Il vice commissario Guido Alessi

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    Aldilà del Piave

    di Fabrizio Gregorutti



    La motivazione della Medaglia d’Oro recita:

    “Volontario di guerra, prese parte ad importanti azioni, animato sempre da grande entusiasmo ed amor di Patria. Sebbene febbricitante, volle partecipare ad una importante azione, ove, con sommo sprezzo del pericolo, fu sempre fra i combattenti nei momenti più pericolosi della lotta. Trovatosi presso una compagnia assai provata, della quale era caduto il comandante, assumeva il comando del reparto e ne incorava gli uomini, incitandoli a vendicare il loro capitano, poscia li lanciava all’attacco. Spintosi quindi arditamente in ricognizione fra le linee nemiche, attraverso terreno insidiosissimo, fra il violento fuoco di numerose mitragliatrici, riusciva a segnalare in tempo un movimento aggirante sul fianco destro, sicchè fu possibile sventare la mossa. Ripetutamente colpito da una raffica di mitragliatrici, cadeva gloriosamente sul campo, gridando: “Non pensate a me, avanti sempre per la grandezza d’Italia; compagni, oggi abbiamo vendicato Caporetto”.

    Montello, 19 giugno 1918.”

    Forse, come tante frasi attribuite agli Eroi della Patria, anche questa gridata dal maggiore Guido Alessi del 39° Fanteria della Brigata Bologna non è vera. E’ difficile che un uomo falciato da una raffica di mitragliatrice riesca a trovare la forza per gridare queste frasi che sembrano più provenire dalla fertile mente dell’ufficiale che scrisse la proposta della Medaglia. Un uomo morente, che sente la vita fuggire dal suo corpo invoca Dio, la madre, la moglie. O se davvero pronuncia qualcosa del genere, è solo una esortazione ai propri soldati a proseguire l’assalto per non lasciarsi massacrare allo scoperto e perché il suo sacrificio non sia vano. Quello che la motivazione della Medaglia d’Oro non riporta è che sino allo scoppio della Grande Guerra Guido Alessi era stato un vicecommissario di Polizia, in servizio presso la Questura di Milano.

    Nessuno gli avrebbe mai potuto dire nulla, anche se non si fosse arruolato nell’Esercito. Prestava servizio in un Corpo dello Stato ad oltre 400 chilometri dal fronte al sicuro, a differenza degli uomini della sua generazione, ma probabilmente al vicecommissario Guido Alessi quel posto sicuro pesava sulla coscienza e quindi si arruolò nel Regio Esercito per senso del Dovere. Era un uomo del suo tempo, un patriota che nella sua Roma aveva respirato sin da bambino l’aria dell’epopea del Risorgimento ed aveva ascoltato a bocca aperta il nonno che gli raccontava di quel giorno di settembre, quando i bersaglieri ed i fanti erano entrati a Porta Pia e a scuola si era commosso, quando il maestro aveva parlato dei martiri risorgimentali, impiccati dagli austriaci solo perché avevano voluto vivere da Italiani. Aveva appena sei anni quando sventolando una bandierina tricolore aveva salutato insieme ad una folla entusiasta i soldati italiani in partenza verso la disastrosa avventura abissina. Quando nel 1915 l’Italia entrò in guerra, Guido si trovò di fronte ad una scelta. Aveva 25 anni, era appena sposato, aveva una professione che lo avrebbe potuto tenere al riparo dagli orrori del conflitto, lasciandogli allo stesso tempo la coscienza a posto, nella certezza di servire ugualmente la Patria. Ma Guido preferì arruolarsi. Forse furono i funerali dei propri amici Caduti sul campo di battaglia o gli occhi carichi di disprezzo dei soldati feriti, di ritorno dal fronte, che lo guardavano accusatori dicendogli silenziosamente “imboscato!”. Forse fu la caccia ai disertori. Come tutti i poliziotti ed i carabinieri di allora anche il vicecommissario Alessi venne incaricato della ricerca dei disertori, di uomini che nella maggior parte dei casi erano colpevoli solo di avere cercato di sfuggire alla morte nei mattatoi del Carso o dell’Isonzo. A molti poliziotti e carabinieri capitò di presentarsi a casa del presunto vile per scoprire, con propria sorpresa e vergogna che il soldato aveva abbandonato sì la propria unità, ma si era poi ripresentato ed era successivamente caduto in battaglia. A quanti agenti e carabinieri toccò ascoltare le parole cariche di rabbia di un padre, di una madre o di una moglie, mentre gli esibivano il telegramma con cui lo Stato Maggiore li informava della morte del loro caro? Toccò anche a Guido di ascoltare quelle parole dei familiari, taglienti come lame, mentre per la vergogna desiderava che la terra lo inghiottisse?
    Guido si presentò al Distretto Militare e si arruolò nell’Esercito.

