1946: la rivolta di San Vittore

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    In queste righe, scritte nel tipico linguaggio dell’epoca, viene tracciato pressoché in tempo reale lo spaccato di un evento tra i più drammatici dell’immediato dopoguerra. Una rivolta carceraria senza precedenti, con ogni evidenza pianificata da tempo, sfruttando le evidenti lacune nella sorveglianza dei detenuti e nell’amministrazione della loro vita carceraria, se è vero – come fu provato – che molte delle armi vennero introdotte nel carcere dagli stessi parenti dei detenuti.

    Ma chi era Ezio Barbieri? Di lui si occuparono le cronache a partire dalla Liberazione, quando assieme ad altri complici era passato alla storia come il capo della banda della Aprilia nera. Con tale vettura, molto simile a quella in uso alla polizia meneghina, organizzava falsi posti di blocco per rapinare i propri obiettivi, costituiti in genere da industriali o possidenti agrari. Come un novello Robin Hood, Barbieri redistribuiva poi il maltolto tra la povera gente, garantendosi così una cortina di assoluta omertà.

    Il 26 febbraio 1946, grazie a un’operazione di polizia senza precedenti organizzata dalla questura, venne catturato dopo che il suo “vice” Sandro Bezzi era stato ucciso in un conflitto a fuoco a Turro.

    La sua leadership nella rivolta di San Vittore è fuori discussione, ma quello che mandò in crisi un piano – comunque lo si voglia giudicare – ben congegnato fu la scarsa coesione tra i detenuti, molti dei quali non appartenenti alla malavita organizzata e che addirittura in carcere avevano trovato la maniera di sbarcare il lunario. I “duri e puri” della rivolta furono pochi e non poterono contare sulla manovalanza, dato che la maggior parte dei detenuti pensò ad assaltare la mensa del carcere per nutrirsi e – soprattutto – ubriacarsi.

    Sull’altro fronte, assistiamo all’intervento massiccio di Polizia e Carabinieri con autoblindo e carri armati. Essi dovettero operare in una situazione surreale, da un lato fronteggiando i rivoltosi in continui conflitti a fuoco; dall’altro, opponendosi ai parenti dei carcerati, giunti sul posto per dare loro manforte. Era un’Italia fatta così, con una monarchia al termine e con una probabile nuova forma repubblicana alle porte. La gestione dell’ordine pubblico non aveva ancora basi consolidate e il rischio che questa rivolta si potesse trasformare in un bagno di sangue era qualcosa di molto più che probabile. La vittima fu invece un eroica guardia carceraria, Salvatore Rap, un ventunenne militare che cercò di opporsi ai rivoltosi venendo da essi ucciso all’interno del carcere.

    Per la cronaca, il bandito Barbieri venne trasferito da un carcere all’altro. Tornò in libertà nel 1971, terminando i suoi giorni nel paese natale, Barcellona Pozzo di Gotto.



    Fonti consultate:

    La Stampa del 23 aprile 1946 e successivi;
    Il Corriere della Sera, pari date;
    A. Bevilacqua, La Pasqua rossa, Einaudi 2003



    (23.04.1946)

    LaStampa – numero 96

    Accanita battaglia a San Vittore tra le forze di polizia e i detenuti in rivolta


    Accanita battaglia a San Vittore tra le forze di polizia e i detenuti in rivolta – Autoblinde e mitragliatrici circondano il carcere • Fuoco concentrato sui punti di maggiore resistenza • I ribelli, capeggiati da Enzo Barbieri, trattengono 25 ostaggi rispondendo con mitra, pistole e bombe

    Pasqua a Pasquetta nella nostra città hanno avuto toni di alta drammaticità: morti, feriti e un fuoco intenso di armi di tutti i calibri, nel luogo dove s’è iniziala una vera e propria battaglia è sempre lo stesso: San Vittore, che rinnova nel perimetro e all’infuori della stessa triste dimora un desolante spettacolo di una lotta accanita a colpi d’arma da fuoco.

