I moti di Reggio Calabria (1970 - 1971)

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    I moti di Reggio Calabria (1970 – 1971)

    di Gianmarco Calore




    Quella che stiamo per raccontare è una delle pagine più lunghe e difficili della storia recente del nostro Paese. Ma anche quella più dimenticata. Già, perchè se vogliamo parlare degli scontri di Genova del 30 giugno 1960, della rivolta di Porta San Paolo a Roma (6 luglio 1960) o della strage di Reggio Emilia (7 luglio 1960) la memoria focalizza subito l’argomento: storie, ricordi, aneddoti, fotografie, addirittura blog di informazione, forum, manifestazioni di ricorrenza. Eppure stiamo parlando di avvenimenti che – pur nella loro drammaticità – toccarono la cronaca esplodendo per un giorno soltanto. O per poco più.

    Sulla rivolta di Reggio Calabria invece, per quanto tu ti adoperi, le notizie sono sporadiche, frammentate, prive di una continuità storica che simili fatti meriterebbero. Soprattutto, c’è una sorta di carta velina che si frappone tra lo storico e quegli avvenimenti storpiandone la nitidezza, rendendoli sfocati e quasi sperando che il sipario ben più pesante dell’oblio cali in maniera definitiva su un periodo storico che ci coinvolse non per un giorno, né per un mese. Ma per più di un anno.

    Il rigore storico che bisogna adottare per affrontare un simile argomento impone di iniziare la nostra analisi ben prima di quel fatidico 14 luglio 1970, quando le strade di Reggio Calabria furono messe a ferro e fuoco da una popolazione esausta e disillusa che si era vista presa in giro per l’ennesima volta dal governo centrale che ora la voleva pure scippare del titolo di capoluogo di regione a favore della più “centrale” Catanzaro. Dico “centrale” perchè, come si vedrà, in questa storia anche la geografia ebbe la sua importanza. Non fu solo un’esplosione di furia politica, ma prima di tutto fu un rigurgito di disagio sociale nel quale solo in un secondo tempo “fascisti” e “comunisti” si insinuarono più per dare un tono alle manifestazioni di piazza che per reale senso di appartenenza a una città che nascondeva nemmeno troppo velatamente tante contraddizioni.

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    Reggio Calabria fu per moltissimi anni una città di confine: ubicata sulla punta estrema del nostro Stivale, separata dalla Sicilia da nemmeno 3 chilometri di mare e isolata dal resto del Paese dal massiccio della Sila e dell’Aspromonte, sviluppò qui più che altrove l’unica forma di primaria difesa che le era concessa. Quella dell’identità territoriale dei suoi abitanti. Un Reggino prima di essere calabrese era – appunto – un Reggino: qui più che nel resto della regione i sentimenti di appartenenza che legavano gli abitanti prima tra loro e poi al territorio subirono nel corso dei secoli un’amplificazione che trova forse uguale forza solo negli abitanti della Sardegna. Ma mentre in quest’ultima la dislocazione geografica dell’isola ne fa giocoforza un pezzo d’Italia sganciato fisicamente e socialmente dal resto della Nazione con il quale abbiamo imparato a fare i conti, per la Calabria i discorsi sono molto diversi. E questa diversità emerse in tutta la sua virulenza in un periodo storico in cui i governi (tutti, senza distinzione) si evidenziarono per la loro indolenza e staticità nel saper comprendere le spinte sempre più forti che giungevano dalle varie classi sociali.

    Vista in ottica attuale, l’attribuzione del titolo di capoluogo di regione può sembrare un fatto non così importante da degenerare in gravi scontri di piazza. Tuttavia quando per mesi si discusse circa il mantenimento o meno del capoluogo in terra reggina, ai suoi abitanti vennero date rassicurazioni molto forti in proposito. Rassicurazioni che non significavano per la città solo una “questione di pennacchio” (come fu scritto da molti storici), ma anche e soprattutto una questione economica e di progresso sociale: l’isolamento geografico della città aveva comportato come prima cosa un suo rallentamento nell’evoluzione economica, industriale e sociale. L’analfabetismo era ancora a livelli preoccupanti e la disoccupazione forniva alla malavita locale folte schiere di manodopera sempre fresca, tale da garantire alla ‘Ndrangheta il dominio assoluto sulla città. Insomma, essere capoluogo di regione avrebbe significato per i Reggini tutta una serie di migliorie che avrebbero portato la città alla pari con gli altri capoluoghi di regione, consentendo ai suoi abitanti di far sentire la loro voce direttamente a livello centrale, dentro la “stanza dei bottoni” della capitale. Quando alla fine il governo si decise, facendo transitare la nomina a Catanzaro, per i Reggini fu uno schiaffo soprattutto al loro orgoglio: e per un Calabrese l’orgoglio vale più di ogni altra cosa. Con una metafora decisamente azzeccata, uno storico ebbe a dire che “il 14 luglio 1970 Reggio Calabria era finita nel tritasassi dell’opportunismo politico”: ecco, forse proprio questa fu la scintilla che diede origine a quelli che a memoria d’uomo furono gli scontri di piazza più cruenti che l’Italia ricordi dal dopoguerra a oggi.

