L'antibanditismo in Sicilia ai tempi di Salvatore Giuliano

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    I SEGRETI DI ROBIN HOOD
    di Gianmarco Calore




    Premessa: questo articolo non ha alcuna pretesa di fare chiarezza su uno dei periodi storici più tormentati del dopoguerra né di prendere una posizione determinata sui fatti di cui si andrà a parlare. I misteri che affronteremo in gran parte rimangono allo stato attuale ancora tali. In esso parliamo di Polizia, di una Polizia che non c’è più, di un’Italia profondamente diversa da quella attuale. E’ un articolo molto lungo che richiede tempo e pazienza ma che spero faccia riflettere.


    Diciassette.
    Un numero cui la cabala ha attribuito un significato di sventura. C’è chi crede nella superstizione, e quando questo numero cade di venerdì non fa nulla: non conclude affari, non si mette in viaggio, non intraprende lavori, alle estreme conseguenze arriva perfino a rinchiudersi in casa. Diventa prigioniero di un numero e del suo mantra di mistero. C’è chi invece resta totalmente indifferente al suo significato: è un giorno come tanti altri, un numero come tanti altri. Diciassette sono tre mani e due dita. Sono tante? Sono poche? Non lo so.
    Ma se questo numero lo fai diventare una lista di Poliziotti caduti in neanche sei anni, beh, il suo valore cambia. Diventa quello di una strage.

    C’è un momento storico della nostra Italia che ancora oggi fa discutere, forse perchè davvero su di esso non è mai stata fatta chiarezza: volutamente o meno lo lascio decidere a voi. Ma al mio paese si dice sempre che tre indizi facciano una prova. E in questa storia di indizi e di misteri ce ne sono molti più di tre.
    E’ la Sicilia dell’immediato dopoguerra.
    La Sicilia del bandito Salvatore Giuliano.

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    Una rara foto di Salvatore Giuliano quando ormai era diventato il latitante più ricercato d’Italia

    Il primo mistero di questa lunga storia è racchiuso in una frase:
    “Ogni volta che pestiamo i piedi agli Americani, questo ammazza tre dei nostri!!”
    Chi la pronunciò e quale fu il contesto che vi fece da sfondo per il momento ancora non lo svelerò: intanto, però, teniamola bene a mente. Ci tornerà utile più avanti.

    Ma per inquadrare correttamente gli avvenimenti che stiamo per narrare bisogna capire cos’era la Sicilia del secondo dopoguerra: senza un simile passo, parlare di Giuliano e delle sue gesta banditesche sarebbe solo una sterile cronaca o – peggio – una mistificazione storica che non possiamo permetterci. Premetto anche che non sono siciliano: quando decisi di scrivere questa storia, al di là della necessaria documentazione andai a parlare prima con molti siciliani veraci, persone che magari tra di loro manco si conoscevano e che quindi a maggior ragione con la loro univocità di racconti mi hanno fatto calare in una visione delle cose che solo loro hanno. E la prima cosa che mi hanno detto è stata: “Quando scrivi della nostra isola, fallo con rispetto!” E il rispetto non è soltanto quello derivante dalle comuni regole della buona educazione, no. Il rispetto chiesto e preteso da loro va oltre, è qualcosa di sanguigno e passionale, è un concetto che è impossibile non assimilare anche solo ascoltandoli raccontare di se stessi.

    Tra tutte le regioni sconquassate dalla Seconda Guerra Mondiale, la Sicilia è stata di sicuro la prima a ritrovare un proprio equilibrio politico-sociale, non fosse altro per il fatto di essere stata la prima regione a essere liberata dai nazisti. Certo, le sue città hanno patito come tante altre i bombardamenti alleati con morti e distruzione; gli stessi abitanti ebbero in sorte i medesimi rastrellamenti tedeschi. Ma i Siciliani – gente fiera – sono sempre stati abituati anche meglio degli altri a essere considerati terra di conquista vuoi per la posizione geografica strategica, vuoi per le risorse naturali di cui quella terra dispone. Tutti i popoli che sono passati per quest’isola lo hanno fatto trattati tutti allo stesso modo, quasi con distacco. Anche gli “yankees”, questi presuntuosi arroganti masticatori di gomma, sono arrivati un bel giorno sfoggiando tutta la loro imponente muscolatura militare, storpiando i nomi dei paesi e arrivando a perdersi tra boschi e montagne. E come sono arrivati, così pure se ne sono frettolosamente andati verso nord, sul continente, a caccia di quegli altri mangiapatate: in fin dei conti, l’americano ha sempre bisogno di un nemico!

    La prima differenza con il resto dell’Italia la fa proprio la particolare conformazione geografica che rende la Sicilia – appunto – un’isola: ogni popolazione isolata dal resto del territorio si abitua fin dalle sue origini ad arrangiarsi da sola, rifiutando sdegnosamente quegli aiuti esterni che non vengono accettati, tantomeno richiesti. Lo sviluppo in senso feudale del territorio portò fin dalla notte dei tempi i siciliani a cercare tra loro i capi e da loro farsi amministrare, comandare, punire. Ma gli “stranieri”, che di rispetto non capiscono nulla, hanno preteso perfino di battezzare questa loro forma di autogestione con un nome. E quel nome è Mafia. Dimentichiamoci però traffici di droga, omicidi, rapine, connivenze con poteri centrali; dimentichiamoci gangsters in gessato e cappello a tesa larga che imbracciano i Thompson cal. 45; dimentichiamoci stragi dinamitarde e quant’altro di simile la nostra mente abituata a non scavare nella storia ci sta proponendo. Qui si tratta di ben altro.

    La mafia di cui stiamo parlando è un sistema di amministrazione che per secoli ha sostituito uno Stato che nelle varie epoche ha alternato forme di governo tra le più disparate, dalle dittature alle monarchie fino al neonato Stato democratico. Forme antitetiche di governo che in quell’isola non facevano altro che creare confusione e che – diciamocelo pure – venivano viste con sospetto da chi aveva sempre trovato i suoi referenti tra la propria gente. Un’organizzazione capillare fondata sulla spartizione del territorio su base familiare e articolata in una precisa “catena di comando” piramidale composta da famiglie, zone, mandamenti fino ad arrivare al capo, il padrino. Fino al vertice, la “cupola”.

