Corpo delle Guardie di Città: il fondo del barile?

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    Questa seconda denominazione della Polizia italiana, adottata nel 1890 in un'ottica di rivoluzionario ammodernamento dell'amministrazione della P.S., riguarda un apparato di polizia che passò alla storia come il più dileggiato e criticato non solo dall'opinione pubblica, ma anche dalla stampa dell'epoca.

    Le intenzioni iniziali, almeno sulla carta, sarebbero dovute essere encomiabili.

    Il risultato pratico fu invece semplicemente disastroso.

    Nel 1890 il governo Crispi - quasi a fine mandato - aveva avvertito come imprescindibile una radicale riforma della P.S., nella quale era stata riscontrata come economicamente insostenibile la sovrapposizione di compiti e attribuzioni tra il Corpo delle Guardie di P.S. e l'Arma dei Carabinieri Reali: mancanza di dialogo investigativo e di interscambio di informazioni, pessima distribuzione delle forze sul territorio che vedeva zone pressochè militarizzate dalla coesistenza di presidi di entrambe le articolazioni a scapito di altre zone condannate alla totale assenza di uffici o caserme di polizia fecero scaturire l'idea di una riforma radicale che vedeva alla sua base la Pubblica Sicurezza destinata al controllo esclusivo delle aree urbane superiori ai 100.000 abitanti (si presero come confini le cinte murarie delle città) e l'Arma dei Carabinieri con i medesimi compiti sulle aree rurali.

    La stessa nuova denominazione del Corpo di Polizia come "Guardie di Città" avrebbe dovuto dare un segnale deciso circa le rispettive attribuzioni. Di più. Il progetto di riforma avrebbe dovuto inglobare nella P.S. "cittadina" anche le varie formazioni di Polizia Municipale già esistenti, così da creare un Corpo unico e con altrettanto univoche finalità. Diciamo subito che a quest'ultimo aspetto non si arrivò mai, così come non si arrivò mai alla scissione netta dei compiti "intra" o "extra moenia" tra Polizia e Carabinieri.

    Il progetto parte subito col piede sbagliato. Una riforma così radicale non avrebbe potuto prescindere dall'organizzazione territoriale della Polizia già presente e collaudata. A questo si aggiunga il fatto che i nuovi arruolamenti sarebbero stati predisposti dal Prefetto della singola provincia sulla base delle specifiche esigenze territoriali, relegando il Ministero dell'Interno alla gestione formativa dei nuovi allievi e a quella successiva
    tecnico-operativa sul territorio.

    I primi problemi si incontrano già nella fase delle selezioni. I bandi di arruolamento, dai criteri selettivi abbastanza "morbidi", devono fare i conti fin dalle prime battute con una massa di aspiranti allievi guardie dal diffuso analfabetismo, provenienti nella maggior parte dei casi da aree depresse del Paese, afflitte da endemico sottosviluppo non solo culturale ma anche psico-fisico. La stampa dell'epoca - già scettica verso il governo - non perde l'occasione di evidenziare gli aspetti più grotteschi e caricaturali di aspiranti guardie dalla statura nanesca, dal portamento sgraziato, afflitti da macroscopiche deformità che, una volta vestita l'uniforme, rendevano ancora più ridicola la figura di poliziotto che invece avrebbe dovuto suscitare quantomeno un legittimo rispetto.

    Gli aspetti di sottosviluppo culturale si riflettono naturalmente su quello operativo: a una guardia che durante il corso di formazione era stato insegnato a malapena a leggere, scrivere e far di conto, come si potevano insegnare le basi del codice penale, di procedura e le leggi di P.S.? Ancora: come una guardia formata in siffatta guisa avrebbe potuto interloquire correttamente con il cittadino, del quale spesso non capiva nemmeno il linguaggio dal momento che la prevalenza dei poliziotti, di origine meridionale, veniva sbattuta a prestare servizio nel nord dell'Italia?

    Nella pratica, gli appartenenti al disciolto Corpo delle Guardie di P.S. dotati quindi di maggiore esperienza dovettero fare da mentori ai nuovi agenti, in una sorta di "scuola della strada" i cui risultati complessivi non furono mai realmente soddisfacenti.

    Al problema esterno delle "relazioni con il pubblico" e della corretta amministrazione della sicurezza pubblica se ne affiancò un altro di natura interna: quello della disciplina ferrea, di stampo schiettamente militare, cui furono subordinati i nuovi agenti. Anche in questo caso, il livello culturale medio tendente allo zero rese ancora più incomprensibile il regolamento del Corpo e la sua gestione severissima: alle improvvise e frequenti defezioni (che in taluni casi sfociarono in vere e proprie diserzioni), nel corso dei 29 anni di esistenza del Corpo delle Guardie di Città si aggiunse un numero impressionante e sempre crescente di fenomeni di autolesionismo, volti a farsi riformare per fisica o psichica inabilità, fino ad arrivare a un'impennata del numero di suicidi e tentati suicidi che riguardò naturalmente la base, molto più raramente i quadri intermedi. Drammatico risulta essere parimenti il numero di omicidi in danno di colleghi e superiori, spesso accompagnati dal suicidio del loro autore, da parte di guardie che le cronache definivano sempre come colpite "da un improvviso accesso di pazzia" o da "grave nevrastenia".

    Il malessere sempre più diffuso era inoltre esacerbato dalle pessime condizioni di casermaggio, dalla scarsa qualità del vitto, dalla penuria nelle cure mediche che obbligavano la guardia a ricorrere unicamente alle strutture degli ospedali militari con divieto di accedere a quelle civili che avrebbero garantito un livello di assistenza più elevato: emblematica fu la morte della guardia di città Giuseppe Pasqualoni. Anche alle manifestazioni più evidenti di disagio psicologico si rispondeva sempre con il confinamento in camerata, in condizioni di assoluto isolamento che non faceva altro che aggravare la già precaria condizione del malato.