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    Iniziò quindi un susseguirsi di eventi sempre più convulsi, come quando una gigantesca valanga trova le sue origini in una piccola palla di neve che inizia a rotolare: sul palcoscenico di questa tragedia si alternarono personaggi di vario tipo, il primo dei quali fu il sindaco di allora, Piero Battaglia: un democristiano vecchio stampo che fu per molti versi l’ago della bilancia degli avvenimenti reggini. Un personaggio al quale, quando la situazione sfuggì di mano in modo incontrollabile, furono addossate colpe che forse era meglio attribuire ad altri. Fu suo il primo rapporto alla cittadinanza dettato dall’onda emotiva dovuta allo spoglio non solo del titolo di capoluogo di regione, ma anche di sede dell’università che era stata spostata a Cosenza e della successiva mancata indicazione della città come polo industriale della regione Calabria. Insomma, uno scippo bello e buono: questo fu avvertito dalle coscienze dei reggini.

    La risposta dello Stato italiano fu per molti versi ritenuta sproporzionata. Di sicuro lo sarebbe oggi; magari lo sarebbe stata anche in quei giorni se solo non ci fosse già stato il Sessantotto il cui “vento gentile” si era trasformato in Italia in autentica burrasca. Un fenomeno di costume che lo Stato si era ostinato a considerare tale (e come tale destinato a rientrare presto o tardi nei ranghi) ma che invece portava a galla malesseri di una società che si scopriva vecchia e superata, che mal digeriva le imposizioni ottocentesche che venivano legiferate in ogni ambito del vivere civile; un’esigenza di rinnovamento che stava mettendo a dura prova l’ordine pubblico nazionale che uno Stato impaurito continuava a trattare con metodi duramente repressivi. Ecco perchè a Reggio Calabria fu fatto confluire un numero di Poliziotti e Carabinieri mai visto fino ad allora: ad un primo nucleo di ben quattromila agenti, ne fece seguito nel corso del tempo un secondo di altri seimila: insomma, diecimila agenti, praticamente uno ogni due abitanti….. Un sistema repressivo tanto più confuso quanto più scarsamente conoscitivo della realtà sociale in cui andava a operare: reparti “Celere” provenienti da Milano, Bologna, Padova, Torino, Firenze, Roma inviati in estenuanti aggregazioni che ben presto fiaccarono il morale agli uomini ai quali venivano impartiti ordini spesso confusi o contraddittori. Un ulteriore elemento di innalzamento della tensione che subì un’altra impennata con l’invio in città dei mezzi blindati e dei carri armati dell’Esercito: come in guerra. E come in guerra le notizie che trapelarono sulla stampa furono abilmente pilotate in ottica tranquillizzante da un governo che continuava a ripetere che tutto era pressochè risolto, che sarebbe stata solo una questione di giorni. Quando poi l’opinione pubblica non si fece più abbindolare in questo senso, ecco servita la carta delle “gravi trame extraparlamentari” che gettarono una rivolta squisitamente sociale sul ben diverso piano politico, confondendo ulteriormente le parti in causa e favorendo l’inserimento di altri personaggi che sfruttarono i fatti di Reggio per trovare il loro “posto al sole”. Fu gioco facile attribuire la responsabilità dei moti di Reggio ai neofascisti solo perchè i Reggini trovarono come loro interlocutore naturale Ciccio Franco, simpatizzante del Movimento Sociale Italiano e sindacalista della CISNAL, ma in realtà prima di tutto reggino tra i reggini, calabrese tra i calabresi. Capite bene che, spostando l’equilibrio da un piano sociale a quello politico, tutto cambia e tutto viene giustificato: giustificato l’invio abnorme di Forze di Polizia, giustificata la metodologia esclusivamente repressiva che non lasciava alcuno spazio al dialogo, giustificati perfino i cinque morti che questa storia lascerà sul terreno alla sua conclusione…

