8 - Gli anni del terrorismo eversivo

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    GLI ANNI DEL TERRORISMO EVERSIVO(1970 – 1979)





    Gli Anni ’70 si aprono con un’Italia spaccata politicamente in due. Le varie classi sociali – Polizia compresa – hanno acquisito una sempre maggiore consapevolezza dei loro ruoli e individuano al loro interno i vari “portavoce” di nuove pretese.

    I molteplici movimenti studenteschi e proletari cambiarono radicalmente modo di agire diventando in molti casi contraddittori: erano nati contro la violenza e ora iniziano a sparare e uccidere; volevano l’abolizione delle gerarchie e adesso si organizzano in strutture paramilitari; non volevano più competizioni e invece arrivano alla formulazione di programmi politici. L’Italia diventa il Paese degli slogan ripetuti a ritmo ossessivo nelle piazze, senza tuttavia la dimostrazione di avere conservato un minimo di memoria storica; i giovani inneggiavano a personaggi come Ho Chi Mihn, Lenin, Che Guevara senza nemmeno sapere chi fossero; guardavano a forme di politica alternative quali quella sovietica o cinese, senza un minimo di documentazione obiettiva su di esse.

    Si diventò spettatori di una rivoluzione della moda che non fu un fatto fine a se stesso, bensì un fenomeno culturale: i blue jeans, i maglioni a collo alto, il rock and roll approdarono nei “salotti-bene”, mandando in pensione giacche, cravatte e colletti inamidati. I costumi sociali mutarono tendenza, si impose la “rivoluzione sessuale” e nelle famiglie si fece sempre più strada un atteggiamento di permissivismo da parte di genitori che si videro culturalmente superati dai figli, quindi incapaci di instaurare con loro un rapporto dialettico paritario.

    La cultura e la sua diffusione non erano più appannaggio di pochi eletti, ma venivano messe a disposizione di tutti sebbene con filtraggi storico-politici che sconfinarono spesso in autentico travisamento della realtà.

    Nel 1958 c’era in Italia circa un milione di apparecchi televisivi; ora questi sono decuplicati. Nel 1970 l’informazione iniziò a viaggiare e a diffondersi con sistemi diversi, alternativi: proliferarono le prime “radio libere”, spesso illegali e ricavate magari nella soffitta di casa; nelle scuole e nelle università si diffusero i giornalini d’istituto – il più delle volte semplici foglietti ciclostilati scritti a mano – spesso fuori da ogni controllo o censura da parte dei presidi o dei rettori. La stessa cosa avvenne nelle caserme di Polizia: le riviste del settore (Ordine Pubblico, Polizia Moderna, tanto per citare i più rappresentativi) riportarono sempre più numerosi gli articoli su ipotesi di revisione del Corpo; alla sindacalizzazionedi esso, si affiancò ben presto il concetto della sua smilitarizzazione, passo indispensabile per la nascita di sindacati rappresentativi dei poliziotti (1).

    Negli ambienti politici di governo, il Corpo delle Guardie di P.S. iniziò a trovare appoggio e sostegno: il leader del partito radicale Marco Pannella presentò per primo una serie di interrogazioni parlamentari su questo tema e sulle condizioni di vita degli operatori di Polizia, partendo dal presupposto che in uno Stato democratico l’ordine pubblico non dovesse essere gestito da Corpi militari, bensì da Istituzioni civili. Visto il silenzio imbarazzato con cui il governo rispose a tali interrogazioni, Pannella porrà in essere – da questi anni fino all’avvenuta smilitarizzazione del 1981 – tutta una serie di gesti, anche eclatanti, che lo porteranno più volte alla soglia dell’arresto.

    Sul piano dell’ordine pubblico, oltre agli ormai quotidiani incidenti di piazza, il Corpo delle Guardie di P.S. fu massicciamente impegnato nel giugno 1971 per sedare le rivolte popolari a Reggio Calabria, nate sulla spinta secessionista che voleva questa città come capoluogo di regione al posto di Catanzaro e che si estenderà poi ad altre regioni d’Italia. Si tornò di nuovo in un clima da colpo di stato: il governo, che pensava di risolvere la situazione con pochi sforzi, fu costretto ad inviare in Calabria addirittura l’Esercito, con una regione messa letteralmente a ferro e fuoco per più di tre mesi, con barricate, bombe e assalti a questure, commissariati, municipi, prefetture, occupazioni di stazioni ferroviarie.

    Al termine degli scontri, si conteranno 2 morti (2), 230 feriti, 300 arresti, 13 attentati dinamitardi, 6 assalti alle prefetture, 4 assalti alle questure, 32 blocchi di strade, aeroporti e porti.

