La guardia Antonio Sarappa

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    IL GIORNO PIU’ LUNGO

    Roma: gli scontri di Porta San Paolo e la guardia Antonio Sarappa





    Non c’è mai un buon motivo per morire, nemmeno in Polizia.

    Questo l’ho imparato nel corso delle centinaia di ricerche su altrettanti nostri Caduti. Tantissimi ragazzi (e in epoca più recente anche alcune ragazze) hanno immolato la propria vita sull’altare del Dovere, molto spesso diventando nostri eroi, in taluni casi ricordati anche a decine di anni dalla loro morte.

    A me personalmente gli eroi non piacciono, soprattutto se tale epiteto è un epiteto POSTUMO. Un eroe morto non serve a nessuno: non serve ai familiari, che perdono un loro caro in cambio di una medaglietta malamente appuntata sul bavero della giacca da un fintamente commosso rappresentante delle Autorità e – nella migliore delle ipotesi – di un lavoro garantito loro come magro risarcimento a un danno di per sé incommensurabile; non serve allo Stato, per il quale un Poliziotto ucciso è solo un costo che incide sul bilancio con pensioni di reversibilità, funerali solenni, commemorazioni; non serve alla Polizia, che perde un collaboratore il quale – specie di questi tempi – non troverà giustizia nemmeno in un’aula di tribunale. Sia ben chiaro: non è un’invettiva contro chi è morto per il Dovere, bensì contro l’intero sistema che si muove alle sue spalle. Insomma, oggi essere eroi non conviene più.

    Ma come non mi piacciono gli eroi, così detesto il facile oblio con cui ci si trova a seppellire il ricordo di chi comunque suo malgrado ha dato la vita per un lavoro il quale, piaccia o no, con la morte convive ogni giorno.

    Il 1960 fu definito da molti storici un anno “al calor bianco” sotto l’aspetto delle tensioni sociali che stavano dilaniando il Paese. Rancori mai sopiti dopo un recente conflitto mondiale e riaccesi da un governo traballante che si reggeva in piedi solo grazie a un pugno di voti provenienti da una corrente politica esterna, per di più “fascista”, come il Movimento Sociale Italiano venivano ulteriormente fomentati da forme di repressione che non andavano tanto per il sottile. Le manifestazioni di piazza avevano subìto una progressiva escalation di violenza: da un lato, dimostranti che reclamavano i loro legittimi diritti in ambito sociale e lavorativo; dall’altro il ministro Tambroni che mal digerendo tali rivendicazioni, aveva dato carta bianca al ministero dell’Interno per soffocare ogni rigurgito popolare, vero come è vero che pochi mesi dopo il neo-nominato ministro Scelba mise nero su bianco in un’intervista prima (e in una circolare poi) la legittimazione all’uso delle armi da parte delle Forze di Polizia in ordine pubblico.

    Segnali preoccupanti ce n’erano già stati in tutta Italia. A quell’epoca le manifestazioni di piazza erano in genere prive di una “regia” e di un’organizzazione per le quali bisognerà attendere il Sessantotto e gli anni successivi. Erano invece esplosioni viscerali di rabbia disorganizzata, tanto più pericolose proprio perchè impreviste nei modi e negli esiti. Non era raro assistere a dimostrazioni di semplici cittadini che degeneravano in scontri e tumulti: tante volte bastava un’occhiata di troppo, o l’avere riconosciuto chi durante la guerra ti aveva fatto assaggiare l’olio di ricino; altre volte bastava semplicemente l’atteggiamento sbagliato dall’una come dall’altra parte, manifestanti e Polizia. Un esempio? Roma, 3 febbraio 1962: viene indetto uno sciopero dei dipendenti comunali per protestare contro il mancato adeguamento stipendiale del nuovo contratto del pubblico impiego. Non ci sono facinorosi, ma semplici lavoratori di un comparto vitale per l’Urbe che protestano per rivendicare ciò che spetta loro: tuttavia come finisce? Con idranti in azione e cariche della Celere. Dialogo? Zero.

