del Fuoco, medici rianimatori, una realtà come quella descritta sembra perfino impossibile. Eppure deve fare riflettere su quanto quegli itinerari che si doveva percorrere avanti e indietro come criceti sulla ruota fossero più pericolosi del più incallito rapinatore. Perchè una banale caduta poteva non farti rientrare più a casa.... nemmeno su un'auto di passaggio...

    Edited by POLIZIA NELLA STORIA - 4/4/2024, 12:37
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    “Se vedi nero spara a vista: o è un carrubo o è un fascista”
    “La resistenza ce l'ha insegnato: uccidere un fascista non è reato”

    “I fasci son risorti, ora più compagni morti”
    “Ordine nero, comunisti al cimitero”


    Sono solo alcuni esempi (visti dagli opposti estremismi) della cosiddetta “guerra del pennello” che, a partire dalla metà degli anni Settanta, percorse tutti gli spazi pubblici delle città italiane, spesso passando dalla teoria alla pratica.

    Non si trattò di un fenomeno di folklore, né tantomeno di una sorta di valvola di sfogo con cui certa intellighenzia di salotto voleva giustificare queste “legittime manifestazioni di dissenso”. In troppi non si erano ancora accorti che, al di là delle provocazioni lessicali, tali scritte rispondevano in realtà a un preciso disegno di lotta teso non solo al reclutamento di manovalanza, ma anche all'attuazione di vere e proprie spedizioni punitive il cui risultato dipendeva in gran parte anche da quella sorta di “pubblicità preventiva” che avrebbe dovuto sortire l'effetto di un maggior timore nelle controparti.

    L'espressione del dissenso politico attraverso scritte murali non era però coevo al tenore di tali scritte. Storicamente lo troviamo già nei popoli antichi (latini e greci) e poi via via nelle epoche storiche successive, mai sottovalutato dagli organi di potere che vedevano in tali contumelie uno spirito sovversivo tanto più incontrollabile quanto meno si arrivava a identificarne gli autori. In epoche più moderne, dittatori quali Hitler e Mussolini punirono addirittura con la pena capitale chi diffondeva il dissenso politico: l'esempio più tragico e più noto fu la cattura, il processo-farsa e la decapitazione dei fratelli Hans e Sophie Scholl, esponenti del movimento “La Rosa Bianca” che, assieme all'amico Christoph Probst, nel febbraio 1943, vennero sorpresi a diffondere volantini antinazisti all'interno dell'università di Monaco. La rapidità con cui fu gestita la vicenda dal momento della cattura al suo tragico epilogo è sintomatica proprio del terrore che gli organi di potere avevano del dissenso popolare.

    In Italia, già a partire dal dopoguerra i muri delle città vennero fatti oggetto di scritte che però erano ancora scevre dall'odio e dalle minacce di eliminazione fisica che riguarderanno analoghi proclami negli anni a venire. Si trattava in genere di inneggiamenti a questa o a quella forza politica, a questo o a quel leader di partito, in genere con precisi orientamenti a sinistra o a semplici rivendicazioni di diritti sociali. Gli Uffici Politici delle questure presero comunque subito a cuore la situazione, attenzionandola con servizi di osservazione che portarono a precisi censimenti e catalogazioni delle varie scritte magistralmente e sarcasticamente immortalate nel 1970 da Eli Petri nel film “Indagini su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” nella scena in cui un convinto funzionario dell'ufficio politico snocciola al suo dirigente le statistiche in modo quasi surreale: “L'anno scorso i Viva Mao arrivarono a tremila. Ho Chi Minh arrivò a diecimila. Che Guevara mille, Mancuse undici: viva e abbasso. Per l'anno in corso si prevedono diecimila evviva Mao, cinquecento Viva Trotzkij e una decina di Viva Amendola. E forse ancora un cinque-seicento Viva Stalin”.

    Una tale paradossale situazione dovrebbe far sorridere, invece non si discostava di molto dai contenuti dei “mattinali” dell'epoca, essendo la stessa l'unico strumento per tastare il polso alla cittadinanza. All'interno delle organizzazioni politiche vennero identificate vere e proprie “batterie” di simpatizzanti dedite in via esclusiva alla diffusione del dissenso politico sui muri delle città, con una sempre più capillare organizzazione interna che gestiva tutto, dall'approvvigionamento delle latte di vernice e dei pennelli (le bombolette spray arriveranno dopo...) alla scelta del quartiere dove agire, fino alla decisione dello slogan da scrivere, che doveva essere costituito da una frase breve, ma di immediato effetto sui lettori.

    Il passaggio dalla propaganda all'odio politico è invece qualcosa che parte inarrestabile con l'arrivo sul panorama sociale dei movimenti di lotta armata, sia di destra che di sinistra e che si diffonde con estrema rapidità al pari delle manifestazioni di piazza che degenerano in scontri sempre più violenti e caratterizzati dalla comparsa delle armi da fuoco. E l'odio politico passa con altrettanta rapidità da verbale a fisico, con continue spedizioni punitive tra opposte fazioni, agguati ai singoli militanti o simpatizzanti, fino ad arrivare alle gambizzazioni e addirittura ai primi omicidi, voluti o accidentali.

    L'odio politico riguardò direttamente anche le Forze dell'Ordine, soprattutto la Polizia che, vista come braccio armato dell'esecutivo, fu investita da un'ondata di rancore senza pari. Tra il 1976 e il 1978 la coincidenza della figura di Francesco Cossiga con quella di ministro dell'Interno, la sua mai dissimulata avversione per chiunque turbasse l'ordine pubblico e i suoi metodi particolarmente incisivi nel contrasto ai movimenti extraparlamentari catalizzarono ancora di più la propaganda di violenza verso gli agenti di polizia, vergata a chiare lettere sui muri e sui volantini, nei quali il cognome Cossiga veniva volutamente storpiato in Kossiga.