    Stessa cosa avviene in Abruzzo, ove L’Aquila era stata decretata capoluogo di regione a scapito di Pescara, sede unicamente dell’apparato amministrativo. Sul posto furono inviati numerosi contingenti della “Celere” che, con l’ordine tassativo di non rispondere alle provocazioni dei manifestanti, presidieranno a lungo le città. Se sul piano della dignità personale delle singole guardie l’atteggiamento ordinato dai vertici fu deleterio, su quello dell’ordine pubblico la scelta si rivelò invece azzeccata: gli incidenti cercati a tutti i costi dai manifestanti non avvennero se non in minima parte.

    In questi stessi anni, anche nell’ambiente della Pubblica Sicurezza l’opinione pubblica fu spettatrice di una sempre maggiore diffusione di idee di rinnovamento. Queste non erano più una semplice manifestazione di disagio proveniente dalla base della scala gerarchica, ma si estendevano lentamente anche al ruolo degli Ufficiali e dei Funzionari. In neanche venti anni, era cambiato non solo il livello culturale dei militari, ma anche il loro orientamento politico: da una Polizia che negli Anni ’50 vedeva e voleva al suo interno esclusivamente elementi di chiare simpatie di destra, si passò ad una Polizia pervasa da ideali di democrazia che annoverava al suo interno molti elementi con propensioni politiche decisamente più moderate, addirittura spostate a sinistra.

    Le guardie non posero più in essere comportamenti palesemente illegali, quali l’ammutinamento o l’insubordinazione, ma iniziarono ad organizzarsi – chiaramente in modo clandestino – in embrioni di sindacati, spesso trovandosi a casa dell’uno o dell’altro. Così mi descrive il clima di quel periodo un sottufficiale, oggi Ispettore e sindacalista:

    “Nei primi anni ’70 avevamo avvertito tutti la necessità di organizzarci in sindacati di base, lasciando perdere inutili iniziative personali che erano destinate a cadere nel vuoto, con gravi ripercussioni disciplinari e penali a carico dell’autore di questi gesti. Ma il sospetto era tanto: ci dovevamo guardare non solo da una scatenata squadra politica della questura che stava schedando ogni poliziotto favorevole alla sindacalizzazione del Corpo, ma anche dai singoli colleghi, con i quali non si sapeva mai come iniziare il discorso, temendo di trovarci davanti ad uno dei tanti militaristi ancora convinti. Mi ricordo che all’epoca – ero in servizio al Reparto Celere di Padova – ci trovavamo a discutere di tali argomenti con i colleghi incontrandoci “casualmente” lungo l’argine del canale Scaricatore, con la scusa di portare a spasso il cane”. (3)

    Un clima da “carbonari”, che però di lì ad una decina di anni avrebbe dato i frutti sperati.

    Nel frattempo, ad inizio anni ’70, si radicalizzò la lotta armata come normale strumento di scontro di piazza. I vari gruppi di contestazione (principalmente studenti e lavoratori), il cui atteggiamento di protesta – per quanto duro – era stato sempre sostenuto dalla sinistra comunista, vennero da questa improvvisamente “scaricati” dopo i primi scontri a fuoco per le strade e le prime vittime, spesso appartenenti alle Forze dell’Ordine o addirittura privati cittadini, colpevoli di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Una tale posizione era politicamente insostenibile da parte di un partito politico che stava cercando di salire al governo.

    Privi di un referente politico che desse loro una sorta di appoggio in sede di governo, questi gruppi cercarono quindi dei leaders carismatici che indirizzassero le loro forme di lotta in modo sistematico. E chi miglior leader di coloro i quali avevano predicato fin dall’inizio la necessità dello scontro armato? Nacquero gruppi armati dai nomi altisonanti: Potere Operaio, Lotta Continua, Autonomia Operaia e, infine, il più radicale ed estremista: le Brigate Rosse.

    Sul piano del controllo politico, si torna ad un clima già vissuto negli anni ’50: non c’è gruppo, associazione o ambito di aggregazione che non abbia al suo interno informatori e confidenti; ancora una volta, nelle Questure e nei vari Uffici di Polizia iniziano a giungere montagne di notizie, informazioni, “soffiate” che devono essere puntualmente verificate e catalogate. Gli archivi delle squadre politiche di polizia assumono dimensioni impressionanti, arrivando al punto di aprire un fascicolo su persone che erano state semplicemente notate all’edicola mentre compravano un determinato quotidiano ritenuto troppo di sinistra.

    La Polizia rispose con un nuovo adeguamento di uomini, mezzi e risorse: vennero finalmente modernizzate le uniformi, mediante l’introduzione – per tutti i Reparti “Celere” a partire dal 1977 – della innovativa tuta grigio-verde da ordine pubblico e del basco, molto più pratici dell’obsoleta divisa ordinaria e del berretto rigido; già dal 1969 gli elmetti metallici modello “33” erano stati dotati di visiera in plastica antiurto per la protezione del volto e poi progressivamente sostituiti dal più performante mod. “U-Bott” ed erano stati introdotti gli scudi rettangolari; si sostituirono le ultime pistole “Beretta” mod. 34 con le più moderne mod. 51, anche se era già allo studio una nuova arma corta – la “Beretta” mod. 92 tuttora in dotazione individuale – dagli elevati standard di sicurezza e che vedrà la sua diffusione a partire dall’inizio degli anni ’80; il moschetto “M.A.B.” fu progressivamente rimpiazzato dall’innovativo “Beretta” PM12S, anch’esso tuttora in uso come arma lunga in dotazione di reparto.