    La qualità del servizio, soprattutto all'interno delle Brigate, era resa ancora più insopportabile da orari di impiego snervanti, a partire dal famigerato "quattro-otto", vale a dire quattro ore di servizio alternate senza soluzione di continuità a otto ore di riposo. Ad esso bisognava aggiungere l'impiego del personale anche nei servizi di casermaggio, con le relative corvèe nelle pulizie e nella manutenzione delle infrastrutture e nei servizi di vigilanza delle stesse, molto spesso in aggiunta al normale servizio operativo sul territorio: in questo modo le ore destinate al riposo venivano significativamente ridotte se non addirittura annullate.

    Tutto ciò a fronte di uno stipendio da fame, da cui il poliziotto doveva sottrarre perfino le spesse di vitto e addirittura l'acquisto dell'uniforme e delle armi d'ordinanza. A tale disagio si aggiungeva inoltre la scarsa empatia con la cittadinanza, vessata in taluni casi da comportamenti dei singoli agenti al limite della tracotanza.

    Di tali aspetti non fece mistero la stampa dell'epoca. Alcune testate più indipendenti, quali "Il Messaggero" e "La Stampa", si fecero in realtà portavoci del malessere della categoria, pubblicando le lettere anonime che, in numero sempre crescente, venivano spedite dai poliziotti alle redazioni a rischio della loro stessa permanenza nel Corpo; altre, politicamente molto più schierate quali ad esempio "Il Lavoro" di Genova, non persero mai l'occasione di evidenziare comportamenti poco corretti di alcuni agenti, inaugurando addirittura una rubrica a ciò dedicata e intitolata "Tra le grinfie della questura", oltre ad articoli al vetriolo su singoli disdicevoli episodi.

    E' però questo tipo di articolistica - per la verità ripresa da altre testate anche se in toni meno da bollettino di partito - a evidenziare il bassissimo livello di formazione di molte guardie di città, spesso trovate in servizio palesemente ubriache, o che trassero in arresto in modo del tutto illegale il singolo cittadino per i motivi più incredibili, o ancora che ricorsero all'uso delle armi da fuoco in circostanze di assoluta normalità nella gestione di un intervento; aspetti più boccacceschi furono altrettanto impietosamente portati all'onore della cronaca, come quella guardia che cercò di concupire le grazie di una mondana sfruttando "il fascino della divisa" o che più semplicemente si recò in osteria durante il giro di ronda, ubriacandosi e rifiutandosi di pagare la bevuta, venendo così tratta in arresto dai suoi stessi colleghi....

    Tutto ciò non sfuggì nemmeno alle matite e ai pastelli della satira giornalistica: la guardia di città ne divenne ben presto il bersaglio preferito, lo zimbello di tanti disegnatori, tratteggiata in modo caricaturale con un grosso naso da avvinazzato, poco propensa all'uso del sapone, con la divisa in disordine e spesso di dimensioni eccessive rispetto al corpo deforme da nano; nella migliore delle ipotesi, ne venivano evidenziati l'untuosa ossequiosità e il servilismo verso il potente di turno, spesso autore di gravi malefatte volutamente non rilevate, contrapposti alla sproporzionata severità verso il povero cristo morto di fame che per sopravvivere aveva sottratto un tozzo di pane a un fornaio.

    Dovettero passare quasi trent'anni prima che qualcuno si rendesse conto del fallimento di un progetto forse troppo ambizioso e irrealizzabile perfino ai nostri giorni. Gli obiettivi iniziali furono infatti tutti mancati: non vi fu mai la separazione di competenze territoriali tra P.S. e Arma dei CC.RR., non vi fu mai l'assorbimento delle Polizie Municipali, ma soprattutto non vi fu mai quel tanto auspicato salto di qualità che si voleva ottenere. La risposta del governo fu come sempre estrema: nel 1919 si arrivò allo scioglimento del Corpo delle Guardie di Città e alla sua militarizzazione nel Corpo della Regia Guardia per la P.S., altro tentativo che storicamente si rivelò un rimedio se possibile ancora peggiore della cura.

    La storia ci ha quindi tramandato un continuo cambio di denominazione della nostra Polizia, che è passata attraverso altre due smilitarizzazioni e rimilitarizzazioni, attraverso una 2° Guerra Mondiale che le frantumò le ossa e un dopoguerra affrontato senza avere imparato nulla dal passato, con immense barricate innalzate per respingere le richieste di miglioramento della vita nel Corpo e di riconoscimento dei diritti minimi dei lavoratori. Poi arrivarono il Sessantotto, i nostri morti di piazza, il terrorismo eversivo: embrioni violenti e non voluti che porteranno alla fine alla legge di riforma e alla nascita della moderna Polizia di Stato.

    Edited by POLIZIA NELLA STORIA - 20/4/2024, 17:25
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    Un esempio delle cartoline satiriche, diffuse in quegli anni.
    La guardia di città viene descritta in modo caricaturale, con il naso paonazzo per il vino bevuto e dall'aspetto trasandato. Il tratteggio del volto vuole evidenziare il livello culturale estremamente ridotto a fronte di una ottusità molto elevata.
    Fonte: collezione privata Marcello Denti, per gentile concessione.
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    cartolinesatiriche

     
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    Il malcontento tra gli agenti sfociò anche in organizzazioni tra commilitoni, tese alla ribellione.
    Questo articolo è tratto dal quotidiano "Il lavoro" di Genova del 10 settembre 1913.
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    09sett1913

     
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