Il brigadiere Marsilio Piermattei

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    La Redazione è lieta di riproporre questo articolo scritto alcuni anni fa e completato oggi con la precisa ricostruzione dei fatti mondata da alcune inesattezze grazie alla testimonianza diretta della signora Celestina Piermattei, figlia del Sottufficiale, incontrata il 9 luglio 2013 e alla quale vanno i più sentiti e commossi ringraziamenti per l’estrema disponibilità e per la forte emozione suscitata in tutti noi.



    LA SCOPERTA DI UNA LEGGENDA
    – Il brigadiere Marsilio Piermattei –



    1948piermattei

    Fu una delle prime schede che inviai alla Redazione di Cadutipolizia appena fui invitato a salire a bordo di questo team di “sciagurati”.

    Una scheda che avevo ricavato da alcune pagine della cronaca patavina dell’immediato secondo dopoguerra e che aveva fatto spargere tanto inchiostro per le settimane successive al fatto: l’omicidio di un brigadiere di P.S. avvenuto a Ravenna nel 1948.

    Sul principio non detti eccessiva importanza al personaggio: eravamo ancora nella fase pionieristica del sito, fatta di pantagrueliche indigestioni di dati e notizie ricavate consumandoci gli occhi su microfilm e pagine ingiallite di quotidiani, rinchiusi in biblioteche di mezza Italia come piccoli topolini alla ricerca del formaggio. “Macinavamo” centinaia di schede, per lo più Poliziotti conosciuti dall’opinione pubblica ma anche figure assolutamente ignote e spesso scoperte per puro caso.

    Attualmente il lavoro della Redazione è ben lungi dall’essere completato: sono ancora centinaia le schede da inserire per rendere la giusta memoria a tanti Caduti che stanno aspettando quel minimo di ricompensa anche virtuale che la storia magari non ha dato loro. Ma l’altra mattina presso la biblioteca civica, mentre mi stavo documentando su alcuni avvenimenti a corollario di alcune schede ho deciso di approfondire una figura che in parecchi numeri di cronaca nera compariva come una sorta di temibile investigatore che teneva in scacco una criminalità spesso da sopravvivenza, ma per questo non meno terribile e spietata di quella organizzata.

    Ne è scaturito un mosaico di notizie piccole e grandi che ha contribuito a delineare la figura di una leggenda: quella del brigadiere Marsilio Piermattei. E cosa c’entri Ravenna con Padova sarà presto spiegato.

    Marsilio Piermattei era un duro. Dovevi esserlo per forza quando una guerra mondiale ti stava sconquassando il Paese e quando chiunque indossasse una divisa veniva considerato un bersaglio da tante, troppe parti in causa. Dovevi esserlo ancora di più quando l’Italia venne spaccata in due da un governo golpista che, dopo l’Otto Settembre 1943, staccò di fatto il nord Italia dal resto della Penisola facendolo diventare una repubblica – fantoccio retta da un Duce che era diventato l’ombra di sé stesso in una Nazione ormai sempre più priva di controllo. E quando si trattò di prendere posizione in questo guazzabuglio politico, il brigadiere Piermattei non ci pensò due volte: aveva giurato fedeltà al Re, non a un pagliaccio in stivali neri che aveva rinominato la sua Polizia come “Repubblicana”. La scelta fu ancora più drastica e Piermattei aderì senza rimorsi né rimpianti alle formazioni partigiane, tanto da essere condannato a morte da un Tribunale Speciale Fascista che lo additò come un rinnegato sovversivo.

    Il brigadiere Piermattei però non fu mai uno che aveva cercato la vita facile: era entrato in Polizia giovanissimo e si era distinto da subito nella lotta alla criminalità. Fu assegnato alla Questura di Padova e qui alla “Squadra Gabinetto”, l’antesignana della più conosciuta Squadra Mobile. Un lavoro duro fatto di attività di intelligence con la raccolta di informazioni in ogni strato delle classi sociali, ma anche di crassa manovalanza con appostamenti, arresti e inseguimenti conditi spesso da pistolettate e schioppettate. In più, tutte le pratiche burocratiche da mandare avanti quotidianamente.

    La cronaca patavina degli anni Quaranta è punteggiata dalle imprese mirabolanti di questo brigadiere, imprese che coniugavano il serio e il faceto: come quella volta che fu arrestato un ladro di biciclette al mercato di piazza delle Erbe. Un mariuolo, uno dei tanti, che aveva visto un facile profitto su una bici lasciata momentaneamente incustodita. Una bici sbagliata, ancora più sbagliata perchè di proprietà proprio di Piermattei che, per assumere informazioni riservate sulla piaga ben più grave del mercato nero, aveva finto di farsi radere la barba in una bottega lì di fronte mentre il suo confidente si stava “sbottonando”. La gente vide un omone tutto avvolto nel lenzuolo da barbiere e con il volto ricoperto per metà di schiuma da barba avventarsi come un falco sul ladruncolo che venne quindi tratto in arresto.

    Cronaca che mise in luce le doti di Piermattei anche in frangenti molto più delicati, come il sequestro sventato del figlio di un gioielliere messo in piedi da una banda di disperati. Disperati che non esitarono a sparare addosso al sottufficiale per assicurarsi una vana fuga: Piermattei, sebbene ferito, ne arrestò due da solo mentre gli altri furono catturati entro la fine della giornata. Oppure l’occasione in cui fu organizzata la cattura degli organizzatori di una bisca clandestina di cotale protervia criminale da avere occupato per i loro loschi affari un appartamento proprio di fronte alla questura.

    Ne pestò tanti di piedi, il brigadiere Piermattei: piedi di disperati ma anche piedi di pezzi da novanta che cercarono di fargli la pelle con armi ben più subdole delle pistole: il pubblico discredito quando la strada dei trasferimenti d’ufficio rimase inevasa. Non vi furono scandali che lo riguardarono, però: la sua fama e la sua rettitudine lo precedevano, tanto che la cittadinanza ne era ammirata oltre che intimorita. Il Questore gli disse più volte: “Stia attento, brigadiere… la gente non è fatta tutta della stessa pasta”. Ma lui tirava dritto per la sua strada. Non lasciò mai da soli i suoi uomini, come quella volta che si offrì di sostituirne uno in un noioso piantonamento all’ospedale: il collega sostituito doveva assistere la moglie ormai prossima al parto. I suoi uomini erano tutto, per un brigadiere il cui grado rivestiva un’importanza oggi completamente scomparsa: li difendeva sempre a spada tratta qualsiasi cosa fosse successa, spesso assumendosi responsabilità non sue come quella volta che sostenne di avere ordinato lui a due dei suoi di allontanarsi da un determinato posto che dovevano vigilare, quando invece i due lo avevano fatto di loro iniziativa per ripararsi dal freddo pungente e da una nevicata polare. Però ai suoi uomini richiedeva tutto, anche l’anima quando era il caso di darla: e loro ben volentieri gliela offrivano senza obiettare nulla.