    La gente era stanca di imposizioni, di quelle che oggi si definirebbero leggi-bavaglio; era ancora più stufa di soprusi e angherie che rendevano la vita di un lavoratore impossibile. Ma quel che è peggio, era stufa di non trovare nessuna forma di dialogo con il legittimo interlocutore, la classe politica. Sembra la situazione attuale, vero?

    Roma, 6 luglio 1960.

    La giornata già di per sé afosa è destinata a diventare ancora più torrida per una manifestazione di decine di migliaia di persone che volevano protestare contro la politica del governo Tambroni dopo i recentissimi scontri di Genova di neanche una settimana prima. Il film si ripete, nella capitale vengono concentrate Forze di Polizia in quantità gargantuesca: Reparti Celere, battaglioni dei Carabinieri, la squadra a Cavallo agli ordini del capitano D’Inzeo, perfino l’esercito che è stato consegnato in caserma pronto a intervenire. Ancora una volta si predilige una gestione dell’ordine pubblico manu militari, e se fino ad allora era stato usato il pugno di ferro nel guanto di velluto, quel 6 luglio il guanto venne lentamente sfilato. In più, quel giorno qualcuno aveva sparso la voce – infondata – che a Porta San Paolo si sarebbe tenuto un comizio del MSI: proprio lì, a Porta San Paolo dove nel settembre 1943 si erano svolti i combattimenti più cruenti tra italiani e tedeschi e che perciò era stato assunto a luogo-simbolo della Resistenza… Insomma, la fotocopia di Genova di una settimana prima.

    Il Questore, dietro precise direttive, aveva vietato la manifestazione di quel giorno: questo, sotto l’aspetto squisitamente tecnico-legale, autorizzava a sciogliere con la forza qualsiasi aggregazione di persone lungo la pubblica via. A Genova una settimana prima non c’era scappato il morto per grazia ricevuta; tuttavia i Poliziotti che erano tornati magari con le ossa rotte dal capoluogo ligure erano rimasti impressionati dalla furia dei portuali che erano arrivati ad assaltare i reparti armati di lunghi uncini metallici, le “refie” usate per scaricare i sacchi di cereali dalle navi. Un capitano di Polizia era stato anche quasi annegato in una fontana e solo l’intervento massiccio dei colleghi aveva scongiurato ben più tristi finali. Quel capitano, che aveva osato sollevare con il proprio Comando una veemente protesta per essere scesi in strada allo sbaraglio, era stato nel frattempo precipitosamente trasferito in Sicilia….

    Il 1° Reparto Celere di Roma è in allerta da qualche giorno: i militari vengono schierati in città all’alba. La zona indicata come raduno dei manifestanti viene “cinturata” dai mezzi della Polizia e dei Carabinieri: camion, jeep, gipponi, anche gli idranti. I funzionari della questura tradiscono il loro nervosismo per quella che sarà una giornata lunghissima, di cui non si vede la fine. Dal canto loro, i manifestanti non si sono fatti intimorire dal veto questurino: anche loro di buon’ora iniziano ad affluire nella zona di Porta San Paolo, dapprima a piccole frotte che formano capannelli qua e là, poi ingrossando le fila sempre più. Alle 9:30 la questura riferisce al Ministero che in piazza ci sono circa nove-diecimila persone. L’ordine che viene emanato è altrettanto perentorio: quell’assembramento va sciolto.

