Cremona: l'eccidio della caserma Diavolo

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    VAE VICTIS!

    Cremona: l’eccidio della caserma “del Diavolo”


    di Gianmarco Calore





    Cosa succede a una pentola a pressione quando viene dimenticata sul fuoco? Cosa succede quando la sua valvola di sicurezza non funziona più a dovere? Te lo dico io: diventa una bomba. E quando ti esplode sul fornello di casa, è capace pure di buttarti giù una parete, tanta è la forza d’urto dell’esplosione. Se poi ti trovi nel posto sbagliato, ci puoi rimettere anche la vita.

    Ecco cosa è successo in Italia all’indomani della Liberazione del 25 aprile 1945. Ecco cosa è successo a Cremona in una delle tante caserme militari la notte del 1° maggio 1945.

    Certo, paragonare tutta la Liberazione ad una pentola a pressione difettosa è sicuramente sbagliato e irriverente verso tutti coloro che hanno immolato la loro vita per un’Italia libera da ogni vessazione nostrana o straniera che fosse. Tuttavia, alcuni degli effetti dell’ebbrezza di libertà che pervase città e paesi sconfinò ben presto in atti di puro terrorismo che fecero piombare la nostra Nazione in quella che da molti storici fu definita a ragione una guerra civile.

    L’Italia fu per troppo tempo una pentola a pressione, questo me lo dovete concedere: una prima guerra mondiale che ci aveva rotto le ossa, seguita a breve dall’avvento della dittatura fascista considerata inizialmente nulla più di un fenomeno di folklore campagnolo, ma che mise in luce le sue reali intenzioni già da subito con l’omicidio Matteotti e con un Mussolini che in aula del Parlamento disse a sua discolpa: ”Se questa è un’associazione a delinquere, io ne sono il capo!”…. Ben presto arrivò la seconda guerra mondiale, le sciagurate campagne di colonizzazione, la guerra nei Balcani, la campagna di Russia, l’Otto Settembre, la repubblica di Salò, gli stermini dei nazisti in ritirata… Un’escalation di tensione che innalzò a dismisura la pressione dentro quella gigantesca pentola alimentata da un fuoco sempre più dirompente.

    E quando finalmente quel fuoco venne spento con la fine delle ostilità, a funzionare male (ma io direi piuttosto, a non funzionare affatto) fu proprio quella valvola di sfiato costituita dal Comitato di Liberazione Nazionale che nei suoi princìpi fondamentali sarebbe dovuto andare a sostituire provvisoriamente i poteri legislativi, giudiziari ed esecutivi in quel momento mancanti. Un organismo composto da probiviri in grado di gestire a livello nazionale la cosa pubblica in attesa dell’instaurazione di un governo stabile che prendesse in mano la situazione. In realtà, un fallimento pressochè totale. Nessuno fu in grado di controllare la furia di cieca violenza che si scatenò subito lungo le strade, violenza spesso posta in essere da quelle stesse brigate “partigiane” tra le quali erano in realtà confluiti molti mesti riciclati della precedente dittatura, delinquenti comuni, loschi figuri che con la parte veramente sana della Liberazione non c’entravano nulla. Al posto di un tesserino di riconoscimento bastava un fazzoletto rosso al collo o un copri-manica con la scritta CLN, tanto chi ti controllava? E poi per strada, di armi ne trovavi quante ne volevi…. E allora via con i regolamenti di conti: chi ti aveva fatto bere olio di ricino, chi ti aveva mazzolato per bene col randello, chi ti aveva stuprato la moglie, fino a chi semplicemente veniva additato come simpatizzante del Fascio, in un clima ossessivo di caccia all’untore di manzoniana memoria. Nessuno fu più in grado di controllare nessuno: i giorni successivi al 25 aprile gettarono il Paese ancora più allo sbando.

    La pentola a pressione esplose proprio in quel momento.

    Cremona, 26 aprile 1945.