    Un Poliziotto come non ce ne sono più. Uno che sapeva distinguere il male anche quando esso si trovava all’interno del suo stesso Corpo. Diceva sempre ai suoi: “Nel bene o nel male venite sempre da me con la verità: poi qualcosa ci studiamo!” E quando tre banditi in divisa negarono anche l’evidenza dopo essere stati scoperti a rubare alcune bottiglie di “cordiale” dallo spaccio della questura, fu proprio lui a curare non solo le pratiche del loro arresto, ma anche quelle della loro destituzione.

    Succede però che un bel giorno un grosso filone di indagine riguardante una serie di furti conditi da un omicidio portò in prigione una banda di pericolosi tagliagole: uno di questi, condannato in Assise, fu udito lanciare esplicite minacce di morte all’indirizzo del brigadiere: “Quando esco, tu fai una brutta fine!”. Non c’era da scherzarci sopra: il personaggio aveva una cartellina informativa degna di un’enciclopedia ed era conosciuto nell’ambiente come uno che non dava mai fiato alla bocca per niente. La stampa, poi, era andata a nozze pompando il caso forse fuori misura. Il questore, che aveva a cuore la sorte di uno dei suoi più validi collaboratori, quando dopo alcuni anni il bandito fu scarcerato decise quindi di fare trasferire Piermattei a distanza di sicurezza: cosa meglio della sua città di origine, Ravenna? Città tranquilla, poco più che un paesotto. Lì Piermattei si sarebbe cimentato nella lotta ai ladri di verze in attesa che la situazione si fosse normalizzata.

    Quando si dice che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi…. Ravenna era anche la città in cui il bandito aveva quei pochi parenti ancora in vita. Vuoi per cambiare aria anche lui, vuoi perchè in qualche modo aveva saputo del trasferimento del brigadiere, entrambi si vennero a trovare di nuovo nello stesso contesto ambientale.

    E’ il 27 marzo 1948. Marsilio Piermattei esce di casa di buon’ora per recarsi al mercato a fare la spesa. E’ fuori servizio, ma da sempre ha l’abitudine di portare con sé il revolver d’ordinanza. Al mercato incrocia lo sguardo di uno conosciuto: probabilmente il sottufficiale tentò di mettere a fuoco la lente dei ricordi… Chi poteva essere quel ceffo che alla sua vista ha abbassato lo sguardo confondendosi con la folla? Mah… Invece quel ceffo lo aveva riconosciuto. Testimoni dei fatti dichiararono che, mentre lo seguiva a distanza, girò per le botteghe a domandare come un ossesso: “E’ quello, Piermattei?”. Dopo l’ennesima risposta affermativa, si decise di affrontarlo quasi sotto casa. E lo fece profferendogli la stessa domanda: “Sei tu, Piermattei?”. I testimoni descrissero una scena da far west, con il sottufficiale che, consapevole della sua vita in pericolo, mollò a terra gli incartamenti della spesa girandosi di scatto con il revolver in pugno [tuttavia su questo particolare vedi infra]. Ma il bandito fu decisamente più veloce e sparò per primo colpendo il militare che crollò al suolo non prima di avere esploso a sua volta un colpo. Ma i sensi lo mollarono quasi subito, consentendo al suo aguzzino di avvicinarsi e di sparargli l’ultimo colpo, quello di grazia, alla testa.

    Il bandito venne subito catturato [anche per questo particolare, vedasi infra]: fu trasportato in questura in stato di trance, quasi catatonico, mentre blaterava frasi senza senso circa la propria librazione da un incubo. Incubo che cominciò invece proprio in quel momento, con una sua condanna all’ergastolo.

    Oggi del brigadiere Marsilio Piermattei rimane un nome sulla lapide della questura di Padova, estremo omaggio a uno dei Poliziotti più valorosi che questo Ufficio ebbe l’onore di annoverare. Resta una foto su Cadutipolizia, quella nella sua scheda personale. Resta il nostro perenne ricordo verso un Poliziotto che a distanza di tanti anni ha riscosso l’ammirazione e il rispetto in chi ne ha ricostruito la storia.

    Per la Redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore

    Fonti consultate:

    – Il Gazzettino di Padova, edizioni marzo 1948 e successive;

    – Il Resto del Carlino, edizioni marzo 1948 e successive

    – La Stampa, edizioni marzo 1948 e successive



    ULTERIORI NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE



    Del brigadiere di Pubblica Sicurezza Marsilio Piermattei e della sua attività legata al partigianato troviamo una traccia importante anche in un opuscolo trovato casualmente in un mercatino di libri usati: in esso (Tribunale popolare di Ravenna – Sergio Morigi, condannato a morte – supplemento al settimanale “Democrazia” con prefazione di Leone Cilla) si ricostruiscono la storia personale e le vicende processuali di Sergio Morigi, attivo nella RSI con la “brigata nera Ravenna”. A pagina 9 citiamo testualmente:

    “Dopo avere consumato i predetti delitti nella nostra provincia, Morigi, nel novembre 1944 ripiegò al nord con la brigata nera lasciando dietro di sè l’esacrazione generale per le sue scelleratezze. Non sappiamo con precisione l’attività criminosa da egli svolta nell’Italia Settentrionale, ma in occasione di uno dei nostri viaggi nei luoghi in cui riparò e svolse la sua attività la Brigata Nera di Ravenna udimmo dai capi partigiani della zona il racconto di episodi e atrocità raccapriccianti che ebbero per protagonisti i fascisti della “Brigata Ravenna”. Ma la giustizia presto o tardi arriva per tutti e per Morigi giunse il 3 giugno u.s. [1945, n.d.a.] nella veste di agenti e partigiani di P.S. guidati da Piermattei i quali recatisi a Cereo di Verona appresero che il Morigi si era sposato e trasferito a Mantova. Infatti i famigliari della moglie dopo breve interrogatorio rivelarono l’abitazione del ricercato, sì che fu possibile sorprenderlo in casa nella tarda serata”.

    Il nome del sottufficiale compare fugacemente anche a pagina 29 ove viene citato come testimone processuale assieme al collega La Sala.

