POLIZIA NELLA STORIA

Posts written by giacal

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    Categoria: Corpo delle Guardie di P.S. - 1° fondazione
    Anno: fine Ottocento
    Luogo: ignoto
    Oggetto: uno dei tanti conflitti a fuoco tra guardie di P.S. e briganti
    Fonte: Massimo Gay, per gentile concessione
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    Categoria: Corpo delle Guardie di P.S. - 1° fondazione
    Anno: fine Ottocento
    Luogo: ignoto
    Oggetto: uno dei tanti conflitti a fuoco tra guardie di P.S. e briganti
    Fonte: Massimo Gay, per gentile concessione
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    Categoria: Corpo delle Guardie di P.S. - 1° fondazione
    Anno: fine Ottocento
    Luogo: ignoto
    Oggetto: uno dei tanti conflitti a fuoco tra guardie di P.S. e briganti
    Fonte: Massimo Gay, per gentile concessione
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    Categoria: Corpo delle Guardie di P.S. - 1° fondazione
    Anno: fine Ottocento
    Luogo: ignoto
    Oggetto: uno dei tanti conflitti tra briganti e guardie di P.S.
    Fonte: Massimo Gay, per gentile concessione
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    Categoria: Corpo delle Guardie di P.S. - 1° fondazione
    Anno: 1871
    Luogo: --
    Oggetto: il Maggiore di P.S. Domenico Cappa, comandante delle Guardie di P.S. a Torino, Ravenna e Milano
    Fonte: Massimo Gay, per gentile concessione
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    COLPO ALLO STATO
    – La Scorta dell’On. Moro 16 Marzo 1978 –

    di Gianmarco Calore



    Un uomo si alza molto presto. E’ l’alba e un tenue sole sta già illuminando i cieli della capitale. E’ un onesto lavoratore, uno di quelli abituati a sudarsi la pagnotta che si guadagna ogni giorno vendendo fiori all’angolo di una strada. Una famiglia da mantenere, il mutuo, i problemi di ogni giorno.
    Ma quella mattina non andrà al lavoro: quando scende in strada, nota che qualcuno gli ha “sgarrato” tutti e quattro i pneumatici del suo furgoncino. Tra una bestemmia e un pugno sul cofano, capisce che la giornata è persa.

    Nello stesso momento, in un altro punto della città, un altro uomo si è alzato dopo una notte di tranquillo riposo. La moglie gli prepara il caffè come ogni mattina mentre lui, dopo essersi sbarbato, si prepara veloce e meticoloso. Pantaloni marroni, giacca in tinta, camicia bianca e cravatta.
    Dopo avere bevuto il caffè ed essersi acceso la prima delle tante sigarette che punteggeranno la sua lunga giornata, dà un bacio alla moglie ed esce di casa, non senza avere preso il suo fedele borsello. All’interno, una pistola semiautomatica Beretta calibro 9 e i suoi documenti, tra cui un tesserino con la dicitura “Arma dei Carabinieri”.

    Cosa divide questi due uomini così diversi tra loro? Li separa un destino beffardo che al primo farà perdere un appuntamento con la storia mentre al secondo farà perdere la vita.

    Sì, perchè l’uomo del furgoncino aveva un chiosco di fiori all’angolo tra via Fani e via Stresa. Quel giorno, per colpa di un vandalo, non lo aprirà perdendo un sudato guadagno ma guadagnandoci in compenso probabilmente la vita. L’uomo della pistola è invece un servo dello Stato, come tanta parte della gente amava definire in quei tempi chi vestiva un’Uniforme. E’ il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi. Uno tosto, che prima di diventare capo scorta di uno degli esponenti politici più in vista e a rischio del Paese era stato istruttore alla Scuola Sabotatori del centro Militare di Paracadutismo di Viterbo. Cinquantadue anni, torinese, da quindici era passato all’Ufficio Scorte del Ministero, un compito delicato reso ancora più difficile dalla marea montante di un terrorismo “rosso” sempre più violento e spregiudicato.

    Altre persone si alzano di buon’ora, quel 15 marzo 1978. Sono uomini e donne accomunati da un’ideologia che aveva fatto perdere loro i contatti col mondo reale. Si sono preparati per mesi interi con meticolosa e scientifica precisione ripassando fino alla nausea i propri compiti, calcolando al secondo ogni spostamento. La loro sincronia dovrà essere un unico palpito di cuore perchè non possono, non devono fallire una missione che – se portata a buon fine – farà crollare l’Italia nelle loro mani. Hanno armi automatiche, dispongono di auto e targhe diplomatiche fasulle, un paio di loro si vestono da piloti dell’Alitalia mentre altri assumono un aspetto assolutamente anonimo. Dopo un ultimo ossessivo controllo delle mitragliette Skorpion escono dall’appartamento alla spicciolata: ognuno sa dove deve andare e soprattutto cosa dovrà fare.