    In tema di automezzi, nei Reparti “Celere” vengono introdotti i nuovi furgoni “scudati” OM e FIAT, con vetri antiproiettile, sistemi di ventilazione che impediscono l’inalazione dei lacrimogeni e dotati di grate metalliche mobili contro il lancio di pietre; ai “gipponi” scoperti vengono affiancate le prime FIAT “Campagnola” – sia nella versione blindata che in quella standard – che offrono maggiore riparo e comfort agli operatori. Per il servizio di Volante (4) vengono approntate le mitiche Alfa Romeo “Giulia 1300”, assegnate anche alla Polizia Stradale nella versione “station wagon” come mezzo polivalente per i servizi autostradali; appositamente studiate per gli inseguimenti veloci, vengono inoltre introdotte le potentissime Alfa Romeo “2600” e , dalla metà degli anni ’70, le “Alfette 1800”.

    A partire dal 1975 furono cambiati a tutti i veicoli anche i c.d. “colori d’istituto”, con il grigio-verde sostituito dal colore azzurro con fasce rifrangenti bianche tuttora utilizzato; tale cambiamento riguardò anche l’uniforme di servizio, con la divisa ordinaria “spezzata” (giacca blu e pantaloni grigio-azzurri) che mette progressivamente fuori ordinanza quella grigio-verde; a partire dal 1973 venne inoltre allestita la divisa c.d. “atlantica” per il periodo estivo, dapprima a maniche lunghe e poi - dal 1976 - a maniche corte in colore azzurro (5) e munita di cinturone in cordura di colore bianco.

    Le tecniche di indagine si adeguarono ai nuovi sistemi di comunicazione di massa: nelle Questure, nelle Prefetture e poi nei tribunali le squadre di Polizia Giudiziaria vennero munite di apparati di intercettazione telefonica e ambientale, grazie ai quali si preverranno molti reati, soprattutto di matrice terroristica. Come già descritto, in tutte le questure si allestirono le moderne sale operative, con postazioni radiotelefoniche i cui operatori gestivano nell’immediatezza le telefonate di emergenza in entrata sul “113” e le comunicazioni radio con le Volanti sul territorio; nelle metropoli, le sale operative vennero addirittura dotate di monitor collegati a telecamere fisse, installate nei punti nevralgici della città; l’operatore radio disponeva inoltre di connessione telefonica “punto-punto” (6) con Carabinieri, Vigili del Fuoco e ospedali, per una maggiore celerità nel coordinamento dei soccorsi e degli interventi; banche, uffici postali ed altri obiettivi sensibili furono collegati direttamente alle sale operative con un sistema d’allarme antirapina.

    Sul piano più strettamente operativo, già a fine anni ’60 vennero create squadre estremamente specializzate nella gestione di situazioni ad alto rischio, pronte ad essere trasportate in tutta Italia, le c.d. “Teste di cuoio” (7) precursori del futuro N.O.C.S. di cui si parlerà tra breve. Nel 1974 sotto la guida dell’allora Questore Emilio Santillo fu creato l’Ispettorato Generale per l’Azione contro il Terrorismo, poi rinominato Servizio di Sicurezza, al cui interno venne collocato il Nucleo Anticommando: sono i primi passi dell’attuale N.O.C.S. (Nucleo Centrale Operativo di Sicurezza), che nacque ufficialmente il 24 ottobre 1977 con una direttiva del Ministro dell’Interno Francesco Cossiga: esso era composto da personale del Corpo inquadrato su base volontaria e articolato in guardie, sottufficiali e ufficiali, selezionato con criteri psicofisici severissimi e addestrato per compiere interventi rapidi di risoluzione in caso di sequestri di persona, terrorismo e altri ambiti di elevato spessore criminoso. Tra i molti riconoscimenti ricevuti, gli eredi ideali dei “Baschi Blu” si fregeranno del primo plauso a livello internazionale in occasione della liberazione del generale americano James Lee Dozier, rapito dalle Brigate Rosse a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato il 27 gennaio successivo a Padova con un blitz rapidissimo delle “Teste di Cuoio” della Polizia che si concluse senza spargimento di sangue e che tuttora è portato ad esempio nelle scuole di addestramento dei vari reparti speciali (8).