    E nella restante Italia? Il dopoguerra, la democrazia fresca di stampa, la ritrovata libertà e i timori di perderla di nuovo stavano facendo affiorare la paura di uno sbandamento del Paese nell’orbita sovietica, quel “gigante rosso” che stava prepotentemente bussando alla porta. Una rampante Democrazia Cristiana – che non a caso aveva scelto a suo simbolo uno scudo – si stava ergendo come primaria forza anticomunista. Oggi siamo abituati a un morbido bipolarismo conquistato dopo anni di acerrimi scontri politici, sociali, di classe: e proprio questi scontri stavano dilaniando l’Italia e le sue piazze. Non c’erano mezze misure: chiunque si collocava anche solo potenzialmente fuori dall’ombra scudocrociata era automaticamente un bolscevico mangiatore di bambini e meritava di essere bandito dalla società con tanto di scomunica vescovile; visto dall’altro fronte, chiunque non aderiva all’ideologia marxista-leninista era un tonacone baciapile falso-democristiano con il quale l’unico metodo per fare i conti era un bastone di legno di robinia.

    Tempi duri, conditi da tanta miseria che contribuiva a far montare il sangue agli occhi. Tempi duri che non lasciavano fuori nemmeno la Polizia italiana, al cui interno si iniziò una sorta di “caccia alle streghe” per allontanare chiunque fosse anche solo sospettato di simpatie socialiste. Tempi in cui strane valigette piene di soldi – nella fattispecie, dollari – facevano andirivieni tra l’estero e le casse della DC affinchè il partito potesse disporre di fondi sufficienti per una solida campagna elettorale che gli assicurasse la maggioranza parlamentare. Alla fine, si parlerà di circa dieci miliardi di dollari che nei tre lustri che vanno dal 1945 al 1960 transiteranno a Roma tramite la banca vaticana e anonimi conti cifrati. Soldi che facevano da contraltare ai rubli “made in URSS” provenienti dal Cremlino e destinati alle casse del PCI italiano. Le guerre – comprese quelle fredde – si combattono anche così. Ma questa è un’altra storia.
    Ecco dunque tracciata la base da cui partire. Un trinomio importante da non perdere di vista quello di America-Mafia-Anticomunismo. Tra poco vedremo perché.

    Dopo questa necessaria premessa possiamo finalmente ritornare a lui, Salvatore Giuliano. Non è uno qualunque, questo ragazzo. Suo padre, giovane emigrante in terra americana, aveva fatto ritorno al paesello con un po’ di soldi da investire in terreni che aveva comprato nei pressi di Montelepre e iniziato a coltivare a grano e tabacco. Aveva subito coinvolto suo figlio più grande, Salvatore, che si era dunque trovato fin dall’inizio nel ruolo di latifondista. E in un paese di mezzadri, latifondista significava essere capitalista. E’ un altro aspetto molto importante che aiuterà a capire meglio l’evoluzione dei fatti successivi.

    Il ragazzo sviluppa da subito una spiccata mentalità imprenditoriale che viene completata da altri due decisivi fattori: il suo innato istinto territoriale e l’altrettanto viscerale sentimento anticomunista. Di lui le cronache iniziano a occuparsi molto presto, già dal 1943, anno in cui Salvatore Giuliano aveva messo in piedi un fiorente mercato nero del grano che rivendeva alla borsa nera realizzando facili guadagni da reinvestire nell’acquisto di altri terreni e sementi.

    Il pomeriggio del 2 settembre 1943 assieme a un suo amico sta trasportando con un carretto una cassa da morto imbottita di grano: è un espediente ormai collaudato, con pochi rischi e massima percentuale di guadagno. Del resto, chi si sognerebbe di fermare due fratelli in lutto durante la traslazione della salma di un loro caro? Se lo sogna un giovane carabiniere che probabilmente sta tenendo d’occhio il ragazzo già da un po’ di tempo: lo ferma a un posto di blocco e alle domande di rito accampa l’ordine di aprire la bara. Se ne escono quei due sacchi di grano che comportano il sequestro anche del carretto e del cavallo: una misura per l’epoca estremamente grave. Giuliano tenta la fuga, inseguito dai carabinieri che dalla jeep aprono il fuoco coi moschetti. Il giovane viene ferito ma risponde al fuoco con un antiquato revolver: un unico colpo che però attinge un militare in pieno petto facendolo morire il giorno dopo all’ospedale di Palermo. Giuliano, ferito a un fianco, si rifugia in un canneto e di lì probabilmente in qualche masseria. E scompare.

    Questo può essere considerato l’evento che fece “saltare il fosso” al giovane rampante contrabbandiere che da allora venne chiamato “il bandito Giuliano”.

    L’uccisione di un appartenente alle Forze dell’Ordine è da sempre stata motivo di legittima reazione dello Stato. In quegli anni, poi, con un’intera nazione allo sbando, un simile gesto diventava una sfida aperta al cuore dello Stato. Che non esitò a mostrare i suoi muscoli inviando poco dopo ottocento carabinieri a circondare Montelepre, ma del giovane nessun traccia. E’ ferito quindi vulnerabile. Tuttavia ostinatamente irreperibile, reso ancora più invisibile dall’omertà della gente. Quel giorno di rastrellamenti a Montelepre se lo ricordano ancora: Giuliano è nascosto sulla torre campanaria e vede suo padre trascinato per il paese, malmenato e spintonato dai militari. Sa che è una trappola per farlo uscire allo scoperto, ciò nonostante col sangue agli occhi apre il fuoco con uno Sten sui Carabinieri uccidendone uno e ferendone altri due. Da terra rispondono sparando interi caricatori di moschetto: è come il tiro al piccione. Solo che il piccione stavolta riesce a prendere il volo senza un graffio. Le sue foto iniziano a campeggiare in tutte le stazioni dell’Arma e in tutti i commissariati di Pubblica Sicurezza.