    Ancora, in Carnoli S. – Andreini E., Camicie nere di Ravenna e Romagna tra oblio e castigo, Ed. Artistampa, Modena, 2006:

    “In Questura aveva lavorato per anni un funzionario capace ed attivo, impegnato sul fronte della criminalità comune, fin dagli anni precedenti la guerra. Tra i colpi messi a segno, la cattura di un componente ravvenate della famosa banda veneta “Bedin”. Durante l’occupazione nazista detto funzionario era in contatto con i partigiani e più volte aveva rischiato di cadere in trappola.
    Con la liberazione di Ravenna, egli era stato incaricato della cattura dei brigatisti neri e delle relative istruttorie; tra i meriti, l’arresto di Sergio Morigi, nascosto nel mantovano.
    A giusto riconoscimento per la decennale attività, il Nostro era diventato Commissario Capo della Squadra Politica della Questura.
    Poi, quando si profilò lo scontro elettorale, il funzionario fu chiamato dai superiori e spedito nella tranquilla Chieti. Egli non dovette partire con grande entusiasmo, tant’è che lasciò la famiglia in città. A fine marzo un salto a casa. Ma una mano assassina l’attendeva in fondo a via Baccarini. Stiamo parlando di Marsilio Piermattei. Subito si pensò ad una vendetta fascista, ma poi si scoprì l’assassino, Eugenio Antonio Mazzotti, il rapinatore ravennate della “Banda Bedin”, attiva nel Veneto e in Romagna negli anni ’30 (in città si ricordava la rapina al tabaccaio Antonellini). Il Mazzotti era stato catturato dal Piermattei e condannato a 21 anni di carcere. Poi, a seguito del bombardamento del Carcere di Soranio, era evaso ed era tornato in famiglia (in via Cesarea) sotto falso nome. Da ultimo, dopo oltre 4 anni di tranquilla latitanza, passata, fra l’altro, a fare l’orologiaio, il Mazzotti cominciò ad agitarsi, roso dal sospetto che il Commissario si stesse interessanto di nuovo al suo caso. Di qui l’agguato di sabato 27 marzo 1948.
    I funerali del Piermattei furono grandiosi. In prima fila, la bandiera dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. La tragica fine del poliziotto-partigiani fu quasi profetica: dopo 20 giorni le forze moderate stravinsero le elezioni politiche e il movimento partigiano fu colpito da centinaia di arresti.”


    In questo caso la ricostruzione è fondamentalmente esatta, salvo che per la qualifica rivestita da Piermattei: non commissario, ma brigadiere.

    Sempre dallo stesso autore e dalla medesima opera, a pag. 318 troviamo:

    “Fu a capo [Lino Morigi, n.d.a.], come confermato da Sergio Morigi e da lui ammesso, di sette o otto squadristi che una sera del luglio 1944 piombarono a casa di certo Finotelli, residente in via San Gaetanino, alla ricerca dell’agente di P.S. Piermattei Marsilio, sospettato di collusione con i partigiani. C’era anche un certo Buzzi, ufficiale della Brigata Nera (meglio dire “un comandante”). Furono sparate raffiche di mitra, inutilmente. Come è noto, a Ravenna il Piermattei diventerà uno dei funzionari di Polizia incaricato della ricerca, della cattura e degli interrogatori dei fascisti di Salò. Fu ucciso nella primavera del 1948 in fondo a via Baccarini”.

    Nella citata opera il nome di Marsilio Piermattei compare ancora sebbene citato con varie qualifiche e sempre impegnato nel delicato compito di acquisire informazioni volte alla cattura di soggetti appartenenti al passato regime e colpiti da ordine di cattura.

    RICOSTRUZIONE DEI FATTI



    Proponiamo il racconto di quegli avvenimenti così come narrato dalla signora Celestina Piermattei. La narrazione passa in prima persona per rendere il racconto maggiormente aderente alla testimonianza fornita.

    MIO PADRE

    Ricordo bene la sua figura imponente, quando me l’ammazzarono avevo 15 anni e come unica femmina tra altri due maschi ero un po’ la “cocca” di papà. Era un omone alto e ben piantato, ricordo i suoi abbracci e la sua tenerezza quando rientrava a casa, le giornate trascorse assieme le rare volte in cui era libero dal servizio. Era di origini umbre e aveva la Polizia nel sangue: in casa però non portava mai il lavoro, né rendeva partecipe la mamma delle sue vicissitudini, un po’ per proteggerla, ma soprattutto per l’estrema discrezione che lo caratterizzava. Ricordo con molta nostalgia la nostra permanenza nella città di Padova dove mio padre era stato destinato: occupavamo un appartamento in via San Massimo, a due passi dall’ospedale. Mio padre faceva parte della squadra investigativa, lavorava sempre in borghese e non aveva mai un orario preciso in cui rientrava. Aveva costituito una squadretta composta da suoi colleghi fidatissimi con la quale dava filo da torcere alla malavita: ricordo gli agenti Rocchi e Negesti con i quali (e assieme ad altri) distrusse la famigerata banda Bedin. Aveva uno spirito di sacrificio innato, soprattutto quando doveva raggiungerci magari perché era stato trasferito da una città all’altra: fu proprio a causa della banda Bedin che venne trasferito a Chieti (e non a Ravenna, come scrissero i giornali). A Ravenna ci finimmo noi, in una sorta di esilio come toccò a Dante. Teneva duro, mio padre, e ogni occasione era buona per raggiungerci. Fu così anche in quella tragica Pasqua del 1948. Al di fuori della tenerezza familiare, papà era un uomo tutto d’un pezzo che non scendeva a compromessi con niente e nessuno: quando arrivò l’Otto settembre, egli preferì aderire alle formazioni partigiane piuttosto che giurare fedeltà al Duce, tanto da ricevere in cambio una condanna a morte emessa da un tribunale speciale di Trieste. Condanna fortunatamente mai eseguita.

    LA SUA MORTE

    Ne sono state scritte, di inesattezze! A partire proprio dalla sua sede di servizio che – ripeto – era Chieti e non Ravenna, anche se in questa città si era fatto conoscere dal commissario Sgro che lo aveva spesso interpellato soprattutto per la cattura dei latitanti. Lui ci aveva raggiunto a Ravenna il giorno prima, il venerdì santo 26 marzo 1948. Era in licenza, anzi, disse a mia madre una frase che oggi mi suona come una profezia. Le disse che si era preso qualche giorno in più perché – disse – “temo di essere entrato in qualcosa più grande di me”. Era spaventato? Non lo so, né seppi mai a cosa si riferì con quella frase. Il giorno dopo, alle 9:30 era già morto….