    In questura il brindisi d’addio dovette essere spettacolare, con il questore che brindava al giovane e valoroso funzionario che certo li avrebbe fatti inorgoglire tutti mentre si batteva per l’immancabile vittoria della Patria e per la redenzione di Trento e Trieste e che al suo ritorno avrebbe certo avuto un luminoso avvenire nella Polizia italiana, con i colleghi funzionari che si complimentavano entusiasticamente (sia quelli pronti a presentare domanda sia quelli che non ci pensavano nemmeno), con i suoi sottufficiali tra i quali il maresciallo che aveva già combattuto durante la guerra d’Abissinia e che a bassa voce gli chiese “Ma dottore, ha idea di dove sta andando a cacciarsi?”. Sicuramente la cosa più difficile fu dirlo a sua moglie e spiegarle perché stava partendo per la guerra. Non sappiamo se lei accolse con rassegnazione o addirittura con fervore patriottico le parole del marito oppure se ci fu una lite terribile con lei che chiedeva “perché” volesse abbandonarla per andare a combattere e lui che cercava di spiegarle i suoi sentimenti e la sua vergogna nel rimanere a casa.

    Ma il mattino dopo lei era alla Stazione e rimase sulla banchina a salutarlo, sino a che il treno che lo portava verso il fronte fu solo un punto indistinto all’orizzonte La guerra non fu quello che Guido forse si era aspettato. Niente bandiere sventolanti al sole, niente cariche eroiche, niente frasi nobili e gloriose dei morenti, ma solo fango, sangue ed orrore. Ragazzi poco più che ventenni morenti, dilaniati dalle raffiche e dalle granate. Le urla terribili dei feriti, intrappolati nella terra di nessuno. Il lezzo sconvolgente dei cadaveri in decomposizione. I topi da trincea mostruosamente grassi, il fango vorace delle trincee. L’inferno in terra.

    Guido Alessi fece il suo Dovere, guidando gli assalti contro le trincee austroungariche, ma lui stesso si rese conto della follia degli attacchi frontali che costarono la vita a centinaia dei suoi uomini.

    In tre terribili settimane, tra il 4 ed il 25 Maggio 1917, il suo reggimento, il 39° Fanteria della Brigata Bologna perse 320 fanti e 10 ufficiali. La guerra sembrò trascinarsi così, in un continuo ed orrendo stillicidio di sangue ed orrore mentre tanti soldati cominciarono a chiedersi che senso avesse tutto quell’inutile massacro. Poi, in un giorno di fine ottobre di quello stesso 1917, le truppe austrotedesche sfondarono a Caporetto e nelle linee italiane fu il disastro. L’esercito italiano fu costretto precipitosamente ad arretrare, abbandonando vaste porzioni di territorio nazionale al nemico.

    Per un istante sembrò che l’Italia, nata da poco meno di sessant’anni, fosse in procinto di scomparire dalla Storia. Centinaia di migliaia di soldati caddero prigionieri, altre migliaia furono uccisi durante una tragica e disperata difesa delle proprie posizioni, il capo di Stato Maggiore che per i due anni precedenti li aveva mandati al massacro in folli assalti venne deposto, ma prima di andarsene riuscì ad emettere un infame comunicato con il quale accusava di codardia intere divisioni. Gli austro tedeschi occuparono il Friuli e ampie porzioni del Veneto, dove l’autunno e l’inverno del 1917 e del 1918 furono un incubo per le popolazioni civili. Migliaia di profughi cercarono scampo nelle grandi città, mentre i villaggi vennero saccheggiati dagli invasori. In quel terribile autunno gli stupri si contarono a decine, nelle terre invase.