    La città è sconvolta dalla deregulation più totale: c’è festa per le strade, è vero… stanno arrivando gli Americani! Ma c’è anche il fantasma dell’esercito tedesco in ritirata, gente completamente impazzita dal terrore e dalla rabbia per una guerra improvvisamente perduta, il teutonico orgoglio messo sotto i tacchi consunti degli scarponi impolverati da chilometri di fuga macinati senza sosta: stragi di massa nei paeselli, distruzioni, saccheggi, come Attila e i suoi Unni… Le staffette partigiane lo dicono chiaro e tondo: non è ancora finita. E allora i partigiani, senza più nessun effettivo controllo, scelgono la linea dura e applicano al massimo del rigore le prime disposizioni del CLN. Proprio a Cremona viene immediatamente requisita la caserma “del Diavolo”: un nome sinistro, foriero di ancora più tetre profezie. La caserma era stata utilizzata dal Regio Esercito prima, dalla Guardia Nazionale Repubblicana poi: uno dei simboli del defunto fascismo che ora viene trasformata in carcere per i prigionieri politici da parte dei partigiani comunisti. Il loro comandante, Giuseppe Marabotti, fu investito dei pieni poteri di polizia da parte del primo questore post Liberazione, il dottor Ferretti: paura di fare una brutta fine? Espediente politico per ingraziarsi la popolazione inferocita? Chissà… Sta di fatto che la potestà repressiva, da sempre esclusiva delle Forze di Polizia, passa nelle mani di un manipolo di civili armati che andò ingrossandosi di ora in ora.


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    Cremona, 26 aprile 1945: le formazioni partigiane fanno ingresso in città attraverso porta Venezia transitando lungo via Brescia



    I partigiani iniziano subito i primi rastrellamenti, anche fuori Cremona: ben presto nella caserma “del Diavolo” iniziano ad affluire lunghe file di prigionieri, alcuni con ancora addosso la camicia nera o l’uniforme dell’esercito repubblicano. Donne, uomini, alcuni dei quali poco più che ragazzini e semplicemente additati come “fascisti” dalla vox populi ora assunta a legge. Il CLN, capita l’antifona, già il 30 aprile si sbriga a diramare un dispaccio urgente del comando alleato secondo il quale si vietava nel modo più assoluto qualsiasi esecuzione o tortura di prigionieri politici detenuti fino ad allora.

    Immaginati cosa deve essere stato per la frangia partigiana più oltranzista sentirsi ordinare: non toccate nessuno! Ma come?! Dopo anni di vessazioni, torture, deportazioni, proprio adesso che il coltello dalla parte del manico ce l’abbiamo noi, e lasciatecelo usare!! Le senti, le bestemmie in dialetto cremonese che rimbalzano tra le pareti di quella caserma? Li vedi, i “duri e puri” cercare di farsi strada verso le celle, a malapena trattenuti dai loro compagni più sobri? E proprio in seno a quella brigata si forma la prima grossa spaccatura: da una parte proprio Marabotti che cercò di fare ragionare i più scalmanati; dall’altra, un’orda di lupi assetati di sangue, per i quali non esisteva catena abbastanza robusta per essere trattenuti. Del resto, era già stato istituito a tempo di record il primo Tribunale del popolo, presieduto – si fa per dire… – da un farmacista e da un bancario e con a latere personaggi che con il codice penale non avevano alcuna dimestichezza.

    Facciamo però un passo indietro. E’ sufficiente arrivare al giorno prima, 29 aprile. Nella sempre più pingue colonna di prigionieri che varcava il cancello della caserma “del Diavolo” ci sono anche alcuni funzionari e sottufficiali della Polizia Repubblicana in servizio presso la locale questura: sono il questore Luigi Di Biagio, il commissario Fabrizio Di Domenico, suo capo di gabinetto, il maresciallo maggiore Pasquale Mafrice e il brigadiere Vito Marziano. Hanno accettato militarmente la resa e si sono consegnati spontaneamente alle forze di liberazione, convinti dell’applicazione del cavalleresco codice di guerra in materia di prigionieri politici. Avrebbero potuto tentare in tempo una fuga, del resto erano tutti nei posti – chiave per conoscere le notizie con sufficiente anticipo. Invece scelgono di consegnarsi senza opporre resistenza. Sono sicuri che l’esercito alleato prenderà presto in mano la situazione è li tratterà con il rispetto che meritano, se non altro per la qualifica che rivestono.