    Quel giorno lo ricordo bene. Era il sabato santo, 27 marzo 1948. Papà si offrì di uscire a fare la spesa, in casa era rimasto molto poco. Il nostro appartamento distava poche centinaia di metri dal luogo in cui fu ucciso, via Baccarini. Egli aveva raggiunto una statua posta su una colonna: lì dietro c’era il negozio di alimentari di un suo amico. Stava per entrarvi quando fu colpito alle spalle da due colpi di pistola. Mio padre non aveva con sé la rivoltella (questa fu un’altra inesattezza riportata dai giornali) e quei colpi non furono mortali: sebbene ferito, si scagliò contro il suo assassino ingaggiando una violenta colluttazione a terra. Fu però sopraffatto dall’uomo, Eugenio Mazzotti, che riuscì a salirgli sopra e a scaricargli un secondo revolver in faccia urlandogli: “E’ stato condannato a morte!”. Nessuno fece niente, tanto che Mazzotti si allontanò con tutta calma in bicicletta. Poco distante c’era la caserma della Finanza: la gente vide tre finanzieri sulla balaustra della scalinata e gridò loro di fermare l’uomo in bici. I finanzieri non mossero un dito, dissero: “Tanto, stanno scherzando!”…. So che quei finanzieri furono poi trasferiti. L’assassino non fu quindi catturato subito, come fu scritto da alcuni, ma solo tre giorni dopo grazie alla tenacia dei colleghi di papà che setacciarono Ravenna giorno e notte senza un attimo di sosta.

    LE PREMESSE DELL’ASSASSINIO

    Papà era stato trasferito da Padova a Chieti dopo la brillante operazione che portò a sgominare la feroce banda Bedin. Nell’occorso papà era stato minacciato da più parti, tanto che il suo trasferimento si rese necessario per paura di ritorsioni. Mazzotti faceva parte della banda Bedin, e proprio per quel suo sodalizio il 25 aprile del 1940 era stato condannato a 15 anni e 6 mesi dalla Corte di Assise di Rovigo, pena che stava scontando nella Casa penale per minorati psichici di Soriano del Cimino. Approfittando dei bombardamenti alleati che avevano semidistrutto quel carcere, nel giugno 1944 Mazzotti evase raggiungendo Ravenna ove si nascose grazie anche alla confusione che regnava in quei mesi. Mazzotti era ossessionato dalla figura di mio padre, non gli perdonava di averlo rovinato personalmente e familiarmente. Anni dopo l’assassinio di papà, la mia famiglia ricevette una raccomandata con la quale il legale di Mazzotti ci chiedeva il risarcimento danni perché, a causa delle vicende giudiziarie che lo riguardarono, non potè sposarsi né farsi una famiglia oltre ad avere perso il lavoro… Al danno la beffa! Ma a tanti anni di distanza io sono ancora convinta che mio padre sia stato ammazzato per altri motivi rimasti ignoti… Insomma, non credo alla vendetta di uno squilibrato. Penso piuttosto a chi lo possa avere usato, manovrato, gestito per altri scopi. Qualche tempo prima della morte di papà, a Ravenna fu ammazzato un magistrato che abitava a poca distanza da casa nostra: un uomo e una donna lo aspettarono sotto casa e lo uccisero a revolverate; quei due furono “misteriosamente” fatti espatriare in Argentina in pochissimo tempo, cosa molto difficile da farsi in quel tempo; la donna, però, era poi rientrata in Italia credendosi al sicuro. Invece mio padre aveva contribuito a collegarla a quella “donna in pelliccia” che fu vista sparare al giudice. C’entrava qualcosa quel fatto con la sua frase “sono entrato in qualcosa più grande di me” pronunciata dal babbo alla vigilia della sua morte? Io credo di sì….

    IL “DOPO”

    Fu il periodo più lungo e più duro da affrontare, non solo perché la mamma dovette fare i salti mortali per garantirci un’esistenza dignitosa, ma soprattutto perché nessuna Istituzione ci ha mai dato una mano. Il ministero volle dimenticarci, non una visita, non una rappresentanza ai funerali, non un aiuto…: mi ricordo che un giorno mia madre, spinta dalle insistenze di un parente, chiese un colloquio con il Prefetto di Ravenna che la ricevette per puro dovere. Alla richiesta di un’indicazione su cosa una povera madre dovesse fare con tre figli da mantenere, il Prefetto la raggelò dicendole: “Vada, vada! Questo non è mica un ufficio di collocamento!”. Mia madre pianse tanto e da quel giorno decise di non chiedere più aiuto a nessuno.

    La nostra stessa permanenza a Ravenna non fu facile. Un giorno la mamma chiese un po’ di latte alla vicina di casa, per noi ragazzi: io avevo un brutto ascesso a un dente, mio fratello soffriva di asma. Non solo non ricevette il latte, ma in compenso si sentì dire: “Tornatevene da dove siete venuti!”. In 65 anni insomma, nessuno ha voluto ricordare mio padre; alcuni anni fa avanzammo la proposta di mettere una lapide sul luogo in cui fu ucciso. Per tutta risposta il sindaco ci disse che con tutti i morti che ha avuto Ravenna non sarebbero bastati i muri….

    GALLERIA FOTOGRAFICA

    Il materiale fotografico successivamente inserito è stato gentilmente concesso dalla signora Celestina Piermattei a uso esclusivo di questo articolo. Ogni diritto è riservato e tale materiale è da considerarsi di esclusiva proprietà della signora Piermattei.


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    Una rara immagine della squadra di Polizia Giudiziaria quasi al completo durante un momento di convivialità: ci troviamo a Villa di Teolo (PD) a metà degli anni Trenta: il brigadiere Piermattei è il primo a destra. Al centro, il funzionario dirigente.


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    Ancora un momento di convivialità: la squadra stavolta è al completo!

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    Si rientra a Padova!


    GLI ATTI PROCESSUALI



    Grazie alla signora Celestina Piermattei siamo in grado di proporre il testo integrale della sentenza di condanna emessa a carico del Mazzotti. Il materiale originale è costituito da fogli redatti a macchina su carta velina e pertanto in alcuni punti resi illeggibili a causa della vetustà. La sua lettura richiede tempo e pazienza.