    Il maresciallo Leonardi raggiunge un’altra abitazione. A lui si sono aggiunti altri militari: il suo collega d’Arma, l’appuntato Domenico Ricci, e tre guardie di Pubblica Sicurezza della Questura di Roma: il brigadiere Francesco Zizzi e le guardie Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. L’abitazione è quella dell’onorevole democristiano Aldo Moro con il quale un po’ alla volta nel corso degli anni sono diventati anche amici. Soprattutto il maresciallo Leonardi, che ne è diventato l’ombra. In un periodo di così alta tensione resterà consegnato alla storia il caso di quel giornalista che un giorno si avvicinò un po’ troppo frettolosamente all’onorevole Moro, trovandosi di fronte un marcantonio d’uomo che con ferma cortesia gli intimò di allontanarsi, non senza avergli fatto intravvedere da sotto la giacca una pistola che gli mirava le budella….
    Sono puntuali, gli Angeli custodi: l’onorevole deve essere a Palazzo Chigi entro le 9, in tempo per partecipare ai lavori di prima mattina del governo.
    Sono giorni di forte tensione politica, esasperata dall’intenzione di Moro di “aprire” ai comunisti di Berlinguer attraverso quello che era già stato battezzato il “compromesso storico”. Veleni, spaccature, alleanze trasversali in un clima politico assai diverso da quello cui siamo abituati oggi, fatto di petulanti e inconcludenti strilloni: la politica di allora si caratterizzava per le frasi al vetriolo, magari appena sussurrate, ma che decretavano la gloria o le ceneri di un intero partito.

    Anche Aldo Moro è puntuale. Dopo quella che in gergo viene definita bonifica ambientale, la personalità viene fatta scendere e accomodare a bordo di una Fiat 130 di colore Blu ministeriale. Con lui, i due Carabinieri mentre un’Alfetta color panna con a bordo i tre poliziotti li segue a breve distanza in copertura. L’onorevole fa quattro chiacchiere con i suoi uomini mentre contemporaneamente getta uno sguardo ai principali quotidiani che, come ogni giorno, gli sono stati fatti trovare in auto. A fianco a lui, la fedele borsa in cuoio color tabacco: al suo interno, molti fogli ciclostilati tra i quali il discorso che dovrà tenere di lì a pochi minuti.
    Il sole è salito nel cielo, si preannuncia una tiepida giornata di inizio primavera. Forse in auto ne hanno anche parlato, sai, quei discorsi magari di circostanza giusto per tenere viva la conversazione e scacciare la paura.

    Solo le 8:52 e la colonna di auto imbocca via Fani. Di fronte alla 130 c’è una 128 bianca con targa diplomatica: a bordo due persone. Magari l’occhio esperto del maresciallo Leonardi la nota, la analizza e decide che non costituisce un pericolo. Il suo sguardo continua a spaziare a 180 gradi come fanno i piloti di aereo, senza cadere nel tranello di fissare un punto trascurando tutto il resto. A pochi metri da via Stresa la 128 improvvisamente “inchioda”: l’appuntato Ricci, colto alla sprovvista, istintivamente frena e sterza alla sua destra nel tentativo di evitare l’improvviso ostacolo: tentativo vano perchè la pesante vettura tampona l’utilitaria. Anche i poliziotti, colti di sorpresa, tamponano con l’Alfetta la macchina dei colleghi, mentre alle loro spalle un’altra 128 con tre persone a bordo si mette di traverso. La trappola è scattata improvvisa e inesorabile. I colleghi non fanno a tempo a realizzare l’accaduto, che da alcune fioriere posizionate a lato strada alla loro sinistra sbucano altri tre individui vestiti da piloti dell’Alitalia.