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    D’altro canto i Reggini capirono subito che quella sarebbe stata per loro l’unica occasione di far sentire la propria voce in campo nazionale e che l’alternativa sarebbe stata quella di sprofondare nuovamente – e stavolta definitivamente – nell’oblio. Questo esasperò ancora di più i toni e ogni forma di dialogo successivamente proposta finì relegata sotto le suole degli anfibi dei celerini, tra barricate stradali e fumo di lacrimogeni. All’unità nazionale fece da contraltare l’autoproclamazione della Repubblica di Sbarre, del Granducato di Santa Caterina, del Principato di San Brunello, del Regno di Viale Quinto: ogni singola frazione della città opponeva la propria spinta autonomista e secessionista proprio per negare qualsiasi forma di dialogo in quella che era diventata agli occhi di tutti una strada senza ritorno. La cosiddetta “questione meridionale” era diventata dunque una bandiera che tutti volevano portare in cambio di un ritorno di popolarità e risonanza politica, ma che nessuno fu in grado di affrontare seriamente, né tanto più di risolvere. In quest’ottica, i moti di Reggio Calabria sancirono anche l’esplicito rifiuto di quella logica clientelare che rendeva ogni diritto un favore e sulla quale avevano campato politici da una parte e malavita dall’altra: due facce della stessa medaglia che aveva contribuito a far svendere il valore di quella città. Fu qui che venne coniato proprio da Ciccio Franco quello che divenne il motto dei rivoltosi: “Boia chi molla!”

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    Alle barricate stradali fecero seguito blocchi ferroviari e navali, con Villa San Giovanni picchettata e isolata; assalti a strutture pubbliche quali caserme,prefettura, questura, uffici postali. Venne perfino fondato il Comitato per la Calabria Libera in un delirio di onnipotenza che pervase tutti gli strati sociali della città. Si dissero: “Tutti contro Reggio? Beh, allora Reggio contro tutti!” Sul piano politico la rivolta, iniziata dal Comitato Unitario capitanato da esponenti scudo-crociati, sfociò il 27 luglio 1970 in una sorta di ricatto politico in cui caddero questi ultimi: nel corso di una riunione in Prefettura, probabilmente sulla spinta di minacce o ricatti, il Comitato dichiarò che non sarebbe più stato in grado di promuovere lo sciopero generale per il giorno successivo. Del tutto spontaneamente si formò in quella circostanza il Comitato d’Azione per Reggio Capoluogo che divenne il punto di riferimento stabile per la popolazione in rivolta.

    A riportare la questione sul piano meramente pratico facendo aprire gli occhi a chi si era abituato agli arresti, ai feriti e agli scontri ci pensò il 15 luglio 1970 il ferroviere Bruno Labate, il primo caduto di questa insurrezione: la gente capì che non si trattava più di sassaiole, di qualche auto bruciata, al massimo di qualche molotov tirata ai gipponi della Celere. La questione assunse da quel momento connotazioni spiccatamente belliche e anche a livello centrale tutti capirono che la situazione era ben lungi dal potersi considerare sotto controllo. L’escalation di violenza assunse da quel momento valori assoluti, valori che caratterizzarono gli scontri fino alla loro fine e che trasformarono le strade di Reggio Calabria in campi di battaglia: le foto che ci arrivano da quei giorni si discostano di molto poco da quelle di Beirut anni Ottanta. Il sindaco cercò subito una mediazione con la popolazione, da un lato cercando di placare gli animi, dall’altro contravvenendo alle disposizioni date dalla Prefettura che aveva vietato per ragioni di ordine pubblico che il corteo funebre del ferroviere ucciso transitare su corso Garibaldi, il viale principale della città. Il primo cittadino di Reggio capì che se avesse costretto la cittadinanza a seppellire il suo morto portandolo al camposanto attraverso stradine laterali e nascoste, davvero a quel punto nessuno avrebbe ascoltato più nessuno e la lotta si sarebbe trasformata in lotta armata. La gente, grazie a un simile gesto, rispose con grande senso di civiltà e il corteo, pur se con la tensione alle stelle, si svolse senza incidenti: solo alcune frange estremiste al termine del funerale tentarono l’ennesimo assalto alla questura. Il giornalista Luigi Malafarina, in quei giorni in prima linea a raccontare gli avvenimenti, attribuì la tranquillità del corteo funebre all’intervento del questore Emilio Santillo: quando le migliaia di partecipanti al funerale passarono di fronte alla questura (che all’epoca era ubicata nei pressi di piazza Duomo) e da essi si staccarono alcune centinaia di facinorosi che assalirono quegli uffici, l’alto funzionario si affacciò alle finestre del proprio ufficio con un grosso sigaro tra le labbra e ordinò ai Reparti “Celere” schierati con mitra e moschetti di non fare nulla e di lasciare che i manifestanti si sfogassero. Un ordine apparentemente suicida, in realtà espressione di grande lungimiranza: meglio sacrificare alcune stanze messe a ferro e fuoco piuttosto che lasciare a terra altri morti. I fatti gli daranno ragione.