    Il severissimo addestramento cui si sottopongono quotidianamente gli appartenenti al N.O.C.S. li rende in grado di utilizzare qualsiasi tipo di arma e tecnica di combattimento; la loro formazione viene completata con corsi di arrampicata, manovratori di corda per le calate dai tetti o dai velivoli, lanci con il paracadute, attività subacquea. Gli appartenenti a questo reparto sostengono inoltre corsi di aggiornamento interforze presso le altre Forze di Polizia del mondo, non da ultime l’F.B.I. americano, grazie ad un frequente interscambio. Per la tutela del relativo personale e dei loro familiari, l’identità di ognuno è rigorosamente riservata, tanto che nelle rare apparizioni pubbliche il volto di questi poliziotti è sempre travisato da un passamontagna.

    Gerarchicamente e operativamente, il N.O.C.S. dipende in via diretta ed esclusiva dal Capo della Polizia. L’attuale N.O.C.S. dispone di armamento ed equipaggiamento tra i più avanzati e all’avanguardia grazie all’incessante sviluppo dell’elettronica che ha consentito l’adozione di particolari strumentazioni in dotazione personale e di reparto tuttora coperte da segreto.

    Nel 1976 il Corpo delle Guardie di P.S. viene dotato di un autonomo organico di artificieri antisabotaggio, la cui formazione – dopo severissime selezioni psico-attitudinali – viene affidata a strutture militari dell’Esercito al fine di standardizzare i criteri di intervento operativo (9).

    Ma ancora non basta. Il clima di disagio avvertito dai militari di P.S., soprattutto appartenenti ai Reparti “Celere”, si fece sempre più alto. Alla brutalità delle manifestazioni di piazza si aggiungeva il fatto che gli orari di servizio erano ancora massacranti, continuava a non esistere nessun tipo di programmazione, le guardie venivano spesso consegnate in caserma o inviate in estenuanti aggregazioni fuori sede, dalle quali non potevano mai rientrare prima del termine per timore di un loro assenteismo. Come già detto, il 21 ottobre 1971 quasi un centinaio di militari del Reparto Celere di Torino aveva sfilato per le vie della città per richiamare l’attenzione dei cittadini sui problemi di un’intera categoria di lavoratori: ennesima inchiesta, ennesima caterva di provvedimenti disciplinari, con le guardie consegnate in caserma anche quando erano libere dal servizio.

    Ma ancora nessuna risposta concreta dal governo a favore dei poliziotti.

    “Ormai eravamo abituati a tenere sempre pronta una valigia piena solo di biancheria intima pulita: sapevamo che l’aggregazione di qualche giorno si trasformava spesso in permanenza anche per mesi fuori sede. […] Capitò anche che, aggregati a Milano da mesi, si rientrasse alla caserma “S. Ambrogio” trovando la mensa di servizio in più occasioni già chiusa: all’ennesimo episodio, i colleghi del 2° Reparto Celere di Padova sfondarono le porte della cucina, scaraventandone all’esterno tutti i suppellettili. […] Era la prassi vedere rientrare da simili aggregazioni i militari del Reparto letteralmente abbruttiti, con divise sudice, barba e capelli lunghi. […](10)

    In sede politica, si comincia a discutere di una reale smilitarizzazione della Polizia: anche se con diffidenza, vengono ascoltati i primi rappresentanti del settore e dei sindacati, si cominciano a stilare le bozze di quella che diventerà la famosa legge n° 121 dell’aprile 1981, con la quale verrà disciolto il Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza e costituita la moderna Polizia di Stato, un corpo civile ad ordinamento speciale di cui si parlerà più avanti.

    Ma deve passare ancora parecchio tempo. Gli anni ’70 furono – sotto il profilo dell’ordine pubblico – i più turbolenti e feroci. Ancora “caccia al poliziotto” a Milano il 24 novembre 1971. Una tranquilla manifestazione indetta dagli studenti delle scuole medie si trasformò – a causa delle ormai consuete infiltrazioni di elementi antagonisti – in una giornata di cariche e contro-cariche, con i poliziotti a loro volta accerchiati e picchiati. Risultato: 60 feriti, 375 denunciati e 11 arresti.
    11 marzo 1972, Milano: gli scontri per la compresenza in strada di due manifestazioni di opposto schieramento politico provocarono un morto e più di ottanta feriti, molti dei quali militari di P.S. che le immagini dell’epoca ci fanno vedere letteralmente prelevati dai mezzi, gettati a terra e picchiati da manifestanti armati di fionde, spranghe, tondini di ferro e bombe molotov. Lo Stato risponde: il 12 aprile 1972 scatta in tutta Italia una vasta operazione antiterrorismo. Vengono controllate più di 163.000 persone di cui 469 vengono arrestate per possesso di armi o mezzi di propaganda eversiva (11), scattano perquisizioni “a tappeto” in ogni luogo ritenuto un punto di ritrovo di elementi sovversivi.