    E scoppia l’inferno. Alla fine si conteranno 91 bossoli di mitraglietta. Le auto di servizio vengono letteralmente crivellate di proiettili: il maresciallo Leonardi, capita l’inutilità di ogni reazione, si getta sull’onorevole Moro nel tentativo estremo di proteggerlo. L’appuntato Ricci riceve tre colpi alla testa che lo inchiodano al posto di guida. Agli occupanti dell’Alfetta va ancora peggio: l’unico che riesce a rispondere al fuoco e Raffaele Iozzino, che però viene abbattuto a pochi passi dall’auto. Giulio Rivera muore sul colpo; Francesco Zizzi sopravviverà solo per qualche ora, il tempo di un inutile ricovero all’ospedale.

    Dopo la carneficina, ecco gli avvoltoi: un terzo commando preleva l’onorevole Moro e lo carica a bordo di una macchina che nel frattempo a marcia indietro si è affiancata da via Stresa. Fatto il carico, l’auto “sgomma” veloce e lontana. L’inferno è durato appena tre minuti. Un blitz di chiaro stampo militare che fa piombare le Istituzioni in un nero baratro di terrore.

    Poi ci sono le immagini. Quelle le abbiamo viste tutti e ce le ricordiamo, anch’io che all’epoca ero un ragazzino di appena 6 anni. Più delle immagini potè Paolo Frajese, giunto con un cineoperatore quasi in contemporanea alle Forze dell’Ordine: una telecronaca disperata che trasmise agli spettatori tutto l’orrore vissuto dal giornalista che, di fronte al corpo di Iozzino, scoppiò addirittura a piangere.

    Iniziò quindi il periodo più buio della nostra Repubblica. Polemiche e veleni cominciarono a scorrere con i corpi degli Agenti ancora caldi.
    Scarichi di responsabilità, informazioni non passate da un Organismo ad un altro, indagini depistate. Come quell’informativa che riguardava il brigatista Moretti e che fu trasmessa dall’Ucigos alla Digos romana con un mese di ritardo. Informativa che, se fosse stata analizzata subito, forse magari…. Il caso Moro divenne l’”affaire Moro”, a significare che sotto vi era una inestricabile ragnatela di connivenze e depistaggi che dall’ambiente politico scesero via via fino a quello operativo. Uno dei componenti della commissione che analizzò il fatto ad anni di distanza scrisse: “Il massimo dell’esplosione terroristica coincise con il minimo livello di attività degli organi informativi di sicurezza”. Cioè a dire: nessuno si mise a lavorare sul serio. Nulla poterono neppure i disperati appelli del Papa.

    Ma questa è storia politica che a noi francamente non interessa. Sono stati scritte decine di libri, basta avere la pazienza di leggerli.

    Qui interessa ricordare cinque Colleghi assassinati nel nome di un ideale rivoluzionario assolutamente inconcepibile, con le Brigate Rosse che stavano iniziando a perdere terreno anche tra i loro stessi appartenenti. Alcuni critici storici ebbero a sottolineare come fu proprio l’”affaire Moro” a dare la prima vigorosa spallata al sistema terroristico.

    Oggi, a distanza di tanti anni da quella mattina, c’è una nuova generazione che non ha respirato quel clima e che magari si stupisce di tanta violenza. O che magari di fronte ad essa rimane indifferente. Questo non deve succedere.
    Sarebbe come uccidere ancora queste sei persone e tutti quelli che come loro hanno sacrificato la loro vita in nome di un’Italia migliore.

    A tutti loro va il nostro grazie e il nostro affettuoso ricordo.

    Per la redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore

    Edited by giacal - 16/3/2024, 13:05
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    CITAZIONE (Storia66k6fm @ 11/1/2024, 09:08) 
    CITAZIONE (POLIZIA NELLA STORIA @ 7/1/2024, 14:50) 
    No, è quello della Promopolice. Ci scrive anche Luigi Menna e Catalano.

    ascolta quello non è il calendario storico della polizia di stato. L editore è in causa con il ministro e il verdetto è già stato emesso

    per cortesia non confondermi con quella dinamica. Sono un appartenente alla PS e tutto ciò che è commercio non mi tange

    Queste sono polemiche inutili e capziose che A ME non tangono.
    La domanda è una sola: si riesce a sapere se questa guardia regia è un Caduto per servizio?
    Se sì, puoi rispondere. Se no, evitiamo polemiche dalle quali ti invito ad astenerti.
    Oltretutto sei registrato con due account diversi, che non è ammesso, per cui questo account ti viene eliminato. Potrai scrivere con l'altro, anche per una questione di correttezza nei confronti di chi legge.
    Grazie.
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    Storia66k6fm
    Non è ammessa la registrazione con più account riferiti allo stesso utente e nemmeno il multiposting.
    Gli account doppi verranno eliminati.
    Grazie.
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    CITAZIONE (CarloCaliciotti @ 23/11/2023, 09:03) 
    Mi hai commosso! Sarà l'età. Per me è stato tutto più facile. I miei zii, fratelli di mio padre e mia madre, mi svegliavano il giorno della befana, in divisa con i loro regali, poi tornava mio padre, sempre in divisa, dal lavoro con il "sacco della befana con l'immancabile trenino! Un abbraccio.