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    Nel frattempo, gli scioperi che si susseguono a ritmo continuo vedono fianco a fianco studenti e lavoratori, magari appartenenti a fazioni politiche opposte, ma tutti accomunati dall’orgoglio di essere reggino. Iniziano anche gli attentati dinamitardi alle linee ferroviarie: alla fine dei moti se ne conteranno più di duecento. L’evidenza dei fatti confermava dunque trattarsi di una rivolta di popolo caratterizzata dalla sua spontaneità: a poco o a nulla valsero i tentativi politici di accreditare fantomatici gruppi finanziatori provenienti dall’imprenditoria locale come i veri responsabili dei fatti di Reggio.

    Il 17 settembre 1970 sul ponte Calopinace viene ucciso a colpi di arma da fuoco nel corso degli scontri il tranviere Angelo Campanella: a poco giova scaricare le responsabilità su dimostranti piuttosto che sulla polizia. Questo secondo morto inasprisce ancora di più, semmai fosse ancora possibile, la questione. Resta emblematico il testo di un cartello sventolato da un manifestante dopo questo avvenimento: “Maria, solo tu ci sei rimasta!”. Quando si ricorre alle invocazioni divine, significa che davvero non ci sono altre speranze. La sera del 17 settembre il prefetto stesso telefonò in Arcivescovado chiedendo all’alto prelato di calmare con le sue parole gli animi furiosi dei Reggini. Subito dopo Campanella muore anche il vice brigadiere Vincenzo Curigliano: un infarto lo stronca all’interno della questura che stava strenuamente difendendo dall’ennesimo attacco di rivoltosi. La morte del brigadiere Curigliano è importante perchè, nella logica perversa del “sangue chiama sangue”, serve in qualche modo a stemperare gli animi. La morte di un Poliziotto è sempre un fatto gravissimo; se poi viene incasellata all’interno di una rivolta popolare come quella di Reggio, assume allora proporzioni addirittura mastodontiche. La gente inizia a temere che adesso la Polizia si senta autorizzata a inasprire ulteriormente i metodi repressivi. E per qualche giorno la tensione di stabilizza. Ma è solo questione di tempo. Poco tempo. Il 12 gennaio 1971 alla stazione di Reggio Calabria c’è l’ennesimo convoglio militare che sta partendo alla volta del Nord Italia. Trasporta un contingente del 2° Raggruppamento Celere di Padova, tanti giovani militari che stanno facendo rientro dopo avere ricevuto finalmente il cambio dopo mesi di estenuanti combattimenti: all’improvviso il convoglio viene fatto oggetto di una fitta sassaiola da parte di alcuni rivoltosi che si erano appostati nel buio. La guardia Antonio Bellotti, che in quel momento si trovava in uno degli scompartimenti, viene centrata da una grossa pietra che lo colpisce alla testa dopo avere sfondato il vetro. Il militare morirà tre giorni dopo senza avere mai ripreso conoscenza. Il terrore si impadronisce di tutti, civili e militari: poliziotti che temono di essere uccisi a tradimento, manifestanti che temono la reazione dei poliziotti. Insomma, tutti hanno paura di tutti. Ed è forse questo a fare assumere agli scontri una nuova dimensione: scendono in piazza le donne reggine. In una società di allora estremamente maschilista e patriarcale in cui le donne erano relegate a mere esecutrici degli ordini dei capifamiglia, una presa di posizione così ferma e soprattutto così indipendente funzionò come una vera e propria secchiata di acqua fredda sul clima incandescente di quei giorni.