    Montelepre è un piccolo ma importante paese, primo avamposto del Palermitano. E’ in mano a un potente padrino che riferisce direttamente alle famiglie del capoluogo. Tutto questo andirivieni di Carabinieri e Poliziotti per colpa di un picciotto così giovane, ma che soprattutto agisce fuori da ogni controllo dei capi-mandamento, bloccando così affari e interessi ben più importanti, è un affronto che la Mafia punisce in un solo modo: con la morte. La condanna viene emessa, ma mai eseguita. Perchè? Chi protegge con ancora più potenza Salvatore Giuliano, arrivando a comandare addirittura i capi? Ufficialmente non lo saprà mai nessuno. Ma i soliti bene informati sussurrarono da subito che Giuliano aveva intessuto rapporti molto stretti con i vertici del comando Alleato al momento del loro sbarco sull’isola. Ancora gli Americani, che a questo punto iniziano a diventare una variabile sempre più costante in una così difficile equazione.

    L’intelligenza di questo delinquente gli fa capire una cosa fondamentale: la sua sopravvivenza in questa corsa sempre più forsennata dipende esclusivamente dai legami che riuscirà a intrecciare e a mantenere con il mondo politico. L’abbiamo già sentita questa storia, vero? Erano gli Anni Novanta, gli anni delle stragi di Capaci e via D’Amelio, gli anni dei papelli che Totò Riina inviava a Roma per dettare le sue condizioni. Tutto questo era già avvenuto quarant’anni prima. Annusa l’aria, Giuliano: lo fa come una volpe che fiuta la via per la salvezza in un terreno dove i cacciatori diventano sempre di più. Si fa esponente di un movimento di popolo separatista, il MIS (Movimento Indipendentista Siciliano) mentre infittisce i suoi legami con gli Americani rimasti sull’isola: si dice abbia conseguito il grado di colonnello di una sorta di Esercito Indipendentista dietro al quale si nascondevano i servizi segreti d’oltreoceano, prima “testa di ponte” dell’anticomunismo in Italia.

    Guarda caso, nel 1946 De Gasperi promulga un’amnistia per i reati commessi in tempo di guerra: nell’occasione promette un’ampia autonomia all’isola che diventa quindi una delle regioni italiane a statuto speciale. C’entra l’attività criminale di Salvatore Giuliano? E’ diventato così potente da potersi permettere di dialogare direttamente con i palazzi romani? Anche qui si potrebbe rispondere negativamente. Ma quando il bandito viene a sapere che nell’amnistia non rientrano le sue “prodezze”, non dice bensì scrive a De Gasperi una lettera nella quale, autonominandosi il Robin Hood della Sicilia, promette di continuare a delinquere in un’ottica di redistribuzione di terre e ricchezze. Tutti lo considerano il delirio di un pazzo. E non gli credono.

    1 maggio 1947, località Portella della Ginestra, tra Piana degli Albanesi e San Giuseppe Jato. Centinaia di siciliani comunisti stanno festeggiando la vittoria del centro-sinistra nelle elezioni regionali del 20 aprile, nelle quali la DC è crollata al di sotto del 20%.
    E’ una giornata calda e assolata, in un clima da sagra paesana gli uomini inneggiano alla vittoria sventolando bandiere rosse, falci e martelli mentre donne e bambini si affannano a imbandire alcune tovaglie stese a terra con cibi e bevande. Qualcuno inizia un abbozzo di comizio, un misto di italiano e dialetto che rende la manifestazione ancora più genuina. All’improvviso, l’inferno: dalle alture circostanti viene aperto il fuoco con mitra e lupare. Cadono a terra morti e feriti, alla fine se ne conteranno 11 tra i primi (tra cui due bambini) e 27 tra i secondi. Una strage, la prima del dopoguerra.

    Inizialmente non si pensa subito a Salvatore Giuliano: che senso poteva avere una simile strage fatta da un bandito che fino a quel momento aveva messo in piedi una rete di estorsioni, rapine e taglieggiamenti? La pista politica viene stranamente e frettolosamente esclusa dallo stesso ministro dell’interno Mario Scelba e così le indagini prendono la strada del regolamento di conti derivante da uno sgarro al boss locale. Ma i conti non tornano. E la tracotanza di Giuliano gela il sengue nelle vene anche a Roma con un’ennesima lettera nella quale non solo rivendica la paternità della strage, ma anche la incanala in senso politico smentendo lo stesso ministro dell’interno in maniera così assoluta. Non sono dunque le gesta di un pazzo, ma quelle di un uomo che è sicuro della protezione di qualcuno davvero molto in alto. Giuliano infatti evita accuratamente di fare i nomi dei suoi mandanti. Un silenzio che vale più di mille parole.

    Ma fu veramente Giuliano a compiere questa strage? O egli si limitò semplicemente a cavalcarne l’onda emotiva per ottenere la sua definitiva affermazione sul piano nazionale? Queste legittime domande si posero fin da subito a seguito degli esami balistici e autoptici che permisero di accertare come sulla folla non vennero usati soltanto i tristemente noti mitra Sten, ma addirittura lanciagranate. Questo particolare avvalorerebbe la tesi secondo cui non furono gli uomini di Giuliano (o almeno non soltanto loro) a sparare, ma anche alcuni elementi della CIA americana che con un simile gesto voleva ottenere lo scopo di fare “abbassare la testa” ai comunisti in tutta Italia. Una simile tesi è stata sostenuta da alcuni storici e scrittori di politica e mai in realtà avversata o smentita ma anzi rivelata anche da alcuni atti desecretati dalla CIA stessa nel 2003.

    La misura è colma. Scelba dà il via a un’operazione militare antibanditismo senza precedenti in Italia. Ai reparti Celere già presenti sull’isola vengono affiancate altre centinaia di guardie provenienti da tutta Italia. Viene fondato il 13^ Reparto Mobile “Sicilia Occidentale” che dispone di mezzi blindati, jeep e camion. Arrivano addirittura gli “Staghound” con mitragliatrici Breda e cannoncini da 12 millimetri. E inizia la strage.

    Il 9 giugno 1946 la guardia scelta Salvatore Amenta, 39 anni, in forza al Raggruppamento Guardie di Palermo è impegnato in una delle estenuanti battute di rastrellamento nella campagna palermitana quando viene colpito da alcune fucilate esplose da alcuni appartenenti alla “banda Giuliano” appena intercettati.
    I morti Giuliano li fa anche indirettamente. Il 3 maggio 1947, all’indomani della strage di Portella della Ginestra, un camion che stava trasportando alcune guardie del 13^ Mobile destinate a dare il cambio a quelle che già piantonavano il luogo dell’eccidio precipita in un dirupo causando la morte delle guardie Umberto Galloni, 22 anni, e Salvatore Lucia e il ferimento di altri sei militari.