    Mentre sono in fila, in mezzo ad altri prigionieri, diligentemente allineati con le mani in alto, un partigiano armato di MAB che li sta controllando riconosce il questore Di Biagio: su di lui le cronache non ci evidenziano crimini di guerra, agevolazioni nelle deportazioni, collaborazione con le SS Polizei. E’ soltanto un funzionario dello Stato, uno Stato – fantoccio quanto si vuole, ma pur sempre uno Stato.

    “Sei tu, Di Biagio?” gli chiede con una sigaretta incollata sullo spigolo della bocca.

    L’altro non fa bene in tempo a rispondere che si trova dapprima un grumo di catarro spiattellato in faccia e subito dopo un colpo alla bocca dello stomaco con il calcio del mitra. Il questore crolla a terra boccheggiante, con il respiro strozzato in gola.

    “Avremo da divertirci, con te…” sogghigna lo sgherro.

    Forse – pensa il questore – avremmo fatto davvero meglio a scappare….

    E ora parliamo del processo.

    Sì, perchè i suonatori sono cambiati ma la musica continua a rimanere la stessa. Ai processi – burla dei nazifascisti fanno subito da contraltare quelli del Tribunale del popolo: anche qui, solo accusa e niente difesa. Mentre i prigionieri cercano di spiegare le loro ragioni, i “giudici” parlottano, ridono e scherzano tra loro. Le parole dei detenuti si perdono nel vento.

    Ma c’è quel Marabotti che in sé conserva ancora un minimo di senso dello Stato: ricorda a tutti che c’è un dispaccio del CLN e dell’esercito alleato che impone di non dare corso a esecuzioni e torture dei prigionieri politici. In fin dei conti si tratta di attendere ancora pochi giorni, poi la faccenda verrà presa in mano da chi di dovere.

    Io mi immagino la sua arringa; mi immagino le figure retoriche cui deve avere fatto ricorso per fare breccia nelle menti dei suoi compagni. E mi immagino anche le risposte di questi. Mi immagino soprattutto le loro, di figure retoriche…. molto meno prosaiche, con inviti ad accoppiarsi ripetutamente con la di lui madre e con tutta una serie di animali, compresi roditori e somari. Il tutto condito da minacce neanche troppo velate di metterlo al muro come sovversivo. Non so cosa si siano detti, in quella stanza dall’aria resa irrespirabile dal fumo di pessime sigarette e di corpi non lavati. So solo che Marabotti a un certo punto si dimette: ha ottenuto soltanto che i condannati a morte da 13 diventassero 12, facendo salva la vita a un uomo di cui abbiamo solo le iniziali: C.O..

    In questa storia si incanala anche quella di una donna: si chiama Lucilla Merlini, sorella di tale Mario Merlini additato come “fascista” e già passato per le armi qualche giorno prima. Anche lei è stata imprigionata in quella caserma e sta attendendo di conoscere la sua sorte. Di sicuro, è la più ottimista: dai, è una donna per di più incinta, a quanto sembra… In paese la conoscevano tutti, non si è mai interessata di politica. Glielo diceva sempre anche a suo fratello: basta, Mario, dacci un taglio, prima o poi ti faranno del male….


    lucillamerlini

    Lucilla Merlini in una delle sue ultime foto




    Il Tribunale del popolo è indeciso su di lei: la “camera di consiglio” (…) si prolunga fino a notte inoltrata, poi la stanchezza o la sete di vendetta fanno pendere l’ago della bilancia sul piatto della morte. Anche lei verrà fucilata con gli altri.

    Cremona, notte del primo maggio 1945, caserma “del Diavolo”.