    Ciao Carlo! Erano tempi dove sotto certi aspetti c'era probabilmente un senso di appartenenza molto diverso rispetto a oggi. La "Befana del Poliziotto" era un momento aggregativo che coinvolgeva le famiglie, troppo spesso private della presenza del padre e marito sempre impegnato per servizio; quasi un risarcimento morale a queste assenze che pesavano e che facevano stare in ansia i familiari, soprattutto in tempi in cui era molto facile non tornare più a casa...
    Un abbraccio anche a te!
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    Intervista tratta dalla pagina SPAZIO70 che ringraziamo per la concessione.

    La Sicilia violenta degli anni Settanta raccontata da un "falco" della Polizia
    di Giacomo Di Stefano



    Pino Vono: «I metodi duri? Rifarei tutto quello che ho fatto, senza nessun ripensamento, anche se oggi non lo avremmo potuto più fare perché saremmo finiti tutti sotto processo»

    Negli anni Settanta si iniziarono a vedere nelle città italiane - soprattutto del Sud - poliziotti molto particolari. Non avevano la divisa e spesso nemmeno l'impeccabile aplomb poliziesco di Maurizio Merli. Vestiti in abiti civili, alcuni giovanissimi, erano sempre in moto e non di rado avevano le sembianze di quei criminali che andavano ad arrestare. Ma si trattava di uomini al servizio dello Stato, destinati alla lotta contro i crimini di strada. Erano i ragazzi delle squadre antiscippo - anche chiamati "falchi" - uomini descritti dal cinema come coraggiosi al limite del brutale, dai metodi poco ortodossi e temuti dagli stessi criminali.

    Per sfatare alcuni falsi miti e le caricature cinematografiche, Spazio70 ha cercato di tratteggiare un ritratto del tipico "falco" che operava nel sud degli anni Settanta attraverso chi - un "falco" - lo è stato davvero. Parliamo di Pino Vono, poliziotto calabrese classe 1953, dal 1973 al 1993 uno dei "falchi" più noti di Catania. E' autore di un libro, "I Falchi nella Catania fuorilegge", purtroppo ormai introvabile, in cui racconta i fatti più significativi del proprio lavoro. A quel libro ne seguirà un altro, in uscita tra il 2021 e il 2022.

    Chi era dal punto di vista sociale e umano il tipico "falco" degli anni Settanta? Un giovane del Sud in cerca di riscatto sociale?
    "Era un periodo in cui tanti giovani erano in cerca di una sistemazione. Il mio caso è un po' differente, visto che i miei genitori si erano trasferiti dalla Calabria alla provincia di Varese e la mia prima occupazione, a 16 anni, fu quella di operaio in fabbrica. La scelta di arruolarmi non è stata economica, visto che in fabbrica guadagnavo 100mila lire in più".

    Allora da cosa fu motivata quella scelta?
    "Non una passione per la Polizia in sè, ma per la maggiore libertà che avrei avuto con quel lavoro. Come tanti ragazzi, sono arrivato a fare il poliziotto intorno ai 18-19 anni e umanamente siamo cresciuti assieme alla nostra professione, dal reparto mobile, alla volante, alla squadra mobile fino ai "falchi". Quindi c'era l'adrenalina, la moto ed era un lavoro dinamico. Poi, progressivamente, ci siamo accorti delle difficoltà e dei rischi di questo lavoro, dove non avevamo a che fare solo con il ladruncolo, ma anche con omicidi e con criminali di grosso calibro. Pensi che in varie occasioni abbiamo salvato alcuni criminali dal colpo di grazia che stava per essergli inflitto dai suoi killer".

    Com'era il tessuto sociale e criminale della Catania degli anni Settanta e Ottanta?
    "Nel dopoguerra Catania era una città ricca, con un incremento industriale significativo e tanti posti di lavoro. Era considerata la Milano del Sud. Negli anni Settanta gli omicidi e le faide fecero emigrare tanti cittadini e iniziò ad avere le sembianze di una Chicago del Sud. Dai piccoli accoltellamenti e dalle gambizzazioni si passò agli omicidi e alle rivolte in carcere. Contavamo tra i settanta e i cento omicidi all'anno".