    Tra le centinaia di guardie di P.S. schierate c’è un giovane trentunenne. Si chiama Antonio Sarappa e fa parte di uno dei nuclei di pronto impiego schierati alle spalle di Porta San Paolo. Si trova a bordo di una jeep assieme ai suoi colleghi, armato di sfollagente e della sua pistola d’ordinanza. Scarica. Come a Genova, ove le cartucce vennero consegnate ai militari sigillate in pacchetti di cartone [precisiamo che questa affermazione, più volte ripresa dalla stampa dell’epoca, è stata smentita in modo categorico dalle testimonianze dei militari che parteciparono a quegli scontri, in particolare dal figlio del Capitano di P.S. Francesco Londei, n.d.r.], così a Roma si preferì mandare in strada con le armi cariche solo gli Ufficiali. Del resto, il giorno prima a Licata la Polizia assalita dai manifestanti aveva sparato uccidendo un giovane, Vincenzo Napoli, e ferendo altre 24 persone. Il governo Tambroni era stato messo subito alle corde ma un pugno di voti gli fecero prolungare la sua già avanzata agonia.

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    Non c’è tempo per Sarappa di attendere l’evoluzione degli avvenimenti. I funzionari ordinano subito di intervenire con la forza. Addio pronto impiego. Tutta la “macchina” della Forza Pubblica si mette in moto con grande professionalità: prima gli idranti e poi i “caroselli” con le jeep sotto un sole forte, con quelle divise di panno verde che ti fanno sudare anche l’anima e un elmetto metallico in testa a rendere la vita ancora più impossibile. I manifestanti, stando alle cronache dell’epoca, sembrano disperdersi. Sembra. Ma non è così. Viene adottata una tecnica nuova, quella dei piccoli gruppetti che attaccano la Polizia alla spicciolata, fiaccandone la resistenza ma soprattutto smembrandone l’unità di uomini e mezzi. Alle 13 le celle di sicurezza della questura sono già colme di arrestati, si deve predisporre un servizio di vigilanza e restrizione alla Castro Pretorio ove vengono fatti convogliare i camion zeppi di fermati.

    Ma gli scontri in città stanno continuando. Il sistema organizzativo della Polizia salta: non sono più previsti i cambi del personale già schierato dalla prima mattina e quindi il servizio diventa senza soluzione di continuità. Dalla mensa del reparto ai militari più fortunati viene fatto recapitare un panino al salame unto e bisunto, che con quel caldo diventa ancor più un mattone sullo stomaco; quelli più sfortunati si devono accontentare di un po’ di acqua bevuta direttamente dagli idranti per placare quella sete e quel caldo micidiali.

    Il pomeriggio diventa ancora più incandescente. I manifestanti sono ben lontani dal desistere anche se le loro fila si sono assottigliate. In strada restano gli antifascisti più irriducibili contro i quali partono anche le cariche della squadra a Cavallo. Sono tutti stanchi, proprio tutti. E non se ne vede ancora la fine.

    Di Antonio Sarappa non sappiamo nulla. Mi immagino che abbia lavorato sodo come gli altri per obbedire agli ordini impartiti. Stanco, sudato, a pancia vuota. E in prima linea. Perchè è qui che lo troviamo quando ormai il sole è tramontato sull’Urbe. La sua squadra sta disperdendo per l’ennesima volta un gruppetto di scalmanati che ha preso a sassate la jeep. Sarà stata la stanchezza, magari la convinzione di avere la situazione sotto controllo o più semplicemente la rabbia dopo una giornata del genere, sta di fatto che quella squadra commette un errore molto grave: inseguendo i manifestanti in un vicolo, si isola dal resto del contingente. E’ una trappola, ma le guardie se ne accorgono quando ormai è troppo tardi. Alle loro spalle compaiono una ventina di picchiatori: a differenza del gruppetto inseguito (che è servito da esca), questi sono armati di spranghe, bastoni, mazze di ferro. La squadra di Sarappa viene assalita con tutta la più cieca violenza di cui l’uomo è capace. E ad avere la peggio è proprio lui, Antonio Sarappa. Viene pressochè linciato a calci, pugni e bastonate. Un militare riesce a chiedere aiuto ai colleghi che tirano fuori da quel budello i feriti disperdendo i loro assalitori. Sarappa è a terra, ferito: è cosciente, si lamenta di dolori dappertutto ma non sembra grave. Viene soccorso, caricato dapprima su una jeep che lo porta lontano dal luogo degli scontri ove un’ambulanza lo può agevolmente trasportare in ospedale, uno dei tanti feriti di quella lunga giornata.