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    Le guardie di P.S. Salvatore Lucia (a sinistra) e Umberto Galloni (a destra)

    Il 3 settembre 1948 il commissario Celestino Zappone, della questura di Palermo, si trova a Partinico assieme a due Carabinieri: il capitano Antonio Di Salvo e il maresciallo Niccolò Mesina. In via Finazzo vengono fatti oggetto di un fitto lancio di granate da parte della “banda Giuliano” che poi li finisce a colpi di pistola. La versione ufficiale giustifica la presenza a Partinico dei tre funzionari in quanto impegnati in un servizio di osservazione interforze. Ma anche qui furono messe in circolazione altre voci che non trovarono mai conferma, ma che nemmeno furono mai smentite. Una di queste vedeva il commissario Zappone inviato come portavoce dei servizi segreti italiani con lo scopo di allacciare un contatto con Salvatore Giuliano, contatto che doveva porre fine alla escalation di violenze nella Sicilia Occidentale; qualcosa tuttavia andò storto.

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    Il commissario di P.S. Celestino Zappone



    Il 14 novembre 1948 ci sono quattro militari della Stradale di Alcamo (TP) che stanno facendo rientro al loro comando dopo avere disimpegnato un servizio d’istituto a Palermo. Loro non c’entrano nulla con la caccia al bandito, almeno non direttamente. Ma sono Poliziotti, rappresentano quello Stato che è visto come un nemico. E quindi anche loro sono nemici. Lungo la statale Cinisi – Alcamo la loro jeep viene investita da raffiche di mitra esplose da dietro alcuni cespugli posti a lato strada. Un’imboscata tra le più vili. Due dei militari, il vice brigadiere Aldo Archenti e la guardia Vittorio Baldari, restano assassinati; una terza guardia viene gravemente ferita mentre la quarta si riesce miracolosamente a salvare.

    La storia del vice brigadiere Aldo Archenti è sintomatica della febbricitante schizzofrenia di quel periodo ed è stata scoperta quasi per puro caso durante le ricerche su alcuni Caduti: il suo nome figura sulla lapide dei Caduti della Polizia Stradale di Padova, a più di mille chilometri di distanza. Come mai? La risposta più semplice e forse più veritiera è che il militare fosse stato trasferito o aggregato in Sicilia proprio per contrastare il fenomeno del banditismo. Ma c’era già il 13^ Mobile “Sicilia Occidentale” oltre ai Reparti Celere di Palermo e Catania, ai vari Raggruppamenti e al personale aggregato dalle regioni circostanti. Cosa ci faceva un settentrionale laggiù?

    Esiste un’altra risposta corroborata da prove indirette ma mai in realtà confermata: il vice brigadiere Archenti poteva essere stato oggetto di un trasferimento considerato punitivo per non avere accettato di prosciogliersi una volta acclarata la sua posizione politica incompatibile con i dettami di Scelba. Le prove indirette sono sia testimoniali che cartacee: in quel periodo chi veniva tacciato di simpatie di sinistra veniva “invitato” a riconsiderare la sua posizione in seno al Corpo delle Guardie di P.S.. Esistono poi i bandi di arruolamento dell’immediato dopoguerra che garantivano a chi si era contraddistinto nella lotta resistenziale come partigiano l’ingresso praticamente automatico nel Corpo delle Guardie di P.S., mentre chi aveva prestato servizio nelle formazioni fasciste ne veniva altrettanto automaticamente estromesso. Non potendosi procedere al licenziamento del militare che non aderiva a simile invito, il Ministero procedeva al suo trasferimento in sedi disagiate o all’assegnazione a mansioni particolarmente gravose. E’ per questo che troviamo Archenti a Trapani? Non lo sapremo mai.

    [Integrazione del 2013. Grazie alla testimonianza di uno dei figli del brigadiere Archenti di recente contattato (e che ringraziamo per il preziosissimo aiuto) riusciamo a ricostruire che il sottufficiale, effettivo alla Sezione Polizia Stradale di Padova, fosse stato aggregato temporaneamente a Trapani per la costituzione di una locale Sezione. La sua aggregazione sarebbe dovuta terminare pochi giorni dopo il suo assassinio.]

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    Dall’alto: il vice brigadiere Aldo Archenti e la guardia Vittorio Baldari




    Il 16 novembre 1948 in località Ponte Nocella una jeep della Polizia viene bersagliata da raffiche di mitra in quella che sembra essere ormai la tecnica preferita dalle belve. A bordo vi sono militari di P.S. e dell’Arma dei CC che costituiscono una pattuglia mista interforze. Viene uccisa sul colpo la guardia Giovanni Tasquier mentre altri tre carabinieri restano feriti.

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    La guardia di P.S. Giovanni Tasquier



    Il 24 novembre 1948 una squadra del Raggruppamento di Palermo è impegnata nell’ennesimo rastrellamento nei pressi del paese di Montelepre. Si pensa che il bandito non graviti poi così lontano dai suoi interessi. In località Giardinello si scatena una sparatoria che si protrae per più di un’ora. Quando alla fine giungono i soccorsi, a terra restano due uomini: la guardia Baldassarre Maragioglio, che morirà dopo poco all’ospedale militare di Palermo, e un bandito.

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    La guardia di P.S. Baldassarre Maragioglio



    Il paese di Montelepre è ormai accerchiato e presidiato in pianta stabile. La Polizia arriva a occupare addirittura proprio la casa del bandito Giuliano. Cambi sul posto che si alternano giorno e notte fino a quando la tracotanza delinquenziale dell’uomo miete l’ennesima vittima: la guardia Letterio Restuccia. Altri militari restano feriti in una sparatoria che si dipana in due tempi diversi, prima presso la casa di Giuliano, poi qualche decina di metri più lontano ove la banda viene intercettata dai rinforzi.