    La rivolta è scoppiata, nelle prime ore del pomeriggio di ieri per opera di un migliaio di detenuti, guidati dal tristamente noto e sobillatore di disordini famigerato bandito Barbieri che secretato insieme ad altri condannati e agli elementi più pericolosi veniva liberato e spingeva la sua audacia fino a personalmente consegnare i feriti più gravi al militi della sanità che attendevano, con medici di pronto soccorso, agli ingressi del carcere. Col Barbieri guidava i rivoltosi l’ex gerarca fascista Caradonna. Da un primo gruppo di detenuti, provvisto abbondantemente al armi moderne (mitra, bombe a mano; pistole), riusciva a disarmare quindici tra carabinieri ed agenti di polizia, mentre gli altri detenuti uscivano dalle celle del secondo braccio, la cui serrature sono ancora prive di chiavistelli.

    ezio_barbieri_1946
    La cattura del bandito Ezio Barbieri, fomentatore della rivolta

    Accorreva sol posto il questore, accompagnato da squadre della Volante e da carabinieri con autoblinde e carri armati. Giungevano poi i pompieri per domare le fiamme che si sprigionavano dal materassi accatastati dal detenuti che vi avevano appiccato il fuoco. Dopo un’ora dall’inizio la situazione era molto grave: la sera, buona parta della notte e la mattina la sparatoria aveva provocato delle vittima da ambo le parti. Verso il tramonto la situazione parve calmarsi; ma in verità i rivoltosi raccoglievano le forze per la battaglia che avrebbe ripreso. I magazzini del carcere erano stati saccheggiati e molti detenuti giacevano ubriachi per le abbondanti bevute. Da una prima indagine risultavano tra i catturati il dottor Battaglia e il sottotenente Colombo. La sparatoria veniva ripresa con violenza e durava tutta la serata e salvo qualche breve tregua fino a quando il Barbieri usciva per parlamentare chiedendo l’immediata scarcerazione dei detenuti meno colpevoli. La richiesta, naturalmente, veniva respinta. Si giungeva cosi alle luci dell’alba.

    La giornata, d’oggi era subito considerata come campale agli effetti del moto sedizioso. Il carcere veniva a mano a mano circondato da reparti dell’esercito, da pattuglie di carabinieri e da uomini della Celere, che, giungendo sul posto, si ponevano ai piedi degli alti muraglioni in attesa degli ordini e del maturarsi degli eventi. All’interno i ribelli erano e sono al momento in cui telefoniamo padroni del campo entro i vari raggi. Dai tetti bruciacchiati e dal cortili interni per tutta la giornata sono saliti al cielo, malgrado l’opera tenace del pompieri, alti pennacchi di fumo. La facciata perimetrale del carcere è sforacchiata in ogni punto, sbrecciata come un fortilizio assediato. I bossoli si trovano sparsi un po’ dappertutto a migliaia I rivoltosi hanno chiesto, mentre s’ammassavano nuovi rinforzi di truppe e di polizia, l’intervento del card. Schuster.

    La situazione, a mano a mano che passavano le ore, diventava tanto paradossale quanto insostenibile. Un primo bilancio del fuoco ad una giornata dall’attimo del moto sedizioso portava le vittime ad un morto tra i detenuti e venti feriti nelle file sia degli agenti che dei rivoltosi. Una grande folla si spingeva accanto ai primi curiosi ed erano cosi numerosi che è parso ad un certo momento che essi dovessero straripare oltre i cordoni della polizia. I congiunti del ribelli, stazionano ancor ora nelle strade con valigie contenenti indumenti civili da fornire al loro cari se l’evasione dovesse avverarsi. Durante la giornata diverse volte si sono avute delle vere e proprie delegazioni di parlamentari che si sono incontrate per discutere; anche il Prefetto ed il comandante Marnilo hanno intavolato discussioni, ma i detenuti hanno chiesto soltanto questo: essere messi tutti in libertà. Naturalmente s’imponeva da parte del tutori dell’ordine un’azione decisa per stroncare l’atto di rivolta: ma pesava su tutti il timore che i primi agenti disarmati, carabinieri e guardie carcerarie, le persone in complesso cadute nelle mani dei ribelli, venissero fatte segno a violenze.