    Ancora un morto e numerosi feriti negli scontri tra i dimostranti e i poliziotti il 5 maggio 1972 a Pisa in occasione di un comizio politico del MSI. Il 17 maggio venne assassinato a colpi di pistola il Commissario di P.S. Calabresi, di cui si è già parlato nelle pagine precedenti (12).

    Gli scontri di piazza continuavano a ritmo spaventoso, con morti e feriti sia tra manifestanti che tra poliziotti: il 12 aprile 1973 alcuni appartenenti all’estrema destra scagliarono due bombe a mano di tipo “SRCM” contro una squadra del 3° Reparto Celere di Milano, provocando la morte della guardia Antonio Marino e il ferimento di altri 12 militari: solo la presenza in strada del Questore impedì ai colleghi dell’agente ucciso di scatenare una caccia all’uomo. I responsabili di un simile gesto vengono arrestati dopo poco: sono due conosciuti esponenti degli ambienti dell’estrema desta milanese, Maurizio Murelli e Vittorio Loi rispettivamente 19 e 21 anni.

    Poco più che ragazzini, come Antonio Marino.

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    Continuavano pure gli attentati sia delle Brigate Rosse – che colpirono con meticolosa precisione moltissimi appartenenti alle Forze dell’Ordine – sia dei movimenti di estrema destra. Il 17 maggio 1973 a Milano, durante una cerimonia di inaugurazione di un busto alla memoria del Commissario Calabresi nel primo anniversario dalla morte, di fronte alla questura l’anarchico Gianfranco Bertoli lanciò una bomba a mano con l’intento dichiarato di colpire l’auto sulla quale viaggiava il ministro Rumor per vendicare la morte di Pinelli: il lancio fu però “lungo”, la bomba centrò il muro della questura ed esplose provocando quattro morti e più di cinquanta feriti: il ministro dell’interno Rumor, che era appena entrato in questura, uscì dall’attentato miracolosamente illeso; morirà invece, dopo dieci giorni di agonia, l’appuntato Federico Masarin, dell’ufficio politico milanese. L’attentatore fu subito bloccato dai passanti: non tentò neppure di fuggire. La sua cattura immediata ha tuttavia danneggiato le indagini a causa del mancato espletamento di accertamenti tecnico-scientifici e investigativi: troppe cose vennero date per scontate e quando vi furono numerosi riscontri che non tornarono, iniziarono ad allungarsi ombre misteriose su tutta la vicenda.

    Chi era Bertoli? Chi lo manovrava? Come fece a procurarsi la bomba e quali appoggi vantava nel movimento anarchico milanese? E poi, cosa fu quell’improvviso “interesse” addirittura dei servizi segreti che contribuirono ad intralciare le ormai tardive indagini? Tutti interrogativi ai quali non fui mai data una risposta.


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    Milano, 17 maggio 1973: di fronte alla questura è appena esplosa una bomba a mano lanciata dall’anarchico Gianfranco Bertoli. Nella foto, l’uomo a terra ripreso di spalle mentre si regge su un gomito è l’appuntato Masarin: morirà qualche giorno dopo

    Il 28 maggio 1974 a Brescia un’altra bomba – stavolta rivendicata dal movimento “Ordine Nero” e collocata in un cestino dei rifiuti in piazza della Loggia – provocò otto morti e più di cento feriti tra i partecipanti ad una manifestazione antifascista indetta dai sindacati.
    Il 17 giugno 1974 a Padova, un commando armato di brigatisti rossi fece irruzione nella sede locale del MSI in via Zabarella, uccidendo a sangue freddo due impiegati, di cui un Carabiniere in pensione.
    La notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 una bomba – rivendicata ancora da “Ordine Nero” – esplose a bordo del treno “Italicus” facendo dodici morti e una cinquantina di feriti.
    L’8 giugno 1976 a Genova, un commando brigatista uccise il giudice Francesco Coco e i due uomini della scorta, tra cui il brigadiere di P.S. Giovanni Saponara.
    Tanto per non essere da meno, il 10 luglio 1976 un commando di “Ordine Nuovo” uccise a Milano il giudice Vittorio Occorso, titolare delle indagini sulla strage di piazza Fontana.

    La follia omicida estremista miete un numero impressionante di vittime anche tra gli appartenenti alla Polizia, di cui a seguire vengono nominati solo alcuni dei Caduti. A Biella il 1° settembre 1976 viene ucciso, durante un controllo, il vicequestore Francesco Cusano che aveva individuato e fermato alcune persone sospette. Il 13 dicembre 1976 a Milano in due distinti scontri a fuoco con cellule brigatiste vengono uccisi il vicequestore Vittorio Padovani, il maresciallo Sergio Bazzega e la guardia Prisco Palumbo, quest’ultimo ucciso nel tentativo di difendere un Funzionario di Polizia cui era diretto l’attentato; il 19 febbraio 1977 a Cascine Olona viene assassinato in un conflitto a fuoco con due brigatisti il brigadiere di P.S. della Stradale Lino Ghedini; il 12 e il 22 marzo 1977 a Roma vengono assassinati dai “Nuclei armati proletari” il brigadiere di P.S. Giuseppe Ciotta e la guardia Claudio Graziosi. Il 21 aprile dello stesso anno, durante violenti scontri nei pressi dell’università, caratterizzati dall’uso di bombe a mano e pistole, viene uccisa la guardia allievo sottufficiale Settimio Passamonti e altri 5 militari rimangono feriti da proiettili vaganti esplosi in un vero e proprio agguato teso alla Polizia.