    Poi i soldati italiani si assestarono sul Piave.

    Fu lì che i soldati sconfortati e disillusi di Caporetto, sopravvissuti alle carneficine degli assalti sul Carso e sull’Isonzo, si trasformarono nell’ultima speranza della Patria. Quegli uomini, alcuni poco più che ragazzi, compresero che se il Piave crollava, l’intero Paese sarebbe crollato con lui. Il loro sangue, il loro dolore, la loro disperazione, il loro sacrificio ebbero finalmente un senso. Non combattevano più per un Re o per un governo, combattevano per le proprie città ed i propri villaggi, combattevano per le loro famiglie, combattevano per una cosa indefinita chiamata Italia.

    Iniziò un epopea incredibile ed eroica. L’esercito sconfitto di Caporetto si trasformò in un autentico muro umano invalicabile contro cui le offensive nemiche si schiantarono inutilmente per un anno, sino al giorno della Vittoria, sino a Vittorio Veneto.

    Anche Guido, ormai divenuto maggiore, visse questa epopea.

    Fu l’era dei ragazzi della classe del 1899, dei diciottenni imberbi che affluirono da tutta Italia per difendere le ghiaie del Piave e le pietre del Monte Grappa e che spesso vi morirono insieme ai veterani del Carso e dell’Isonzo.

    Erano i figli migliori del Paese, che con la loro scomparsa perse la parte più bella di sé.

    Sicuramente anche Guido se ne rese conto, in quei giorni terribili. Sicuramente si chiese se ne valeva la pena e chissà se, guardando al di là del Piave, verso le Terre Invase, seppe darsi una risposta.

    Forse se lo chiese anche il mattino di quel 19 Giugno 1918, nella trincea sull’altopiano del Montello, quando gli Italiani respinsero l’ultima offensiva nemica. Non sappiamo se disse ai suoi uomini, alle reclute diciottenni ed ai veterani del Carso provati dalle battaglie, qualche frase eroica come quella poi trascritta sulla motivazione della Medaglia d’Oro. Forse chiese ai suoi fanti un ultimo sacrificio chiedendo loro di vendicare i compagni morti, i civili oltraggiati, i villaggi distrutti, le Terre Invase. O forse non disse nulla del genere e guardando i suoi fanti ricordò tutti i soldati e gli amici che aveva perduto ed il dolore, il sangue e la disperazione di quei tre anni e con un sorriso commosso mormorò “Grazie, ragazzi….”.

    Poi Guido affidò al suo attendente l’ultima lettera per sua moglie. Quindi infilò la punta dello scarpone destro in una scanalatura per darsi lo slancio necessario a superare con un balzo la trincea e chiese ai suoi uomini “ Siete pronti…? ” e alla risposta affermativa, con un accento che nessuno dei soldati del 39° avrebbe mai dimenticato sino all’ultimo istante della propria vita, balzò oltre la trincea urlando “SAVOIAAAA !!!” .

    Cinque mesi dopo il sacrificio di Guido i soldati italiani travolsero il nemico a Vittorio Veneto, ponendo termine alla Prima Guerra Mondiale.

    Il vicecommissario Guido Alessi è ancora sul Piave, insieme alle ossa e alle anime delle altre decine di migliaia di Soldati che salvarono l’Italia, ma qualcosa di lui ritornò a casa. Nella sua Roma oggi esiste una scuola intitolata a Guido, con il suo busto bronzeo che campeggia nell’atrio. Nei settant’anni della sua esistenza generazioni di bambini hanno studiato, giocato e sono cresciuti nella scuola che porta il suo nome. Centinaia di bambini e bambine che sono diventati uomini e donne liberi.

    Crediamo che Guido ne sarebbe orgoglioso.
     
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