    Lei è calabrese ed era operativo a Catania. Quant'era importante all'epoca non far parte della gioventù catanese per fare meglio il proprio lavoro?
    "Questa domanda mi fa tornare alla mente l'impostazione del nostro gruppo. All'epoca era guidata da una persona molto valida, il capitao Valerio Donnini, che aveva dato una regola chiara: nessun catanese in squadra. Non c'era nessuna discriminazione, ma solo la convinzione che coinvolgere persone senza un legame con il territorio fosse la cosa migliore. Dopo un po' di anni sono iniziati a entrare un po' di catanesi, e lì qualche macello c'è stato".

    Esisteva un problema di infiltrazione criminale all'interno dei falchi negli anni in cui lei è stato operativo?
    "Le infiltrazioni ci sono state, inutile negarlo. Quella mia sui catanesi era solo una battuta, purtroppo diversi ragazzi si sono avvicinati alla criminalità e per noi è stato un colpo duro. Quello che all'inizio è sembrato un gioco, poi si è trasformato in un lavoro molto duro. Molti colleghi hanno pagato questo clima pesante subendo attentati da parte della malavita, altri hanno avuto problemi giudiziari per i propri metodi di lavoro".

    Ci sono dei metodi particolarmente duri che lei ha disapprovato?
    "Io rifarei tutto quello che ho fatto, senza alcun ripensamento, anche se oggi non lo avremmo più potuto fare perchè saremmo finiti tutti sotto processo. Bisogna sempre capire quello che avevamo di fronte e come la malavita si comportava nei nostri riguardi. Pensi che quando arrivai a Catania, nel 1973, in zone come Picanello o San Cristoforo non si poteva entrare. Quando entrava una volante, spesso veniva aggredita, si figuri cosa poteva accadere se due ragazzi sbarbatelli e in motocicletta fermavano un personaggio di un certo spessore. Nel tempo, con i metodi poco ortodossi, siamo riusciti a farci rispettare maggiormente".

    Qualche episodio significativo?
    "Entravi in un bar con l'intenzione di prendere un caffè e la gente tirava fuori il documento".

    Quindi si era creata a Catania una sorta di "psicosi da Falco", chiamiamola così. Ovvero cittadini comuni scambiati per falchi?
    "Lo scambio era costante ed erano considerati falchi anche poliziotti o carabinieri in borghese, che falchi non erano. Il vero pericolo era non riuscire a individuare un carabiniere in borghese ed è successo qualche malinteso al limite del dramma. Diciamo solo che qualche colpo di pistola è partito, per fortuna senza conseguenze tragiche".

    Lei ha dichiarato che chi amministrava la Polizia a Catania negli anni Settanta non raccontava ai sottoposti la reale presenza della mafia in città.
    "Non ho mai fatto difficoltà ad ammetterlo, anche perchè a parlare è la storia. Fino al 1982, quando il generale Dalla Chiesa iniziò a fare connessioni tra il mondo palermitano e quello catanese, nessuno parlava di mafia a Catania: nè le istituzioni, nè la politica o la magistratura. Di fronte a cento morti si continuava a parlare di criminalità comune. Noi falchi abbiamo dovuto apprendere alcune dinamiche per contrastare la mafia da soli, sulla strada e purtroppo in grave ritardo".

    Come mai?
    "Evidentemente era una situazione che faceva comodo a molti".

    Voi non ve ne eravate accorti autonomamente, essendo operativi sul campo ogni giorno?
    "Certo, ma non dimentichi quello che le ho detto. Solo crescendo, maturando da soli, abbiamo avuto il polso della situazione. Il problema è che come crescevamo noi aumentavano le proporzioni del nemico da combattere. A me non impedivano di richiedere un'intercettazione, il problema è che spessi la corruzione arrivava prima dell'ascolto telefonico. Sulla strada non ho avuto alcun impedimento, sul piano delle indagini, soprattutto su quelle di un certo livello, il discorso era differente".

    Qual'è l'operazione più rischiosa cui ha partecipato?
    "A una domanda del genere ho difficoltà a rispondere. Anche fermare un semplice rapinatore è stato complesso e rischioso. Una volta eravamo in quattro e ci siamo trovati davanti tredici rapinatori. Dopo una sparatoria ne abbiamo presi sei, per dire. Per non parlare degli inseguimenti in moto, in cui si rischiavano continui incidenti pericolosi, vista la velocità cui si andava".