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    La guardia di P.S. Letterio Restuccia



    Ma la strage più efferata ai danni della Polizia si consuma il 2 luglio 1949 in località Portella della Paglia. Un pullmino Fiat 1100 con a bordo alcuni poliziotti del Nucleo Mobile San Giuseppe Jato (una “costola” del 13^ Mobile distaccata nei pressi di Montelepre come avamposto) viene accerchiato da una decina di persone armate di mitra che aprono il fuoco indiscriminatamente da tutte le direzioni. I poliziotti si difesero strenuamente per quasi un’ora esaurendo le munizioni ma riuscendo a mettere in fuga i banditi. Tuttavia a terra rimasero le guardie Carmelo Agnone, Candeloro Catanese, Carmelo Lentini, Michele Marinaro e Quinto Reda. Agnone aveva già ingaggiato in passato altri conflitti a fuoco dai quali era sempre uscito illeso guadagnando numerosi encomi.

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    Altro agguato, altro morto il primo novembre 1949: da un anfratto roccioso vengono esplosi numerosi colpi di arma da fuoco all’indirizzo di una pattuglia di Polizia. Rimane uccisa la guardia Salvatore Alberti.
    Ancora un nostro Caduto a seguito dell’ennesimo conflitto a fuoco lo dobbiamo annoverare il 2 agosto 1950: è la guardia Andrea Schiadà.

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    La guardia di P.S. Andrea Schiadà e un momento dei suoi solenni funerali

    E l’ultimo dei nostri a morire è la guardia Biagio Cannaò del Raggruppamento Guardie di Palermo, ucciso in un conflitto a fuoco contro i superstiti della banda Giuliano il 21 novembre 1950 quando ormai attorno al bandito era stata fatta terra bruciata.


    IL 13^ REPARTO MOBILE “SICILIA OCCIDENTALE”



    Bisogna a questo punto aprire una parentesi per delineare la figura istituzionale del primo Reparto Mobile approntato con finalità esclusive di antibanditismo. Per molti storici esso fu il primo reparto precursore delle future forze speciali di Polizia quali i Baschi Blu, di cui si ha già avuto modo di parlare in questo sito. Per quei tempi non si è andati poi così lontani dal vero.

    Tralasciando il periodo bellico e l’organizzazione che la Polizia aveva in un simile contesto, possiamo sicuramente affermare che all’interno di essa non vi era mai stata un’organizzazione specifica di uomini e mezzi deputata al contrasto di particolari fenomeni delinquenziali, fatta eccezione se vogliamo per il Corpo dei Militi a Cavallo operativo a fine Ottocento nel Meridione con finalità di antibrigantaggio.

    Tuttavia per la prima volta a partire dalla fine della guerra il Ministero dell’Interno – che stava nel frattempo tentando di ricostruire una Polizia praticamente dal niente – si trovò ad affrontare un fenomeno banditesco che rischiava di assumere rapidamente le connotazioni di un anti-Stato, sfuggendo di mano a quest’ultimo. L’importanza di avere avuto come ministro dell’Interno un uomo come Scelba fu la chiave di volta che impresse alla Polizia uno sviluppo non solo numerico ma anche qualitativo tale da renderla in pochi anni un esempio anche per le forze di Polizia di altri Stati.

    In particolar modo nella situazione venutasi a creare in Sicilia fu predisposto un Reparto Mobile di nuovissima concezione: la sua stessa numerazione (tredicesimo) indicava la sua neonatalità che lo faceva aggiungere agli altri 12 Reparti Mobili già presenti in Italia e impiegati con funzioni esclusivamente di difesa del territorio nazionale da eventuali attacchi esterni. In questo Reparto Mobile, stanziato in origine a Palermo, vennero fatte confluire centinaia di guardie sia già in servizio operativo, sia neo assunte o fatte transitare da collaterali organi militari dell’Esercito Italiano; ad esse si aggiunsero ben presto ulteriori militari aggregati in Sicilia temporaneamente da altri Reparti della Penisola. L’impiego di questo Reparto con funzioni di antibanditismo gli fecero assumere fin dall’inizio la denominazione di 13^ Reparto Mobile “Sicilia Occidentale” per distinguerlo per compiti e funzioni dagli altri Reparti Mobili già di stanza nell’Isola (si pensi al Reparto Mobile di Catania).

    Il Reparto in questione dispose fin da subito di mezzi e armamenti per il periodo ritenuti all’avanguardia: mezzi da trasporto pesanti, autoblindo, corazzati T17 Staghound facevano da contorno a centinaia di uomini armati di fucili mitragliatori Bren, MG, fucili di precisione Garand, pistole semiautomatiche Beretta calibro 9 lungo. Ai militari erano state fornite anche bombe a mano e granate mentre per gli spostamenti sui terreni più impervi erano impiegati poliziotti del posto in grado quindi di orientarsi con molta più precisione. Per le ricerche di latitanti erano stati impiegati anche i primi nuclei cinofili con i cani da ricerca dal fiuto insuperabile quali i bracco. Insomma, uno spiegamento di forze come mai si era visto.

    Quando la guerra contro il bandito Giuliano assunse proporzioni impressionanti quanto a cruenza, la Polizia capì subito l’importanza assoluta di un presidio in pianta stabile del territorio: gli uomini del 13^ Reparto Mobile vennero quindi frazionati e distaccati nei punti più nevralgici della zona compresa tra il Palermitano e il Trapanese; i singoli battaglioni – spesso composti anche di poche unità – presero la denominazione del luogo che andarono a presidiare: battaglione “Montelepre”, battaglione “San Giuseppe Jato”, battaglione “Piana degli Albanesi” furono soltanto alcuni dei nomi che iniziarono a essere impiegati per distinguerli.

    Ognuno di essi era tenuto in contatto con i vertici del Comando non solo mediante continue staffette portaordini che si muovevano in motocicletta, ma anche dalla prima rete radiotrasmittente a copertura continua impiantata sul territorio secondo un’organizzazione piramidale che dal Comando faceva riferimento alle stazioni – capomaglia e da queste agli avamposti più lontani: l’etere veniva tempestato costantemente da comunicazioni in banda HF mediante l’uso delle apparecchiature Westinghouse americane lasciate in Italia dagli Alleati. Nominativi radio quali “Lince”, “Pantera”, “Leone”, “Giaguaro” oggi possono fare sorridere ma all’epoca erano sinonimo di elevata operatività ed efficienza che vide l’impiego di operatori radiotelegrafisti di provata esperienza e che spesso alternavano ore di “cuffia” e tasto morse a rastrellamenti e piantonamenti senza soluzione di continuità.