    Il 14 maggio, ancora a Milano, tocca al brigadiere Antonio Custra, abbattuto da un colpo d’arma da fuoco sparato dai manifestanti su una colonna del 3° Reparto Celere di Milano che stava sopraggiungendo.

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    Un’immagine che fece il giro del mondo, non tanto per l’uomo in primo piano. Osservate l’interno del portone in alto a destra: un manifestante, che poco prima aveva aperto il fuoco da dietro la 124, sta minacciando una giornalista facendosi consegnare il rullino. Dalla ricostruzione balistica si tratta proprio dell’assassino del brigadiere Custra.

    Il 4 gennaio 1978 a Firenze, nel tentativo di fare evadere dal carcere due terroristi, viene ferita la guardia Stefano Dionisi che decederà in ospedale dopo 16 giorni di agonia.

    Il 10 marzo 1978 a Torino, mentre esce di casa per andare al lavoro, viene colpito a morte il maresciallo Rosario Berardi della squadra politica della questura.

    Il 16 marzo dello stesso anno, nel corso del blitz che porta al rapimento di Aldo Moro, viene trucidata tutta la sua scorta: il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, il carabiniere Domenico Ricci e le guardie di P.S. Giulio Rivera, Raffaele Jozzino e il vicebrigadiere di P.S. Francesco Zizzi.

    Il 21 giugno 1978 a Genova, mentre si sta recando al lavoro a bordo di un autobus, viene freddato da un commando brigatista il commissario Antonio Esposito. All’alba del 15 dicembre 1978 ancora a Torino, durante un servizio notturno di vigilanza alle carceri “Nuove”, un commando di cinque terroristi assassina le guardie Salvatore Lanza e Salvatore Porceddu con un assalto a colpi di mitra e fucile a canne mozze.

    Anche il 1979 vede il Corpo delle Guardie di P.S. tributare un elevato numero di vittime: il 3 maggio a Roma viene assassinato il brigadiere Antonio Mea, mentre rimane ferita la guardia Pierino Ollanu, che morirà una settimana più tardi; il 19 settembre a Milano in un agguato viene assassinata la guardia Andrea Campagna, in servizio all’ufficio politico; il 9 novembre a Roma, sempre in un agguato teso da due brigatisti, viene uccisa la guardia Michele Granato mentre il successivo 21 novembre a Genova tocca alla guardia Mario Tosa; il 27 novembre, sempre a Roma, nell’ennesimo agguato cade il maresciallo Domenico Taverna, ucciso mentre si sta recando a prelevare la propria auto in un garage; infine, il 7 dicembre a Roma un commando BR elimina il maresciallo Mariano Romiti mentre si stava recando in tribunale per testimoniare ad un processo28. E sono solo alcuni nomi tra i tanti.

    Tutto questo per dire cosa? Che per strada si moriva; che i poliziotti – come del resto tutti gli appartenenti alle Forze dell’Ordine – non erano più sicuri nemmeno tra le quattro mura di casa; che anche semplicemente andare al lavoro la mattina era una sorta di roulette russa con il destino.

    Le Brigate Rosse compaiono anche all’interno di manifestazioni di piazza. Il 9 ottobre 1974 a Torino, durante una manifestazione degli operai della FIAT, cellule brigatiste fanno scoppiare violentissimi scontri con la “Celere”: la città viene messa a ferro e fuoco, con auto incendiate, vetrine di negozi distrutte, saccheggi e violenze di ogni tipo. Iniziano i c.d. “espropri proletari”, con assalti a supermercati e negozi di ogni genere. Milano subisce tre giorni di guerriglia urbana il 16, 17 e 18 aprile 1975 a seguito del decesso di un manifestante antifascista ucciso da un colpo di pistola vagante: reparto “Celere”, questura e ogni altro ufficio di Polizia vede i propri uomini impiegati senza soluzione di continuità per fronteggiare una situazione da guerra civile che provoca un altro morto tra i manifestanti, Giannino Zibecchi, stavolta travolto e ucciso da un camion dei Carabinieri. Le immagini televisive di quei giorni fanno vedere le strade di Milano invase da gas lacrimogeno e gente armata che affronta le Forze dell’Ordine sparando all’impazzata e tirando bombe molotov; sono incendiate le auto della Polizia, sia della “Celere” che delle Volanti, molti poliziotti vengono ricoverati per ustioni e ferite da arma da fuoco. La protesta si estende anche ad altre città italiane e a Firenze il 18 aprile ci scappa un altro morto tra i manifestanti.