    Ci sono dei miti da sfatare sui falchi? Per esempio il cinema - penso a Tomas Milian - vi ha dato popolarità o ha finito per creare uno stereotipo che sul lungo periodo vi ha danneggiato?
    "Non credo che il cinema ci abbia danneggiato. Certo, il personaggio di Tomas Milian era una macchietta ma una rappresentazione cinematografica di per sè non ha creato un danno".

    In base alla sua esperienza conferma che il vero boss mafioso è prudente e non si espone mentre il giovane criminale è più esuberante e si espone maggiormente a un eventuale arresto?
    "Dipende. Ho conosciuto figure di spessore come Laudano, gente di un certo livello che si sapeva comportare, ma ogni situazione è a sè. Ho conosciuto criminali venticinquenni eleganti e a modo, mentre ho arrestato mafiosi anziani arroganti e poco intelligenti".

    Un esempio?
    "Il fratello di Nitto Santapaola. Aveva oltre sessant'anni e di fronte a suo figlio piccolo si atteggiava come fosse un mafiosetto da quattro soldi, non un uomo d'onore".

    La redazione di Polizianellastoria ringrazia sentitamente la redazione di Spazio70 per la concessione del materiale.
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    Categoria: Armamenti particolari
    Anno: 1947
    Luogo: Roma
    Oggetto: primo piano di un autocarro, probabilmente un Dodge, armato con una coppia di mitragliatrici Breda 37. Le tre guardie appartengono alla Compagnia Autoblindo del Reparto Celere, distinguibile sia dalla tipologia del casco che dal fregio riportato sull'uniforme.
    Fonte: collezione privata Sante Pedrini, per gentile concessione.

    Edited by POLIZIA NELLA STORIA - 13/11/2023, 17:30
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    Chi ha avuto la pazienza di seguire le nostre vicissitudini storiche non ha potuto non notare come l'evoluzione della Polizia italiana sia stata tra le più caotiche e forse tra le più irrazionali rispetto ad altre Forze di Polizia omologhe: abbiamo attraversato ben 6 cambi di denominazione, seppur per brevissimo tempo siamo stati perfino disciolti nel nostro "braccio armato", dal novembre 1943 all'aprile 1945 abbiamo convissuto con una "nuova" forza di polizia nella quale molti colleghi si trovarono proiettati dalla sera al mattino, abbiamo avuto due fasi di militarizzazione palese più altre tre di militarizzazione strisciante (in cui però gli aspetti di vita e disciplina militare furono portati all'esasperazione), infine - storia recente - fummo smilitarizzati.

    Personalmente se dovessi tracciare un grafico di questo spaccato lo vedrei comunque in ascesa. Lenta ma costante.
    I regolamenti del Corpo furono adeguati più o meno alacremente alla sua evoluzione, salvo un momento di "stagnazione" che va dal 1945 al 1981, periodo in cui il regolamento militare dimostrò il suo sempre maggiore scollamento dalla realtà quotidiana, sia sotto l'aspetto disciplinare che sotto quello della vita quotidiana degli appartenenti al Corpo delle Guardie di P.S..

    Questo scollamento sfociò nella tanto auspicata riforma della L. 121/81 che, sebbene applicata ad oggi solo in parte, ha portato un vento di novità che agli esordi assunse forza di vero uragano. Via la dicotomia funzionari civili / ufficiali, in soffitta stellette, sciarpe azzurre (salvo loro successivo ripristino....), abolizione dei titoli nobiliari (l'ufficiale era N.H., nobil homo), assorbimento della Polizia Femminile nella moderna Polizia di Stato, e questo solo per citare alcuni aspetti tra i principali.