    Il Prefetto chiedeva ordini telefonicamente a Roma. Intanto stavano concretandosi le prime misure straordinarie. In aggiunta alle autoblinde ed al reparti dell’esercito e della polizia, già sol posto, arrivavano da Torino altri carabinieri. Mitragliatrici e carri armati venivano frattanto ancora piazzati nei punti strategici. I rivoltosi parevano calmi. Pero v’era ragione di credere che essi stavano lavorando alacremente per preparare rudimentali bombe a e cariche di esplosivo che dovrebbero servire a praticare larghe brecce nei muri di cinta. L’esplosivo, di cui i detenuti sono venuti in possesso, sarebbe stato asportato da un deposito di materiale bellico lasciato dai tedeschi. Un grosso foro veniva ad un certo momento scoperto all’altezza del secondo raggio: subito contro di esso venivano dirette le canne di alcune mitragliatrici appostate sol muraglioni di cinta. E il pericolo risultava sventato.

    La folla era diventata fittissima stasera. La giornata festiva aveva perduto tutta la sua attrattiva percorsa dal brivido degli spari e dal rumore delle macchine e del mezzi cingolati. S. Vittore non era che un campo di battaglia. E la battaglia è scoppiata alle 11 contro i rivoltosi asserragliati all’interno dello stabilimento carcerario. I reparti dell’ordine, appoggiati da autoblinde, hanno inquadrato, sotto un intenso fuoco, i punti di maggiore resistenza; dal carcere i rivoltosi si sono subito messi a rispondere accanitamente e in meno di un’ora dall’inizio dell’azione, altri tre agenti rimanevano feriti.

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    Uno dei feriti tra le Forze di Polizia viene subito soccorso dai colleghi.

    Dopo due ore, alle 13, il fuoco continuava con ritmo immutato. Le forze dell’ordine sparano — mentre telefono — servendosi di armi automatiche di tutti i tipi, fino alle più pesanti, dalle case circonvicine, mentre una folla che diventa di minuto in minuto sempre più numerosa, s’addensa in prossimità dello stabilimento carcerario a stento trattenuta dal cordoni di polizia. I rivoltosi rispondono però più debolmente, evidentemente essi intendono economizzare le munizioni di scorta, riservandole per il momento decisivo del contatto. “Ci faremo ammazzare tutti — essi hanno gridato attraverso i megafoni — ma prima vedrete penzolare i cadaveri degli ostaggi!”. A quanto si va affermando, i rivoltosi sarebbero in possesso di trenta kg. di tritolo che sarebbero pervenuti loro nei giorni scorsi entro fiaschi di vino; con tale letale riserva di esplosivo i detenuti compirebbero, al momento opportuno, un gesto estremo: quello di far saltare in aria la pesante autoblinda che, sbarrando l’entrata principale del carcere, costituisce l’unico reale ostacolo ad una evasione in massa. Dietro questo piccolo diaframma di acciaio dal quale sporgono minacciose le canne dei cannoncini e delle mitragliatrici è tutto uno schieramento di armati che impedisce ogni possibilità di fuga.

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    L’autoblindo posta all’ingresso del carcere, contro cui si accanirono maggiormente i rivoltosi.

    Milano dorme, il traffico s’è acquetato; ma nell’aria sfrecciano sibilando la pallottole ed è battaglia a sangue. Il risultato non può essere che uno: la vittoria delle forze di polizia. Gli altoparlanti intatti, annunciano ai rivoltosi l’avvenimento che un’azione di annientamento, per ordine delle autorità superiori, è stata autorizzata. Non c’è per i ribelli che da arrendersi per evitare nuovi morti e feriti.

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    La guardia carceraria Salvatore Rap, caduto nel corso della rivolta.

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    Due immagini delle Forze di Polizia all’esterno del carcere



    Una testimonianza tratta dai cinegiornali dell’epoca QUI
     
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