    REPUBBLICA ITALIANA

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    La Corte di Assise di Ravenna composta dai signori:

    MARIANI dott. Luigi – Presidente

    BUDASSI dott. Franco – Giudice Popolare

    MINOTTI Antonio – Giudice Popolare

    MURATORI Mario – Giudice Popolare

    MAGLITTA Virgilio – Giudice Popolare

    BORGHI Mederico – Giudice Popolare

    ORSELLI Maria – Giudice Popolare

    ha pronunciato la seguente sentenza nella causa a procedimento formale contro MAZZOTTI Eugenio fu Ambrogio e fu Bassi Maria nato il 4/1/1892 a Lugo, residente a Ravenna, detenuto dal 31/3/1948, imputato:

    a) del delitto di omicidio premeditato di cui agli artt. 575-576 n. 3 577 n. 3 61 n. 10 C.P. perché essendo evaso e colpito da ordine di cattura il 27/3/1948 in Ravenna cagionava la morte del Brigadiere di P.S. Piermattei Marsilio esplodendogli contro vari colpi di arma da fuoco e commettendo il fatto con premeditazione;

    b) del delitto di cui all’art. 385 1° comma C.P. per essere evaso il 5/6/1944 dalle carceri giudiziarie di Soriano del Cimino (VT) dove trovavasi detenuto legittimamente;

    c) del reato di cui agli artt. 697 61 C.P. per avere in Ravenna precedentemente e sino al 27 marzo 1948 e cioè durante il tempo in cui si sottrasse volontariamente all’esecuzione dell’ordine di cattura, abusivamente detenuto due rivoltelle;

    d) del reato di cui agli artt. 699 61 n. 6 C.P. per avere nelle stesse circostanze di tempo e di luogo al capo precedente, abusivamente portato fuori della propria abitazione due rivoltelle. Coll’aggravante della recidiva ai sensi dell’art. 99 ultimo capoverso 28 ipotesi C.P.

    In esito all’orale pubblico dibattimento sentito il P.M. nella sua orale requisitoria i patroni delle parti civili i difensori e l’imputato, ritenuto in fatto e in diritto: la mattina del 27 marzo 1948, Sabato Santo, circa alle ore 9:30 la quiete della via Baccarini di Ravenna fu turbata da due colpi di arma da fuoco che echeggiarono a breve intervallo l’una dall’altra. I rari passanti, il gestore e un cliente del negozio di generi alimentari di De Maria Luigi al numero 37/A, richiamati all’esterno furono testimoni di un’agghiacciante scena; due uomini di età matura ma aitanti nel corpo lottavano avvinghiati con estremo vigore, l’uno visibilmente minorato da ferite nella schiena tentando di disarmare l’altro; l’aggressore che impugna una pistola automatica calibro 7,65. La lotta impari ebbe un tragico epilogo; il ferito si abbattè al suolo le spalle contro il selciato, l’avversario immobilizzò ponendogli un ginocchio contro l’addome, quindi a bruciapelo gli scaricò contro il viso tutti i colpi del caricatore, dandosi successivamente alla fuga su una bicicletta.

    L’uomo ucciso con selvaggio furore risultò rispondere al nome di Piermattei Marsilio di 44 anni, padre di tre figli, vice brigadiere del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza in servizio per molti anni alla questura di Padova e da pochi mesi trasferito a quella di Chieti. In licenza di convalescenza in questa città, dove aveva mantenuto la residenza della famiglia, il Piermattei da buon conoscitore degli ambienti della malavita ravennate si era messo a disposizione del vice Commissario della Polizia Civile Dr. Parisi Riccardo della locale Squadra Mobile, per la ricerca e la cattura di alcuni latitanti tra i quali il pregiudicato Mazzotti Eugenio, evaso nel giugno 1944 dalla Casa Penale per minorati psichici di Soriano del Cimino dove scontava la pena di anni 15 e mesi 6 di reclusione erogatagli con sentenza 25 aprile 1940 dalla Corte di Assise di Rovigo confermata dalla Suprema Corte di Cassazione il 26 maggio 1941 siccome riconosciuto reo di concorso in una delle imprese delittuose della famigerata banda Bedin, la rapina [incomprensibile] Cavanella Po ai danni di alcuni impiegati della società Eridania del Polesine che si erano recati a prelevare i fondi in una banca di Adria per il pagamento delle mercedi al personale dipendente. Alle investigazioni riguardanti tale impresa criminosa aveva preso parte attiva il Piermattei a quel tempo semplice agente di P.S.. L’assassino poteva dunque [avere] ucciso per vendetta o per sottrarsi alla minacciata cattura; onde i sospetti della Polizia si orientarono verso il Mazzotti Eugenio, che dal tempo della sua evasione si era mantenuto inosservato nei quartieri periferici della città senza una dimora fissa, curando attentamente di non lasciare tracce di sé negli uffici anagrafici e annonari e svolgendo la consueta attività di meccanico orologista in ambienti ove era conosciuto.

    Nel pomeriggio del 31 marzo un contingente di Agenti di P.S. al comando del Commissario Aggiunto Carmine Sgro dopo cauto appostamento procedeva all’arresto del Mazzotti nella abitazione della di lui moglie Raffaelli Elsa; prima ancora di essere sottoposto a ricognizione di persona da parte dei testimoni, l’arrestato si confessava autore dell’omicidio di Piermattei. Dichiarava che la notizia appresa due giorni prima del fatto da persona amica, che il sottufficiale di P.S. aveva domandato di lui nel vicinato lo aveva sconvolto, i rancori mai del tutto sopiti contro i responsabili diretti o indiretti della condanna di Rovigo, costantemente considerata ingiusta erano riaffiorati con particolare intensità nei riguardi del Piermattei, che durante la sua detenzione preventiva lo aveva fatto oggetto delle più efferate sevizie ed il profilato pericolo della nuova cattura, quando riteneva dopo tre anni e mezzo di indisturbata libertà di avere sufficientemente espiato colpe non commesse aveva determinato nella sua mente dopo lungo travaglio il proposito di sopprimere il responsabile della sua rovina morale e materiale. Il giovedì 25 marzo, due giorni prima del delitto, aveva dissotterrato presso l’argine del Ponte Nuovo due pistole automatiche cal. 7.65 ivi celate da tempo entro una custodia di latta. L’indomani 26 marzo si era recato a Cesena e da un armaiolo aveva acquistato una scatola di pallottole dello stesso calibro. La mattina del 27 marzo era uscito di casa verso le 7:30 in bicicletta portando entrambe le pistole cariche e si era messo alla ricerca [incomprensibile]. Verso le 9 lo aveva scorto non lontano nella via Baccarini; con un pretesto aveva chiesto al calzolaio Angelo Ragazzini se l’individuo da lui poco prima salutato fosse realmente l’uomo cercato; avutane conferma aveva seguito a breve distanza e inosservato stando sempre in bicicletta la vittima designata e nel momento in cui questa recando in mano una sporta da spesa si accingeva a entrare nel negozio del De Maria, aveva esploso al suo indirizzo un colpo da tergo gettando quindi a terra quella pistola che gli era sembrata insufficiente nel meccanismo di ripetizione. Estratto di tasca il secondo revolver aveva esploso un altro colpo contro il Piermattei che frattanto giratosi gli si era gettato addosso per disarmarlo.