    Il 21 aprile 1977 a Roma, nel corso di violenti scontri con i movimenti dell'ultrasinistra, viene ucciso da un colpo di pistola l'allievo vicebrigadiere di Polizia Settimio Passamonti. Sul luogo in cui cadde il poliziotto, dove c'era la macchia di sangue sull'asfalto, una mano ignota vergò l'ennesimo oltraggio: “qui c'era un carrubo, Lorusso è vendicato”.

    Un simile crescendo di acrimonia venne ben presto stigmatizzato dalle forze politiche. Nel 1978, all'indomani del rapimento dell'onorevole Moro e della strage della sua scorta, dopo un inqualificabile rigurgito di violenza verbale che dai muri delle città esortava all'insurrezione e alla lotta armata, lo stesso PCI condannò apertamente tali proclami, auspicando l'adozione di misure di contrasto severissime per i loro autori. Non servì a nulla.

    Si dovettero aspettare gli anni Ottanta, con la disarticolazione dei movimenti estremisti extraparlamentari e le condanne inflitte nei vari processi, per assistere a un progressivo stemperamento dei toni sulle scritte murali. Ma l'odio fisico, quello non è mai realmente scomparso, tanto da tornare soverchiante in occasione dei fatti di cronaca italiani e internazionali più importanti: dalla strage di Nassiriya alla pandemia da Covid, dal G8 2001 di Genova fino ad arrivare ai nostri Caduti anche in un semplice incidente stradale. Scritte come “10, 100, 1000 Nassiriya” o “Più sbirri morti” sono la testimonianza più evidente che il germe del rancore non è stato debellato e che l'odio politico cova ancora pericolosamente sotto le ceneri.

    Edited by POLIZIA NELLA STORIA - 20/4/2024, 16:05
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    Autore: Marco Della Croce
    Titolo: Nero come la neve - La Spezia 1938: la prima indagine del commissario Dario De Santis
    Casa editrice: Fretelli Frilli Editori

    La Spezia, diciotto dicembre 1938: è appena iniziata la settimana di Natale, quando in un vicolo del centro viene ritrovato il cadavere di Fiorella Monachesi, una giovane maestra elementare marchigiana assassinata con un colpo di pistola al cuore. A indagare sono Dario De Santis, un commissario romano segnato da una spaventosa tragedia familiare, e il suo fedele collaboratore, il brigadiere Lucio Tonelli, spezzino purosangue e sbirro abile e leale. Non ci vuole molto, ai due, per scoprire che la vittima è da poco uscita da una travolgente storia d’amore con un ricco, quanto misterioso, fidanzato. La pista sentimentale sembra dunque quella giusta ma un secondo omicidio, avvenuto con le stesse modalità del primo, rimette tutto in discussione. A essere assassinato, questa volta, è un imprenditore viennese, appena giunto in città per affari. Cosa lega le due vittime, apparentemente così distanti tra loro? Perché sono state uccise? E che significato hanno quelle figurine abbinate a una popolare trasmissione radiofonica lasciate nei pressi dei cadaveri? Mentre la città è flagellata da una terribile tramontana, De Santis e Tonelli, coadiuvati da Russo, una giovane guardia napoletana, dovranno districarsi tra spie dell’OVRA, Camicie Nere, medici avidi, direttori didattici, sovversivi da operetta, puttane d’alto bordo, galeotti redenti, portieri esaltati e infermiere sognatrici, riuscendo, alla fine, a scoprire la terribile verità. Sullo sfondo, una società malata che, sotto l’occhio vigile di un Regime indaffarato a emanare leggi infami, corre ignara verso una guerra planetaria, distratta dalle vetrine illuminate dei negozi e ammaliata dalla nevicata che, nella notte di Natale, coprirà col suo candido manto le strade della città e l’ipocrita indifferenza della gente.

    Un romanzo avvincente che vede i ringraziamenti dell'Autore anche a questa piattaforma.
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    Autore: Massimiliano Griner
    Titolo: La banda Koch - Il Reparto Speciale di Polizia (1943-1944)
    Casa editrice: Bollati Boringhieri

    E' uno dei lavori più rappresentativi e meglio articolati su una delle più famigerate "bande" di pseudo-polizia della RSI. L'autore, attraverso il confronto di fonti di primo piano, traccia l'evoluzione di un sistema poliziesco che ha fatto della violenza e dell'intimidazione il proprio modus operandi, fino alla sua conclusione. Questo testo aiuta a capire in modo preciso cosa NON era polizia, ma becera repressione che esaltava le pulsioni più bieche e aberranti dei suoi agenti, in un crescendo di violenza che ne fece decretare lo scioglimento dallo stesso Mussolini.
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    Autore: Giuseppe Campesi
    Titolo: Geneaolgia della Pubblica Sicurezza - Teoria e storia del moderno dispositivo poliziesco
    Casa editrice: Ombre Corte

    Si tratta di un pregevole lavoro di ricerca storica e metodologica, i cui aspetti si intrecciano attraverso il passaggio da Stato di polizia a Polizia di Stato che coinvolge non solo il nostro Paese ma anche quelli che con il nostro hanno avuto (e hanno tuttora) molte affinità. Viene offerta così una esegesi che va al di fuori dei soliti schemi narrativi.
105 replies since 21/6/2023
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