    L’organizzazione logistica del Reparto era completata dal non meno fondamentale aspetto del rifornimento viveri e munizionamento di tutti gli avamposti, altro sforzo di non trascurabile entità che vedeva impiegate quotidianamente autocolonne militari sotto scorta in tutto il territorio di centinaia di chilometri quadrati.

    Il 13^ Reparto Mobile “Sicilia Occidentale” fu di sicuro il primo Reparto ad essere impiegato in pattuglie miste interforze assieme agli omologhi dell’Arma dei Carabinieri con i quali venne creata una sinergia di uomini e mezzi mai vista in precedenza. La gestione delle forze di Polizia sul territorio – trattandosi di ordine pubblico – permaneva in capo al Ministero dell’Interno e ai suoi funzionari che, unitamente agli Ufficiali del Corpo, affiancarono all’attività più schiettamente militare di rastrellamento quella più sottile denominata info-investigativa, forse la più difficile perchè si scontrava con un muro di omertà e di pressochè assoluta mancanza di collaborazione con la cittadinanza.

    La cronaca del tempo annoverava pressochè con cadenza quotidiana le imprese della Polizia: per molti divenne ormai una consuetudine leggere l’apertura di cronaca con i risultati spesso tragici della caccia a quello che era diventato per tutti un fantasma. Ma non fu solo il Reparto Mobile a essere rinforzato: le questure e le Sezioni di Polizia Stradale furono implementate tanto da dover costituire in ogni città un apposito Raggruppamento Guardie che serviva da sorta di serbatoio umano per poter dare il cambio a quei militari che erano impiegati da mesi in prima linea.

    Da qui ben si comprende lo sforzo cui fu sottoposto in quegli anni un Corpo delle Guardie di P.S. chè si stava riorganizzando e che veniva comunque impiegato senza sosta anche nel resto dell’Italia in situazioni di ordine pubblico estremamente impegnative e delicate. Al termine del servizio specifico di antibanditismo (che in realtà terminò ben dopo la morte di Giuliano e la cattura di Pisciotta), i militari del 13^ Reparto Mobile vennero fatti confluire nei vari Reparti Celere dell’Isola o rafforzarono le questure dei capoluoghi di provincia più delicati. L’abnegazione di questi ragazzi fruttò alla Bandiera del Corpo il riconoscimento di una medaglia d’oro al Valore.

    Durante questa escalation di violenza Salvatore Giuliano diventa addirittura un mito tra la sua gente: è in grado di apparire in più posti nella stessa giornata, scomparendo poi alla velocità della luce. E quando compare è per una sola cosa: per uccidere. Sotto i colpi del suo Sten cadono tutti coloro che non stanno dalla sua parte, siano essi civili o militari, amici o conoscenti o perfetti sconosciuti.

    Un giorno assolato di agosto del 1949 Giuliano compare nella piazza di Montelepre: ha alle costole la Polizia di tutta la Sicilia ma lui è un uomo d’onore. Sa che un suo paesano lo ha tradito facendo lo splendido con gli sbirri: un’onta che deve essere lavata col sangue. L’uomo è un barbiere di mezza età che ha la bottega che si affaccia proprio sulla piazza. Un uomo tranquillo e pacioso che ha tagliato i capelli e rasato la barba ad almeno due generazioni di monteleprini. In quel periodo sta insegnando il mestiere a uno dei figli che dovrà proseguire la sua attività quando finalmente l’uomo si ritirerà a meritato riposo.

    Seduti attorno alla piazza all’ombra delle case ci sono molti uomini e qualche donna infagottata nel suo abito nero e nel fazzolettone che le copre la testa. Lo vedono tutti arrivare: è sempre molto attento alla cura della sua persona, veste con gilet nero su camicia bianca e pantaloni in tela scuri. Sbarbato e abbronzato, con i capelli imbrillantinati nascosti dalla coppola. A tracolla, il suo mitra. Giuliano non entra nemmeno nella bottega del barbiere: si affaccia e lo guarda per qualche secondo, allontanandosi poi fino al centro della piazza. L’uomo diventa pallido, un sudore malsano gli ricopre la testa pelata colandogli tra i radi capelli che gli fanno da corona e scendendogli lungo la schiena. E’ un sudore freddo, è il sudore della morte.

    Secondo il codice d’onore, l’uomo chiama il figlio e gli consegna le chiavi del negozio, il suo orologio da tasca e il logoro paio di scarpe, ricevute a sua volta molti anni prima da suo padre e risuolate fino allo sfinimento. Poi esce. In piazza non si leva un bisbiglio: Giuliano è là, piantato sulle sue gambe. Lo aspetta. L’uomo gli si avvicina, si mette in ginocchio e in dialetto lo prega di risparmiarlo, almeno per suo figlio piccolo che sta guardando la scena dalla porta del negozio. Giuliano lentamente si stacca il mitra di spalla, sempre a rallentatore controlla il caricatore e arma l’otturatore. Un rallentatore che fa da contrappunto alla sempre maggiore velocità con cui la sua vittima vomita le sue implorazioni di pietà. Poi una singola raffica in pieno petto lo fa stramazzare al suolo in una pozza di sangue che si allarga sotto di lui. Giuliano si allontana con la sua calma serafica, scomparendo giusto prima dell’arrivo di una pattuglia di Carabinieri. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito.

    Fino a questo momento la storia del bandito Giuliano ha presentato più di qualche punto oscuro, soprattutto quando si cerca di fare luce sui suoi protettori. Allora ritorniamo per un momento a quella frase con cui abbiamo aperto il racconto.

    “Ogni volta che pestiamo i piedi agli Americani, questo ammazza tre dei nostri!!”

    Sono in molti ad averla sentita gridare lungo i corridoi di un palazzo, dopo l’ennesima strage di Poliziotti morti ammazzati. Non siamo a Palermo, in qualche caserma. Siamo a Roma, i corridoi sono quelli del Ministero dell’Interno. L’uomo che la fa esplodere è Mario Scelba, un ministro che la storia d’Italia ha annoverato per molti anni come uomo di prima linea. E’ stato lui a volere la nascita dei Reparti Celere nel 1946; lui a delegare poteri molto forti alla Polizia, i cui uomini vennero chiamati dalla critica politica “i pretoriani”, gli “scelbini”; lui a farsi carico di difenderli in ogni circostanza, anche quelle più pesanti e difficili.