    A sera inoltrata l’ordine pubblico è praticamente ristabilito: il bilancio provvisorio è di 104 arrestati tra i manifestanti e di 82 contusi tra le Forze dell’Ordine.

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    La sola immagine che ci siamo sentiti di pubblicare sui soccorsi ad Antonio Sarappa: è stata scattata immediatamente dopo il linciaggio, il suo corpo è sorretto dal collega in piedi sulla jeep (si ringrazia l’archivio dell’Istituto Luce per la concessione del materiale)

    Sembra finita qui. E invece qui inizia il peggio.

    Antonio Sarappa non si riprenderà mai da quelle ferite. Fu ricoverato all’ospedale militare del Celio e operato più volte per tamponare quelle devastazioni agli organi interni che subdolamente avevano minato il suo fisico. Il 7 settembre 1960 muore.

    I Romani, gli Italiani in generale non seppero di lui: la notizia della sua morte fu affidata a poche righe disperse tra una pubblicità di un dentifricio e gli annunci compro-vendo e in un articolo di commemorazione infarcito di inutile retorica pubblicato su Polizia Moderna, la rivista ufficiale del Corpo. Al resto pensarono le vacanze estive che, come ogni anno, fungono da spugna bagnata passata sulla lavagna della memoria della gente, ieri come oggi troppo desiderosa di dimenticare e di riposarsi. A settembre, gli scontri di Porta San Paolo erano diventati un ricordo; Antonio Sarappa, un illustre sconosciuto, la gente catturata da altri problemi.

    Eppure a parere di chi scrive egli fu l’icona di chi si trovò a essere suo malgrado un eroe. E lo fu due volte: come poliziotto caduto in servizio, ma soprattutto perchè la sua morte postuma evitò guai ben peggiori. Il giorno dopo a Reggio Emilia, una Polizia nuovamente armata lasciò a terra cinque manifestanti in quello che fu l’ennesimo revival fatto di manifestazione non autorizzata e di uso della forza. A Reggio Emilia, come scrissi nell’articolo dedicato a quei fatti, i poliziotti arrivarono imbruttiti, con troppa voglia di vendetta. E con tanta maledetta paura repressa dentro di loro. Cosa sarebbe accaduto a Reggio se la Polizia fosse giunta con la notizia della morte di Sarappa nella testa? I morti sarebbero stati solo cinque o, per usare una frase pronunciata da uno dei feriti reggiani prima di morire, la “caccia alla lepre” sarebbe diventata anche un tiro al piattello?

    La redazione è stata recentemente contattata per avere qualche notizia più specifica sulla figura di Antonio Sarappa. Il massimo cui siamo potuti giungere con le nostre ricerche è stata questa ricostruzione basata sul confronto degli articoli giornalistici delle principali testate dell’epoca (per gli scontri di Porta San Paolo) e sulla scarna documentazione medico-legale che tuttavia poco o niente fa comprendere sui retroscena più umani di questa vicenda. Come per l’allievo vicebrigadiere Settimio Passamonti, anche per Antonio Sarappa esistono alcune foto che documentano i suoi soccorsi. Seguendo il rigore che impone nelle nostre scelte di fermarci di fronte al dolore di un uomo, anche in questo caso decidiamo di non pubblicarle e chiediamo ai nostri lettori di attribuirci quella fiducia che sempre ci è stata accordata quando chiediamo loro di crederci. La sofferenza di un uomo agonizzante sorretto da altri suoi colleghi, lo sguardo di incredula impotenza e di indomabile sgomento dei suoi soccorritori sono un carico emozionale di cui preferiamo farci carico solo noi.
     
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