    I particolari confessati circa il feroce epilogo dell’aggressione risultarono conformi a quanto sopra narrato. Sulla scorta degli accertamenti di Polizia, riassunti dalla Questura di Ravenna con rapporto 6 aprile 1948, venne promossa azione penale col rito formale ed al Mazzotti Eugenio con mandato di cattura emesso il 24 aprile 1948 venne contestato il delitto di omicidio volontario premeditato e aggravato per la qualità di pubblico ufficiale della vittima e per il fine di sottrarsi alla cattura, il delitto di evasione, nonché i reati contravvenzionali di detenzione e porto abusivo di armi, entrambi aggravati perché commessi durante il tempo in cui l’agente si era sottratto volontariamente alla cattura per un precedente reato. Dall’esame medico legale del corpo della vittima risultò che la stessa era stata raggiunta da ben otto colpi di arma da fuoco. Due colpi che attinsero alla regione dorsale con effetti non mortali risultarono esplosi alla distanza di uno o due metri con tragitto posteriore-anteriore. Altri quattro esplosi a distanza di 20/30 centimetri colpirono il mascellare inferiore che ne fu frantumato e deformato, dopo avere lacerato alcuni rami terminali della arteria carotide interna sinistra questi proiettili andarono ad arrestarsi contro la massa compatta della base cranica meno uno che uscì dalla nuca presso l’ipofisi mastoidea. Un ultimo proiettile penetrò all’altezza dell’articolazione sterno clavicolare sinistra passata al di sopra dell’articolazione e andò a conficcarsi nella scatola vertebrale. Un ottavo e ultimo proiettile strisciò sulla regione superiore della spalla destra. Gli ultimi sei colpi furono rivolti dall’avanti all’indietro. La morte istantanea fu causata dall’imponente emorragia interna ed esterna seguita specialmente dalle 4 ferite al mascellare inferiore. Il perito espresse opinione peraltro smentita dalle univoche risultanze della prova specifica che due colpi al dorso fossero stati sparati per ultimi.

    Le testimonianze raccolte accertarono che il Piemattei aveva un appuntamento proprio la mattina del 27 marzo con il Vice Commissario dr. Parisi con il quale avrebbe concentrato un accurato piano di azione per l’arresto del pericoloso pregiudicato colpito anche da ordine di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Ravenna che il Mazzotti, avuto sentore delle ricerche in atto, si era rivolto due giorni prima del fatto al meccanico Bassi Giuseppe chiedendogli con innocente pretesto le generalità complete e le caratteristiche fisionomiche del Piermattei, da quegli ben conosciuti, che il venerdì 26 marzo lo stesso imputato si era fatto indicare dalla conoscente Nasturci Dircea l’abitazione della famiglia Piermattei; che durante la esecuzione del delitto e subito dopo il Mazzotti aveva gridato come un esaltato alludendo all’ucciso: “E’ stato condannato a morte!”; che infine rialzatosi con la pistola in pugno aveva esploso a bruciapelo altri due colpi di grazia, prima di fuggire in bicicletta.

    Circa le pretese persecuzioni che ai tempi delle indagini sulla rapina di Cavanella Po il Piermattei avrebbe posto in essere ai danni del Mazzotti, pur sapendolo innocente oltre gli interminabili memoriali scritti in serie dal prevenuto del carcere riferì all’istruttore la di lui m oglie Raffaelli Elsa, dichiarando di avere subìto anche durante i diciassette giorni di fermo per accertamenti di polizia pure percosse dallo stesso bravo persecutore, che si accaniva nel riferire al suomperseguitato la compartecipazione al crimine compiuto dagli associati alla banda Bedin, compiacendosi poi manifestatamente dopo la di lui ingiusta condanna per la insalubrità e la durezza del regime carcerario dello stabilimento di pena di Parma, ove il condannato era nei primi tempi di espiazione ristretto.

    Esaurita la formale istruzione, con sentenza del 19 novembre 1949 la Sezione Istruttoria presso la Corte di Appello di Bologna sulla conforme requisitoria del Procuratore Generale ordinò il rinvio del Mazzotti fermo il suo stato di detenzione davanti a questa Corte di Assise per rispondere di tutti i reati ascrittigli come in rubrica. Frattanto il 6 giugno 1959 la Raffaelli moglie dell’imputato aveva inoltrato alla Corte di Appello di Venezia una istanza diretta a ottenere gli accertamenti preliminari alla revisione della sentenza 23 aprile 1940 della Corte di Assise di Rovigo ai sensi dell’art. 557 4° comma C.P.P. al dichiarato scopo che venisse posta nella vera luce la causa dell’uccisione del Piermattei.

    La corte di Appello di Venezia esaminati i documenti giustificativi ed i nuovi elementi di prova allegati con ordinanza 14 luglio 1949 sulle conformi conclusioni del P.M. ritrattava [rectius, rigettava] l’istanza per manifesta infondatezza.

    Non si [incomprensibile] il Mazzotti ed egli personalmente in data 15 febbraio 1950 propose alla Superiore Corte istanza di revisione corredata da nuove dichiarazioni e attestati. Dopo avere disposto il compimento di taluni atti istruttori la Corte di Cassazione con sentenza 2 maggio 1955 disattese anche questa istanza.

    Una seconda ed analoga domanda dello stesso imputato venne pure rigettata dalla Corte di Cassazione con sentenza 19 gennaio 1954. Ma una terza istanza di revisione sottoposta dal Nazzotti al Supremo Collegio venne da questo accolta con pronuncia 17 giugno 1955 che, annullata la sentenza della Corte di Assise di Rovigo, ordinava il rinvio del condannato a nuovo giudizio innanzi alla Corte di Assise di Appello di Venezia.