    Non è uno che si tira indietro, Scelba: è un uomo dello Stato che quando parla lo fa sempre a ragion veduta. E per questo una simile frase probabilmente racchiude in sé la verità non detta, il bandolo di questa intricata matassa. Proprio negli anni in cui Giuliano iniziava la sua “carriera” criminale, Mario Scelba dava il via nel Corpo delle Guardie di P.S. alle numerose epurazioni di militari “non graditi”.

    Letta in termini ancora più chiari, la questione diventa molto più semplice: via dalla Polizia tutti gli ex partigiani e tutti coloro che venivano sospettati di simpatie di sinistra. Allarghiamo un po’ l’obiettivo di questa istantanea: nel medesimo periodo in America c’è un senatore repubblicano che sta facendo la stessa cosa in tutta la pubblica amministrazione a stelle e strisce. Si chiama Joseph McCarthy ed è uno dei più ferventi anticomunisti dell’inizio degli anni Cinquanta.

    Presiede una commissione affari interni creata ad hoc per combattere infiltrazioni comuniste negli Stati Uniti: sotto la sua scure passano centinaia di americani in quelli che spesso erano semplicemente processi indiziari, ma che tuttavia non impedivano all’onnipotente McCarthy di licenziare e addirittura incarcerare il malcapitato. La sua censura toccava a 360 gradi la stampa, le lettere private, i libri, le radiocomunicazioni, la televisione, insomma, ogni ambito della vita civile di ogni singolo americano. Gli archivi McCarthy assunsero presto un’estensione immensa, seconda solo a quelli della CIA e dell’FBI con i quali peraltro la collaborazione era assoluta.

    Da questa angolazione tutto diventa più chiaro. Ancora di più se si pensa che in Italia – e soprattutto in Sicilia – non venne mai fatto mistero della presenza di alcuni agenti della CIA che avevano il compito di contrastare l’avanzata dell’Unione Sovietica nella vecchia Europa. Non dimentichiamo neanche che in quegli anni era ancora aperta ed estremamente scottante la “questione di Trieste”, un confine orientale gestito transitoriamente dal Governo Militare Alleato e i cui cippi confinari subivano “misteriosi” spostamenti ogni giorno. Gli stessi servizi segreti italiani stavano tenendo d’occhio i sempre più frequenti viaggi al Cremlino di un uomo politico di primo piano: Palmiro Togliatti. E solo nel 1960 si inizierà a parlare di “distensione”, come a confermare il fatto che nei quindici anni precedenti la guerra fredda non lo era stata poi così tanto….

    Se tutto questo lo trasferiamo in Sicilia tra la fine degli Anni Quaranta e i primi Anni Cinquanta, di sicuro non si può più considerare poi così peregrina l’ipotesi di un Salvatore Giuliano protetto, pilotato e, sì, anche usato dai servizi segreti statunitensi. Era per loro l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto: una pedina da sfruttare fino a “bruciarla”, perchè tanto quello che importava era l’unico risultato possibile: incrementare l’anticomunismo in un’Italia che era il confine estremo delle libertà civili, separata da uno stretto braccio di mare e da qualche chilometro di boschi dai Paesi orbitanti nella sfera sovietica.

    E a questo punto della storia, tanto per renderla ancora più complicata e misteriosa, introduciamo un’altra figura importantissima: quella di Gaspare Pisciotta, il “vice” di Giuliano. Come lui, è un monteleprino d.o.c. E si è contraddistinto nei combattimenti contro i nazisti venendo addirittura catturato. Al termine della guerra lo ritroviamo in Sicilia affetto da tubercolosi e, dopo poco, amico di Salvatore Giuliano, suo delfino nella campagna secessionista dell’isola. Tutte le imprese banditesche di quest’ultimo portano la firma anche di Gaspare Pisciotta: Portella della Ginestra, l’eccidio di Piana degli Albanesi, assalti a caserme e pattuglie, gestione dei taglieggiamenti, dei ricatti e delle rapine per rimpinguare le casse della banda aumentandone il potere.

    La storia di Pisciotta marcia dunque di pari passo con quella di Giuliano fino al giorno in cui il boss viene ucciso. La morte di Giuliano non è mai stata univocamente accertata: il suo cadavere venne rinvenuto nelle campagne di Castelvetrano la mattina del 5 luglio 1950. La versione ufficiale lo dà per caduto in un conflitto a fuoco con i Carabinieri, tuttavia esistono numerose altre versioni la più accreditata delle quali vide Giuliano cadere in un’imboscata tesa dai suoi stessi compari capitanati proprio da Pisciotta che – consapevole dell’ormai imminente cattura della banda – aveva nel frattempo intessuto accordi particolareggiati con lo Stato che gli avrebbe garantito una sorta di salvacondotto in caso di cattura o uccisione del suo capo. A tale proposito esiste agli atti un biglietto a firma di Scelba che sancisce questo tipo di rapporti:

    Il nominato Gaspare Pisciotta di Salvatore e di Lombardo Rosalia, nato a Montelepre il 5 marzo 1924, raffigurato nella fotografia in calce al presente, si sta attivamente adoperando – come da formale assicurazione fornitami nel mio ufficio in data 24 giugno c. dal colonnello Luca – per restituire alla zona di Montelepre e comuni vicini la tranquillità e la concordia, cooperando per il totale ripristino della legge. Assicuro e garantisco fin d’ora che la sua preziosa ed apprezzata opera sarà tenuta nella massima considerazione anche per l’avvenire e verrà da me segnalata alla competente Autorità Giudiziaria perché – anche sulla base delle giustificazioni e dei chiarimenti che egli fornirà – voglia riesaminare quanto gli è stato addebitato, vagliando attentamente e minuziosamente tutte le circostanze dei vari episodi, al fine che nulla sia trascurato per porre in chiara luce ogni elemento a lui favorevole. Il Col. Luca, unico mio fiduciario, raccoglierà intanto ogni dato utile al riesame della sua posizione, tenendomi informato dei risultati conseguiti.

    Il Ministro Mario Scelba.