    L’ultimo barlume di ragionevolezza è terminato. Le bestie armate di mitra si precipitano urlando nei sotterranei dove sono state ricavate le celle. Non si trattò di un’esecuzione nel termine classico, caro lettore. Fu un massacro. Non vi furono preti a impartire l’estrema unzione, non vi fu l’ultima sigaretta concessa al condannato, non vi furono bendaggi agli occhi né plotone di esecuzione. Vi furono solo bestie armate che iniziarono a sparare non appena aperte le porte delle celle: spararono nel mucchio, come fa il cacciatore sullo stormo di uccelli che la sera rientra ai nidi dai campi. Alcuni dei prigionieri tentarono una disperata fuga, ma all’imbocco del corridoio principale si è sistemato un ragazzo, avrà poco più di 20 anni ma è già uomo fatto e finito: imbraccia una mitragliatrice MG alimentata a nastro e falcia a raffiche gli sventurati, urlando come un ossesso. Un partigiano, ferito accidentalmente da un suo proiettile, gli si avvicina e gli assesta un manrovescio in faccia che lo fa volare tre metri più indietro, facendo spegnere l’ultima raffica sul soffitto a volta del sotterraneo.

    Poi, il silenzio.

    C’è solo fumo, l’odore penetrante della cordite e quello ancora più acre del sangue: ce n’è sui muri, sui soffitti, sulle porte, frammisto a grumi di materia cerebrale e a frammenti di ossa. I cadaveri non si riconoscono nemmeno più, solo chi per disgrazia è soltanto ferito si lamenta invocando pietà. Ma la pietà quella notte non albergava tra le mura della caserma “del Diavolo”. Tra i feriti c’è anche il brigadiere Marziano: i proiettili lo hanno colpito alle gambe e all’addome. A finirlo ci pensano gli altri, fracassandogli la testa con il calcio dei mitra.

    Questo è stato l’eccidio della caserma “del Diavolo”. Un episodio tra tanti che sconquassarono quell’Italia miseranda e ottenebrata dalla libertà; un episodio sul quale ben presto calò il velo dell’oblio: agli alleati e al CLN fu spiegato che i prigionieri avevano cercato di evadere, che si erano impossessati delle armi con le quali avevano sparato ai loro guardiani (ecco giustificate le ferite “da fuoco amico”…): la reazione era stata inevitabile. Dal canto suo, il CLN si guardò bene dal fare ulteriori domande e la storia finì ben presto nell’archivio della memoria.

    Ma c’è quella storia della Lucilla Merlini che anni dopo inizia a essere raccontata nelle osterie, magari proprio da chi quella notte le sparò nella pancia: un bicchiere di vino, la sicurezza dell’impunità grazie all’amnistia di De Gasperi, le solite spacconate di basso rango…. Solo che qualcuno rabbrividisce sapendo che quella povera ragazza oltre ad un proiettile, in pancia portava anche una creatura. E le voci arrivano ben presto sul tavolo del sostituto procuratore della Repubblica Fulvio Righi. Di anni ne sono passati, siamo nel 1955: il magistrato ordina la riesumazione dei corpi della Merlini e del brigadiere Marziano e questa viene eseguita il 16 giugno. Tranquilli, nel male è andata bene: l’autopsia sui resti della donna permette di accertare che non era incinta. Ma ad un orrore scampato, se ne aggiunge un altro di nuovo: la bara risulta perforata da alcune raffiche di mitra, ad indicare che l’avevano frettolosamente rinchiusa nella cassa ancora viva…. Del brigadiere Marziano viene solo confermata la morte per sfondamento della scatola cranica: le ferite da proiettile erano state leggere, non letali…

    Storie di campagna, storie di guerra. Storie che richiamano alla memoria Brenno, il capo dei Galli che nel 390 a.C. avevano sconfitto i Romani e occupato l’Urbe: questi ultimi stavano pesando sulla bilancia l’oro del tributo di guerra quando si accorsero che essa era truccata a favore dell’invasore. Brenno lanciò la sua pesante spada sul piatto dei pesi, rendendo ancora più iniquo il tributo e gridando la celebre frase Vae victis, guai ai vinti!

    Guai ai vinti, appunto: gli Italiani pagarono già un elevato prezzo in termini di vite umane tributate alla libertà. Aggiungiamoci pure anche questa pesante spada, fatta di tutte le vendette e le esecuzioni sommarie che annientarono buoni e cattivi, lupi e pecorelle nel nome di una giustizia che la storia ha già declassato a becero giustizialismo.
     
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