    Roma, 12 maggio 1977: una manifestazione del partito radicale degenera subito in tafferugli che da piazza Navona e Campo dei Fiori si estendono in tutta la città e che provocheranno la morte della studentessa Giorgiana Masi.

    Anche in questi casi, si assiste all’esplosione indiscriminata di colpi d’arma da fuoco all’indirizzo dei blindati della “Celere” del 1° Reparto di Roma, i cui militari sono costretti a rispondere di conseguenza.

    Sul piano dell’ordine pubblico e del terrorismo, il 1977 fu l’anno più “caldo”, con le università di mezza Italia occupate dagli studenti che inaugurano la c.d. “autogestione”, con scontri a fuoco tra appartenenti ad estrema destra ed estrema sinistra, con violente contestazioni ai vari rappresentanti dell’apparato di governo durante i loro comizi. A Bologna, l’11 marzo 1977 il centro della città viene sconvolto da una vera guerriglia urbana a seguito di scontri tra appartenenti ad opposte fazioni politiche: muore, colpito dall’ennesima pallottola vagante, Franco Lorusso, aderente a “Lotta Continua” e molto conosciuto in città. Ne seguono ulteriori scontri con assalti agli uffici della Polizia Ferroviaria a cui il Questore risponde schierando per le strade i mezzi cingolati dell’Esercito.

    L’insolenza dei brigatisti non si fermava più di fronte a nulla. Il 29 maggio 1978 un commando di tre persone assalì per la seconda volta in due anni l’ufficio di Polizia Ferroviaria di Rogaredo, vicino Milano: la guardia in servizio fu costretta a consegnare manette, pistola e tesserino di riconoscimento e a subire un umiliante “processo del popolo” che solo per miracolo non si concluse con la sua uccisione.

    La metà degli Anni ’70 venne ulteriormente funestata dalle scorribande di quella che, dopo le gesta della “banda Cavallero”, fu una delle più spietate e sanguinose bande di criminali: la “banda Vallanzasca”. Di Renato Vallanzasca è stato scritto tanto, forse troppo: di sicuro, spesso a sproposito per un bandito di tale bassezza morale. Proveniente da un quartiere disagiato di Milano, la Comasina, fece già parlare di sé a metà degli Anni ’60; la sua evoluzione criminale, costellata di reati sempre più sordidi che spaziano dalla rapina, all’evasione, all’omicidio, lasciano sull’asfalto un numero impressionante di vittime, tra cui quattro bravi Poliziotti: l’appuntato Bruno Lucchesi a Montecatini il 23 ottobre 1976; il vice brigadiere Giovanni Ripani a Milano il 17 novembre dello stesso anno; il maresciallo Luigi D’Andrea e la guardia Renato Barborini presso lo svincolo autostradale di Dalmine la mattina del 6 febbraio 1977. In quest’ultima occasione i banditi furono talmente feroci da lasciare a terra anche uno di essi, mortalmente ferito dai loro stessi proiettili.

    Come non bastasse, in questi anni ci si mette anche la natura. Il 6 maggio 1976 un violentissimo terremoto, avvertito in tutta l’Italia settentrionale, distrugge parte del Friuli, con più di mille morti, decine di migliaia senzatetto e interi paesi rasi al suolo. I Reparti Celere di Padova, Bologna e Milano giunsero tra i primi soccorritori sul posto, organizzando assieme all’Esercito i vari ospedali da campo. Un sottufficiale così racconta quei momenti:

    “Nel 1976 stavo frequentando il corso di allievo guardia presso la scuola allievi di Duino, vicino Trieste. La sera del 6 maggio, verso le ore 21, avvertimmo una fortissima scossa di terremoto che lesionò alcuni infissi delle camerate. Ci venne dato l’ordine di prepararci e, nel giro di poche ore, giungemmo nella zona di Gemona del Friuli: passai le settimane successive a tirare fuori i morti dalle macerie. Nei giorni seguenti giunsero da tutta Italia le staffette della Polizia Stradale che scortavano senza interruzioni le autocolonne dei soccorsi e per mesi interi tutta la regione colpita fu militarizzata. Non bastasse, nel mese di settembre un’altra scossa di terremoto colpì la zona dove ci trovavamo, facendo altri morti e distruggendo di nuovo quel poco che si era rimesso in piedi. Posso dire di avere concluso il mio corso di formazione facendo soccorso pubblico”.

    La macchina dei soccorsi questa volta funzionò senza intoppi: ciascun reparto di Polizia intervenuto sul posto fu chiamato ad adempiere ai propri compiti senza dispersione di energie o sovrapposizione di mansioni.