    E sempre chi ha avuto la pazienza di osservare le nostre vicissitudini storiche non ha potuto fare a meno di notare che dalla riforma del 1981 si è sviluppato nel nostro Corpo un morbo silente, strisciante, perciò ancor più pericoloso: la progressiva avversione per l'uso dell'Uniforme e per ciò che è stato l'aspetto più "militare" della Polizia. Certo, per notarne i sintomi ci è voluto almeno un cambio generazionale, vale a dire l'uscita di scena per pensionamento o altro degli ex Ufficiali che, obtorto collo o no, dovettero accettare il transito in una "amministrazione civile a ordinamento speciale". I "duri e puri" delle stellette continuarono a essere estremamente inflessibili anche dopo l'approvazione del nuovo regolamento di disciplina (DPR 737/81) continuando a comportarsi con la medesima intransigenza di prima, sfruttando la debolezza del neonato movimento sindacale con il quale le prime interlocuzioni continuavano ad avvenire su un piano di assoluta disparità (altro che moderni tavoli di verifica e confronto semestrale!!). Ma il "nuovo" stava avanzando, giovani funzionari stavano approdando come Vice Commissari, già intrisi dei mores novii e affascinati da una nuova Polizia, dinamica e intraprendente.

    Come ho scritto, ci volle tempo, ma - sempre per non abbandonare Cicerone - gutta cavat lapidem: la goccia scava la roccia.
    Arriviamo così alla fine degli anni Novanta quando nei vari Uffici di polizia (fatte salve le specialità, Stradale in testa, sempre molto legate alle tradizioni) sempre più spesso le uniformi cominciarono a restare appese negli armadietti. All'inizio fu una tantum, magari solo durante i rientri pomeridiani, poi questo malvezzo iniziò ad allargarsi, spesso tollerato da coloro i quali avrebbero invece avuto il dovere regolamentare di far rispettare l'uso dell'Uniforme di servizio ma che in realtà erano i primi a lasciarla volentieri in naftalina.

    Ci si mise di mezzo il sempre maggiore deficit nella fornitura dei capi di abbigliamento, che divenne la più pervicace giustificazione al vestire gli abiti borghesi. Giustificazione suffragata in molti casi da alcune organizzazioni sindacali che fecero passare l'idea di una liceità di tale comportamento, evitando di trovare una soluzione al problema. D'altro canto, gli stessi funzionari e dirigenti, per timore di vertenze per comportamenti antisindacali, si guardarono bene dal mettere le cose in chiaro con decisioni anche severe o impopolari. Si arrivò così agli anni Duemila, quando a entrare in certi uffici non capivi se ti trovavi in strutture di Polizia oppure - col massimo rispetto per questi - in uffici comunali.

    Sì, certo, ogni tanto arrivava dal sup.min.int la circolare che richiamava anche in toni perentori l'attenzione dei questori all'uso corretto dell'Uniforme, minacciando strali, pestilenze e carestie in caso di inadempimento. Ma era come un temporale estivo che, una volta passato, lasciava dietro di sè più caldo di prima. E siccome l'italiano è una lingua bellissima, dove ogni parola ha un suo preciso significato, non ho mai potuto fare a meno di cogliere la contraddizione in termini del titolo di tali circolari, in particolare sull'accostamento del sostantivo USO all'aggettivo CORRETTO.
    L'Uniforme va indossata correttamente, perchè, forse c'è un altro modo?
    Poi però, guardandomi attorno, non ho potuto fare a meno di notare che moltissimi colleghi avevano ridotto l'Uniforme a una sorta di "albero di Natale", attaccandoci di tutto e dimenticandosi che ciò che va fissato sulla giacca deve essere stato A) autorizzato, B) trascritto sul proprio foglio matricolare e C) esposto secondo precise regole. Anche in questo caso, chi ha il dovere istituzionale di intervenire e fare rispettare questo aspetto (che non è di mera esteriorità) si guarda in genere bene dal farlo per evitare noie con i sindacati o per entrare in quella "guerra fra poveri" nella quale sembra talvolta che l'ordine gerarchico sia sovvertito.

    A mettere le cose a posto ci pensò il Capo della Polizia Gabrielli il quale impose una sonora inversione di rotta a partire proprio da quei funzionari o dirigenti che, soprattutto negli incontri con la stampa, apparivano sempre in borghese e che da quel momento furono costretti a indossare l'Uniforme. Ma fu tutto. Negli uffici si continuò - e si continua ancora adesso - a tollerare l'uso dell'abito civile. Ogni tanto un questore dà la sua strigliata, ma dopo qualche settimana le cose tornano a essere in genere quelle che erano prima.