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    In alto: una delle rare immagini originali del cadavere di Salvatore Giuliano rinvenuto la mattina del 5 agosto 1950 a Castelvetrano. Nella foto sotto: la ricostruzione del fatto nel film Salvatore Giuliano di Francesco Rosi (1962)




    Un tradimento, insomma. Uno dei tanti che Giuliano fino ad allora aveva saputo evitare e che mai avrebbe sospettato essergli architettato proprio da colui il quale aveva sempre definito “fratello di sangue”. Secondo questa versione, la sera del 4 luglio 1950 Giuliano sarebbe stato attirato in una masseria chiamata “Villa Carolina”, tra Pioppo e Monreale. Qui l’uomo sarebbe stato assassinato nel sonno per poi inscenare la simulazione del conflitto a fuoco con i Carabinieri il giorno dopo.

    Chi ha manovrato Pisciotta? Quali sono state le effettive ragioni che hanno portato all’eliminazione fisica di Salvatore Giuliano? Interrogativi che resteranno tali almeno fino all’agosto 2016 quando scadrà la segretazione voluta dalla commissione antimafia nel 1974.

    Sta di fatto che Pisciotta viene catturato subito dopo, incarcerato e condannato all’ergastolo per la strage di Portella della Ginestra. E qui parte l’inizio della sua fine: Pisciotta inizia a parlare, sa di non avere più nulla da perdere e di non essere al sicuro nemmeno nell’isolamento dell’Ucciardone. Smonta pezzo per pezzo la tesi ufficiale del conflitto a fuoco con i Carabinieri a Castelvetrano e si addossa la paternità dell’uccisione di Giuliano su ordine del ministro Scelba; l’uomo aveva inoltre stabilito un patto di soccorso con il colonnello dei CC Luca il quale lo avrebbe dovuto aiutare in caso di sua cattura. Ma Luca non si fa avanti in alcun modo e Pisciotta viene lasciato in carcere. Tuttavia nel fiume in piena delle sue dichiarazioni anche Pisciotta resta reticente sulla strage di Portella della Ginestra, trincerandosi dietro i “non so” e i “non ricordo” quando si tratta di indicarne i mandanti. In carcere la paranoia di Pisciotta arriva all’apice: non vuole condividere la cella con nessuno, mangia solo il cibo che viene preparato da sua mamma e che la donna gli recapita personalmente ogni giorno. Nonostante tale garanzia, si dice avesse in cella con sé un piccolo passerotto cui faceva assaggiare preliminarmente il cibo per vedere se c’era dentro del veleno.

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    Una delle ultime immagini di Gaspare Pisciotta prima della sua morte misteriosa: siamo a Viterbo durante il processo del 1951



    Il pomeriggio dell’8 febbraio 1954 Pisciotta vuole incontrare il procuratore della repubblica responsabile delle indagini sulla banda Giuliano e sulla strage di Portella della Ginestra: gli dice di avere importanti rivelazioni da fargli ma il magistrato interrompe il colloquio con la scusa di non avere con sé un cancelliere che redigesse il verbale. Si accordano per incontrarsi il giorno dopo. La mattina del 9 febbraio, poche ore prima dell’incontro con il giudice, Pisciotta beve qualcosa, c’è chi dice un caffè, c’è chi invece indica una bevanda vitaminica usata per combattere i postumi della sua vecchia tubercolosi. E subito stramazza a terra fulminato da atroci dolori allo stomaco. L’autopsia gli troverà una concentrazione di oltre due grammi di stricnina, una dose assolutamente letale. Con Pisciotta se ne va definitivamente anche tutta la parte oscura della storia della banda Giuliano, quella parte forse più interessante che riguardava connivenze e rapporti occulti tra Giuliano e la politica o tra Giuliano e i servizi segreti americani. Il polverone sollevato da questo decesso scosse i palazzi del potere fino alle fondamenta: ma quelli erano anni particolari, anni fatti di continui polveroni che i politici erano ormai abituati ad affrontare e a gestire. Il tempo fece il resto e la storia passò presto nel dimenticatoio: Scelba rimase al suo posto, il governo pure; mandanti ed esecutori dell’omicidio Pisciotta restano tuttora sconosciuti, il comunismo sovietico venne tenuto fuori dai confini d’Italia e tutti vissero felici e contenti….

    Cosa resta oggi di tutto ciò? Resta solo un numero: diciassette. Diciassette giovani vite di altrettanti fedeli servitori dello Stato. Con l’impressione che essi, in compagnia di molti altri e dello stesso Giuliano, siano stati usati come giocattoli da poteri politici che andavano oltre ogni umana comprensione per dei semplici militari. E forse non solo per loro.

    Anche in questa storia dai contorni tuttora poco chiari la Polizia italiana (al pari dell’Arma dei Carabinieri) si adoperò con encomiabile spirito di sacrificio: l’attività di rastrellamento e di antibanditismo espletata dal Corpo delle Guardie di P.S. in quegli anni gettò le basi per l’evoluzione dei sistemi di controllo del territorio che vedranno i militari impiegati anche negli anni successivi.



    BIBLIOGRAFIA

    Giuseppe Casarrubea. Salvatore Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti. Franco Angeli , 2001.
    Carlo Maria Lomartire. Il bandito Giuliano. Mondadori, 2007.
    Carlo Lucarelli. Il bandito Giuliano in Nuovi misteri d’Italia. I casi di Blu Notte. Torino, Einaudi, 2004. pp. 3-24.
    Mario Puzo. Il Siciliano. 1984
    Carlo Ruta. Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?. Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 1995
    Carlo Ruta. Giuliano e lo Stato. Documenti sul primo intrigo della Repubblica. Edi.bi.si., Messina, 2004
    Carlo Ruta. Il processo. Il tarlo della Repubblica. Eranuova, Perugia, 1994
    Giuseppe Sciortino Giuliano. Mio Fratello Salvatore Giuliano. Arnone Editore
    Billy James Chandler. King of the Mountain: The Life and Death of Giuliano the Bandit (1988).
    Gavin Maxwell. God Protect Me From My Friends (1956)
    Time Magazine. The Big Mouth article (Feb. 22, 1954)
    Fabrizio Loreto. La memoria della strage di Portella della Ginestra
    Mattinali della Questura di Palermo in www.edscuola.com/archivio/interlinea/stragi_47.htm
    Francesco Petrotta. Portella della Ginestra. La ricerca della verità. Ediesse, 2007
    Maria Gigliola Toniollo. Il popolo di Portella della Ginestra.
     
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