    Il giudizio di revisione si esauriva con pronuncia del 2 marzo 1956 mediante la quale la Corte veneziana confermava la sentenza impugnata. Le reiterate proposizioni del mezzo di impugnazione straordinario e le inerenti more processuali determinarono ben otto successivi rinvii dal 12 novembre 1951 al maggio 1955 del dibattimento davanti a questa Corte di Assise avendo costantemente le parti private, il P.M. ed i giudici ritenuto che il riesame della condanna di Rovigo dall’imputato sempre protestata come ingiusta e propiziata dai soli artifici del Piermattei, avesse diretto rilievo al fine di una eventuale diminuzione della responsabilità dell’omicida.

    All’udienza del 14 maggio 1954 nel rinviare per la quarta volta il dibattimento a nuovo ruolo questa Corte disponeva una indagine sullo stato di mente dell’imputato rimettendo a tal uopo gli atti al Giudice Istruttore.

    La perizia psichiatrica fu espletatta dal dr. Giuseppe Manto medico alienista presso il manicomio giudiziario di Reggio Emilia dove il Mazzotti venne temporaneamente trasferito in osservazione. Le conclusioni del perito furono per il riconoscimento della semi infermità mentale essendo risultato il paziente afflitto da sindrome paranoide.

    Il 23 novembre 1958 il Supremo Collegio rigettando il ricorso proposto dal Mazzotti contro la sentenza emessa dalla Corte di Assise d’Appello di Venezia nel giudizio di rinvio pose finalmente la parola conclusiva alla lunga vicenda giudiziaria riguardante la rapina di Cavanella Po. Il giudizio per l’omicidio del Piermattei fu così nuovamente fissato e celebrato occupando quattro successive udienze dal 28 gennaio all’11 febbraio 1960.

    La vedova e i tre figli del Piermattei si erano costituiti P.C. fin dal periodo istruttorio. L’imputato allegando temporanea indisposizione rifiutò di assistere alla discussione finale.

    Nella sua requisitoria il P.M. chiese l’affermazione della responsabilità del prevenuto in ordine al delitto di omicidio volontario aggravato con esclusione della premeditazione e la di lui condanna alla pena della reclusione per anni ventisette e mesi sei, nonchè declaratoria di estinzione degli altri reati contestati per intervenuta prescrizione. I patroni di parte civile spiegarono le conclusioni riportate a verbale. I difensori dell’imputato conclusero in linea principale perchè venisse riconosciuto il vizio totale di mente in subordine perchè venissero escluse tutte le aggravanti relative all’omicidio commesso e riconosciute le diminuenti della provocazione generiche e della seminfermità mentale.

    Vagliate con estremo rigore le risultanze processuali, la Corte Giudicante ritiene che l’azione posta in essere dal Mazzotti Eugenio ai danni del Piermattei Marsilio esaurisca con tutta evidenza gli estremi costitutivi dell’omicidio volontario.

    I già prescritti particolari della feroce aggressione molti dei quali attinti dalla stessa confessione dell’imputato e che i testimoni oculari hanno confermato in toto al dibattimento, nonchè i riassunti del perito settore circa i mezzi che determinarono l’evento mortale non consentono dubbio veruno sulla materialità del delitto e sul nesso causale. A dimostrare la volontà omicida soccorrono pienamente elementi di fatto: la micidialità delle armi adoperate (due pistole a ripetizione automatica cal. 7.65), la regione vitale presa di mira (prima il dorso, poi il viso), la esasperata reiterazione dei colpi, la brevissima distanza dalla quale furono esplosi, infine il colpo di grazia inferto quando la vittima agonizzante mostrava ancora segni di vita.

    Nel suo interrogatorio dibattimentale l’imputato ha per sua prima volta asserito che mentre pedinava il Piermattei questi si voltò e vedendolo alzò il soprabito (il !gabardine” è testualmente trascritto nel verbale di udienza del 28 gennaio 1960) per estrarre la pistola dalla tasca; a tale gesto prevenuto sparò senza porre indugio ed un secondo colpo subito dopo esplose all’indirizzo dell’avversario che venendogli incontro continuava a frugarsi in tasca. Il pallido ed estremo tentativo di adombrare la esimente della legittima difesa non ha avuto dai banchi della difesa neppure l’onore di una fugace menzione.

    Ed è vero il particolare mai prima nel dibattimento rilevato e [incomprensibile] dalla prima confessione dell’imputato e dalle risultanze obbiettive le quali provano che il Piermattei neppure aveva il soprabito (vedi referti fotografici agli atti) ed era disarmato; la pistola rinvenuta accanto al suo cadavere era quella inceppatasi di cui si disfece dopo avere esploso il primo o i primi colpi che raggiunsero la vittima al dorso.

    Il delitto secondo la contestazione è aggravato perchè commesso dal latitante con premeditazione e ai danni di un pubblico ufficiale a causa dell’adempimento delle sue funzioni (art. 576, 577 e 61 n. 10 C.P.). Sussistono a parere di questa Corte tutte e tre le aggravanti. Quanto allo stato giuridico di latitante cui per ogni effetto l’art. 268 u.p. C.P. equipara l’evaso si era già rilevato che l’imputato trovandosi legalmente detenuto nella casa penale per minorati psichici di Soriano del Cimino, ne evase il 5 giugno 1944 quando gli restavano ancora da espiare oltre i 2/3 della pena inflittagli dalla Corte di Assise di Rovigo nell’aprile 1940.

    L’evasione, giova riconoscerlo, fu enormemente facilitata oltrechè occasionale dalle contingenze della guerra che in quel momento milizie straniere combattevano aspramente in territorio nazionale, lo stabilimento carcerario fu colpito da bombardamento aereo secondo il rapporto dell’epoca inoltrato dal capoguardia al direttore (foglio 124 vol. atti generici) ed i robusti cancelli semidivelti offrirono scarsa resistenza alla massa di detenuti in rivolta. L’ex direttore sig. Liccioni Rodolfo oggi ispettore alienalista alle dipendenze del Ministro di Grazia e Giustizia ha confermato al dibattimento che lo scarso personale di custodia non oppose restistenza all’evasione collettiva e che per conseguente organizzazione della casa di pena i dieci o quindici detenuti volontariamente rimasti si autogovernarono approvvigionandosi con sistemi di fortuna. La difesa sostiene che lo spirito di conservazione necessitò i reclusi a riguadagnare la libertà per sottrarsi alla minaccia delle continue incursioni aeree che gli stessi agenti di custodia ed i loro capi agevolarono l’esodo collettivo; onde di evasione non potrebbe parlarsi quantomeno sotto il profilo ideologico. L’argomentazione fondata su una insensata interpretazione dei fatti accertati avrebbe utile rilievo in sede di indagine sulla sussistenza del reato di evasione contestato al Mazzotti sotto iul capo secondo della rubrica. Ma ai fini della speciale aggravante soggettiva basta rilevare che il prevenuto volontariamente si sottrasse alla espiazione della pena residua interrompendo l’esecuzione già iniziata dall’ordine di scarceramento e per oltre [incomprensibile].