    I reparti Celere e le questure si occuparono del soccorso pubblico, dell’assistenza dei senzatetto e della vigilanza anti-sciacallaggio degli immobili abbandonati; la Polizia Stradale effettuò le staffette alle colonne dei soccorsi, ripristinò la viabilità gestendola in condizioni strutturali precarie e smistò gli aiuti che provenivano dalle altre regioni. Vi fu la prima collaborazione interforze con la neonata protezione civile gestita dal sottosegretario Giuseppe Zamberletti, nominato commissario del governo per il coordinamento dei soccorsi. Gli ospedali da campo e le tendopoli provvisorie furono gestite dall’Esercito Italiano che si avvalse della collaborazione di enti e associazioni di volontariato che per la prima volta vennero chiamate in prima linea: il decentramento delle competenze sul territorio parve la carta vincente e darà i suoi frutti al momento della ricostruzione dei paesi distrutti.

    Note al testo:

    (1) Infatti per qualsiasi Istituzione militarmente organizzata (si veda l’Arma dei Carabinieri o il Corpo della Guardia di Finanza) è ancora oggi impossibile farsi rappresentare sindacalmente, tantomeno se tali rappresentanze sono composte da soggetti appartenenti all’Istituzione medesima.
    (2) Tra i quali una giovane Guardia di P.S. del 2° Reparto Celere di Padova, Antonio Bellotti, ucciso da una sassata tirata da un dimostrante mentre, a tafferugli finiti, si trovava sul treno che lo avrebbe riportato a Padova assieme ai suoi colleghi (sito internet www.cadutipolizia.it). Un altro poliziotto, il brigadiere Vincenzo Curigliano, muore stroncato da un infarto il 17 settembre 1970 all’interno della Questura di Reggio Calabria assediata da centinaia di manifestanti inferociti.
    (3) Sostituto Commissario della Polizia di Stato L. Spollon – colloquio privato.
    (4) In questi anni, nelle Questure la Squadra Volante è ancora una “costola” della Squadra Mobile e denominata semplicemente “Pronto Intervento”; solo dopo la smilitarizzazione essa diventerà una sezione autonoma, incardinata nell’Ufficio Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico.
    (5) Fino ad allora, nel periodo estivo le guardie vestivano la c.d. “ordinaria estiva” in materiale più leggero, ma consistente sempre di giacca e cravatta; all’inizio degli anni ’70 era stata sperimentata la prima divisa atlantica con camicia a maniche lunghe e cravatta, senza tuttavia miglioramenti apprezzabili.
    (6) Linea telefonica a collegamento immediato ed automatizzato con il semplice sollevamento della cornetta.
    (7) Tale denominazione, che non rivestiva carattere di ufficialità, indicava più genericamente tutte quelle squadre di intervento speciale antiterrorismo che costituivano nel mondo veri e propri corpi d’èlite. La durezza del loro addestramento la loro resistenza, forza e determinazione fece coniare una simile definizione da parte di un generale di polizia tedesco.
    (8) Nel giugno 2003 il N.O.C.S. italiano ha partecipato ad una competizione internazionale tra i vari Corpi d’Elite svoltasi a Sankt Augustin (Germania), ottenendo il secondo piazzamento.
    (9) Tuttora la formazione e l’aggiornamento di tale personale avviene in collaborazione con parallele strutture di Polizia dei Paesi Europei. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il personale artificiere della Polizia di Stato collabora attivamente con analoghe strutture dell’F.B.I. americano.
    (10) Sovrintendente della Polizia di Stato O. Di Cola – colloquio privato.
    (11) “Un vero e proprio programma di organizzazione militare. Così è stata definita la serie di appunti trovati nell’appartamento di via Legnano 32. Prevedono la formazione di squadre, di plotoni, di compagnie, di un comandante. Dotazioni di materiali e di mezzi; bombe, micce, bottiglie incendiarie. Gli obiettivi sono indicati in caserme, centrali telefoniche, scuole, automezzi della Polizia e altri”. (Comunicato ANSA 21 marzo 1972 ore 22:37).
    (12) Luigi Calabresi, 34 anni, Commissario Capo dell’ufficio politico della Questura di Milano, era giunto nel capoluogo lombardo giovane Vice Commissario nel 1965 e si era fatto subito apprezzare come Funzionario molto preparato. Nel 1968 lo vediamo nelle piazze milanesi a contrastare le manifestazioni studentesche. Si specializza in questi anni nell’estremismo extraparlamentare di sinistra, raggiungendo una conoscenza pressoché enciclopedica della materia e dei personaggi che la compongono. Uno degli autori delle indagini sulla strage di piazza Fontana e uno dei Funzionari maggiormente impegnati nel contrasto alla criminalità eversiva milanese. Si ringrazia la redazione del sito www.cadutipolizia.it e del sito www.vittimeterrorismo.itper il materiale fornito.
     
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