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    Un’ulteriore spinta verso la riappacificazione giunge finalmente anche dal governo centrale che, pur lasciando a Catanzaro il ruolo di capoluogo di regione, sposta a Reggio Calabria la sede del consiglio regionale; inoltre, come annunciato dal premier Colombo, nascerà lì il quinto polo industriale chimico e siderurgico dell’I.R.I., capace di dare lavoro a migliaia di persone portando Reggio ai vertici della catena industriale del Mezzogiorno. Alla luce attuale una simile manovra suona come sintomo evidente di dabbenaggine politica o – nel migliore dei casi – come valvola di sfogo per una situazione che aveva raggiunto un insuperabile impasse: il polo industriale fu costruito ma non entrò mai in funzione. Tutt’oggi sono visibili gli stabilimenti ridotti ad un ammasso di capannoni arrugginiti, ennesima cattedrale nel deserto, ennesimo oltraggio ad una città già abbondantemente vilipesa.

    Sul piano dell’ordine pubblico si arriva alla quinta vittima: viene ucciso da un colpo di pistola definito proiettile vagante il venticinquenne Carmine Iacobis. Alla luce dei risultati disattesi e ormai scoraggiato dagli attacchi personali cui venne fatto oggetto, il sindaco Franco Battaglia si dimise come estrema protesta verso uno Stato rimasto sordo alle sue richieste. Alla vigilia di Natale del 1971 il ministro dell’interno Restivo revoca i decreti con i quali dieci mesi prima erano stati annullate le libertà democratiche e costituzionali ai Reggini come il divieto di tenere comizi politici o anche semplici partite di calcio.

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    Dopo la rivolta fu il tempo dei processi. Ma questa è un’altra storia: come sempre furono puniti alcuni rivoltosi per i quali le sentenze suonarono più come sentenze politiche che giudiziarie. Del resto, non fu mai possibile risalire a chi tirò le fila di quella rivolta, di quell’ annus horribilis per la democrazia italiana. Pagarono per tutti come sempre i soliti disgraziati. Lo stesso Ciccio Franco, successivamente eletto senatore, continuò a negare strenuamente la presenza di finanziatori occulti o sobillatori della rivolta.

    Cosa resta oggi di quei giorni? Troppo rischioso scivolare in ambito politico: come amanti della storia, non ci spetta. Sul piano sociale resta l’impressione che, se la questione di Reggio si fosse presentata soltanto qualche anno prima, con ogni probabilità nulla di quanto narrato finora sarebbe mai accaduto. Lo Stato comandava, il cittadino eseguiva. Ma c’era stato appunto il Sessantotto; moti di rivolta studenteschi e operai si rincorrevano lungo tutta la Penisola; vi erano spinte così tanto forti che di lì a breve si sarebbero concretizzate nel terrorismo eversivo. Insomma, una società nettamente diversa rispetto a quella degli anni Cinquanta e Sessanta; ma soprattutto una diversità che andò propagandosi con velocità istantanea secondo una metodologia troppo lontana dagli schemi canonici considerati fino ad allora dalla politica. Prova ne sia lo sbando con cui le Forze di Polizia furono mandate ad affrontare quella situazione: foto e filmati – spesso amatoriali – danno l’impressione che su di essa si sia voluto stendere un velo, che la questione di Reggio tutt’oggi sia l’esempio di come lo Stato seppe perdere una partita importante col futuro. Per noi appassionati di storia rimarrà sempre un argomento sul quale discutere per tenerlo a mente e per ricordare un’Italia poi non così diversa da quella di oggi.
     
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    Guardia

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    Vorrei aggiungere la testimonianza tragicomica riferitami da un simpatico Sovrintendente Capo anziano agli inizi della mia carriera. Egli aveva prestato servizio a Reggio Calabria per quella circostanza e nella sua simpatica cadenza umbra mi disse: <<ahò, me o' 'nginocchiato pe' tirà 'n lacrimogeno, nun m'è 'rivato 'n cesso 'n testa?!>>. Era stato colpito da una tazza di water lanciata da una finestra dell'edificio vicino. Qualche frattura ma per fortuna senza versamento di midollo dal tratto cervicale della spina dorsale, se no........Però comunque idoneità parziale per tutto il resto del servizio in Polizia.....
     
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    È proprio questo il problema: si cercò di far passare quei fatti per una sorta di kermesse popolare, roba da sagra paesana. Anche a livello politico alcune forze di maggioranza cercarono di minimizzare gli avvenimenti criticando addirittura quella che fu definita una “eccessiva dimostrazione di muscolatura dello Stato”.
    Ci fu invece chi ci morì.
     
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