    Si aggiunga che secondo le informazioni della Polizia (rapporto questura Ravenna 6 aprile 1948) il Mazzotti Eugenio era colpito anche dall’ordine di cattura n. [incomprensibile] emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna in data 10 ottobre 1945 per reati contro il patrimonio.

    Le condizioni personali del giudicabile erano dunque quelle del latitante e dell’evaso e poichè per sua stessa confessione egli decise di sottrarsi alla cattura cui la vittima si accingeva di concerto con le autorità locali di Polizia, l’aggravante di cui al n. 8 dell’art. 576 C.P. sussiste con evidenza solare.

    Per accertare se ricorra nella speciale circostanza aggravante della premeditazione la Corte reputa necessario ricostruire precipuamente sulla scorta della stessa confessione dell’imputato l’attività psichica complessa per la quale il medesimo pervenne alla esecuzione del delitto. E’ risultato infatti che il giovedì 25 marzo 1948, due giorni prima dell’omicidio, il Mazzotti scosso dalle notizie che il sottufficiale di P.S. lo ricercava per catturarlo, si recò dall’ignaro Bezzi Giuseppe, un meccanico ciclista, chiedendo informazioni anagrafiche e fisionomiche sul conto del Piermattei e che l’indomani venerdì 26 marzo lo stesso affermò di avere attinto altrove le richieste notizie mostrando un biglietto ove era annotato il nome della vittima. Lo stesso giovedì 25 lo stesso dissotterava le due pistole nascoste sull’argine del Ponte Nuovo. Il venerdì 26 egli si recava da un armaiolo a Cesena ed acquistava le munizioni usate.

    La mattina del sabato santo, sabato di sangue e di lutto per la famiglia del Piermattei, il Mazzotti esce di casa verso le 7.30 in bicicletta portando indosso le due pistole. “Non [incomprensibile] che uscendo di casa armato – egli confessò al commissario dr. Curti – concepii l’idea di sopprimere il Piermattei qualora mi fosse occorso di incontrarlo; anzi, vagai per le strade della città nel tentativo di rintracciarlo sempre colto dal vivo rancore contro di lui e dal desiderio di vendicarmi”. Verso le 9 scorse il Piermattei nella via Baccarini ma non è sicuro di averlo riconosciuto. Con un pretesto chiede ed ottiene conferma della di lui entità al calzolaio Ragazzini. Segue cautamente stando sempre in bicicletta la sua vittima ed infine colpisce alle spalle a breve distanza con i primi due colpi. Compiuto il misfatto con le agghiaccianti e già note modalità egli raccatta da terra il berretto e risale sulla bicicletta e si dà alla fuga. Emerge soprattutyto dalle ricordate circostanze la paziente attività dell’imputato al fine di identificare la vittima predestinata, di conoscere le abitudini e di stabilire il tempo e il luogo più adatto alla consumazione del delitto. Questa accurata ricerca della occasione per attuare la risoluzione criminosa maturata almeno due giorni innanzi unita dalla meticolosa predisposizione ed alle armi è, a parere della Corte, indice univoco rivelatore di un dolo particolarmente intenso e superiore sul metodo ideologico al normale dolo di riflessione.

    La tenace continuazione della decisione omicida è manifestata nel giudicabile senza apprezzabile soluzione della continuità dal tempo della ideazione e risoluzione crimnosa a quello della preordinazione macchinosa dei mezzi di difesa a quella infine della feroce e fredda esecuzione. L’imputato, pensato e attuato il disegno di uccidervi, ha perseverato con fredda e irretrattabile determinazione senza che il suo processo intellettuale di riflessione abbia mai denunciato oscillazioni e turbamenti per ipotesi da una progressiva autosuggestione e da agitazione psichica ossessiva e da cariche emotive e passionali.

    L’opinione conclusiva di questa Corte è che il delitto fu premeditato. Sulla circostanza aggravante comune di cui al n. 10 dell’art. 61 C.P. si osserva non potersi revocare in dubbio che il Mazzotti uccise il sottufficiale di P.S. Piermattei a causa dell’adempimento delle sue funzioni di Polizia e conoscendo nella sua vittima la menzionata qualità. Sul tema della esclusione e della motivazione delle imputabilità per infermità totale o parziale di mente i difensori delle parti private ed il P.M. hanno vivacemente disputato. Si è già accennato in parte narrativa come dalla perizia psichiatrica espletata emerga una diagnosi di frenastenia con andamento paranoide da cui consegue un giudizio esclusivo di seminfermità mentale. Parte civile e P.M. hanno accettato questa conclusione. La difesa dell’imputato ha sostenuto invece la non imputabilità del suo patrocinio per totale vizio di mente, ingegnandosi nel corso dell’istruttoria di dibattimento di introdurre nel processo un supplemento di indagine specialistica (peraltro inibito dalle disposizioni del codice di rito) volta in particolare ad accertare gli effetti di perturbazione della diagnostica psicopatica sulla sfera volitiva del soggetto.

    [omissis]

    ^^^^^^

    Le motivazioni della sentenza proseguono ancora per alcune pagine le quali contengono dettagli tecnico-giuridici che non riportiamo in quanto ininfluenti e anche per la scarsa leggibilità di molte parole ormai pressochè cancellate. Il dispositivo della sentenza divenne immediatamente esecutivo: giova far notare l’accanimento con cui il Mazzotti cercò di sottrarsi all’imminente condanna mediante la continua opposizione di ricorsi che rimandarono pericolosamente i termini di giudizio.

    L’articolo si chiude qui. Non ho parole bastevoli in grado di descrivere quanto l’incontro con la signora Celestina Piermattei abbia significato per me, ma soprattutto per l’esatta ricostruzione della vita professionale e umana di un grande Poliziotto del nostro passato.

    Ritengo che un simile incontro sia la riprova dell’importanza che la nostra Storia sia un elemento inscindibile e indispensabile per capire esattamente cosa si intenda con la parola “sacrificio”. E’ stata una bella emozione…. Grazie, signora Celestina!
     
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