    Arriviamo così al 2018 e alla decisione di cambiare i distintivi di qualifica della Polizia di Stato.
    Bisogna premettere che una tale decisione era stata paventata già all'alba della smilitarizzazione quando furono proposte alcune bozze di restyling rimaste tuttavia inattuate. Si continuò quindi con i vecchi gradi che, soprattutto per il ruolo dirigenti e funzionari, continuarono a ricalcare quelli ante-riforma.
    Sui gusti non si discute, ognuno è libero di pensarla come crede. Tuttavia il mantenimento dei vecchi distintivi di qualifica aveva un ritorno di immagine immediato con l'utenza: il cittadino sapeva con chi stava parlando. Questi gradi erano entrati così in profondità nel subconscio della popolazione, che ogni persona sapeva subito se si trovava di fronte a un graduato, a un sottufficiale o a un funzionario. Magari non sapeva il nome corretto della sua qualifica, ma sapeva subito se chi aveva davanti era un agente scelto, un "brigadiere", un "maresciallo" o qualcosa di più.

    La decisione di un cambio radicale dei distintivi di qualifica, entrata in vigore ufficialmente con il turno 7-13 del 14 luglio 2018 preceduta da una serie di circolari applicative del cui contenuto non se ne è più visto altro di maggiormente perentorio, inizia il suo percorso appena un anno prima con l'istituzione di una commissione di "grandi saggi" per lo studio dell'araldica. Se si pensa ai tempi generalmente elefantiaci della pubblica amministrazione in generale, il fatto che si sia arrivati all'adozione operativa dei nuovi distintivi di qualifica in poco più di un anno e mezzo la dice lunga sull'urgenza percepita dai vertici....
    Il nuovo restyling vide l'introduzione del "plinto" al posto dei "baffi" rossi per il ruolo Assistenti-Agenti, del "rombo" al posto dei "binari" per il ruolo Sovrintendenti, delle "formelle" al posto delle stellette per il ruolo dei Funzionari. Solo gli Ispettori continuarono a mantenere il "pentagono", già peraltro adottato all'indomani della creazione di questo nuovo ruolo nel 1983. Venne rivisitato lo stesso stemma araldico e l'Aquila, ora dotata del "bastone di comando" per le qualifiche da Ispettore Superiore in su. Per i funzionari fino a Primo Dirigente le "torri" sono state sostituite dall'Aquila turrita contornata da una mezzaluna mentre per i Dirigenti Superiori e Generali tale Aquila - stavolta su doppio binario - sostituisce la vecchia "greca".

    Il percorso istitutivo non fu privo di polemica, a partire dai costi. Un cambio radicale di tutta la buffetteria per circa 98mila operatori ebbe un costo di circa 5 milioni di euro. I sindacati eccepirono più volte la non opportunità di un simile esborso, soprattutto in relazione alle contingenze legate al mancato rinnovo del contratto di lavoro, all'inadeguatezza delle tariffe per le varie indennità (rimaste a quelle della fine degli anni Novanta), al deficit nelle forniture di vestiario e materiale di casermaggio che costringe tuttora molti colleghi a sborsare di tasca propria per comprare un'Uniforme decente.
    La seconda polemica scaturì dalla visione delle prime bozze dei nuovi distintivi di qualifica: la completa irriconoscibilità dei gradi tra lo stesso personale, figuriamoci poi tra i cittadini!! Difficoltà di riconoscimento ancora più accentuata con l'uso della divisa operativa dove i distintivi di qualifica sono più piccoli rispetto all'ordinaria e che, soprattutto in un teatro di ordine pubblico, avrebbe portato a non riconoscere un caposquadra da un funzionario o da un semplice operatore.

    Non servì a nulla. Le polemiche rimasero sul tavolo di contrattazione, tutte rimbalzate con sdegno al mittente quasi che la priorità davvero sentita dal vertice fosse solo quella di dare un taglio di forbice con il passato. Ma la saggezza popolare dice che la gatta frettolosa partorisce gattini ciechi. E così è stato. Tralasciando volutamente il discorso sulla spesa (che sarebbe già stato ABNORME in un periodo di vacche grasse) tutte le più infauste previsioni circa la confusione sul riconoscimento del "chi è cosa" si sono avverate creando situazioni surreali, grottesche e - arrivo a dire - vergognose. Come quel dirigente superiore di Polizia (e parliamo quindi di un generale "a una botta", per chi mastica linguaggio militare) che, durante una cerimonia istituzionale di primo livello, fu avvicinato dalla consorte di un prefetto che candidamente gli chiese: "Scusi, ma lei chi è?". O come quella pattuglia della Stradale composta da due Assistenti Capo impegnati in un posto di controllo che, nell'incrociare alcuni militari dell'Esercito che si erano fermati poco lontani, furono salutati alla visiera con tanto di tacchi sbattuti e di ordinativo dato da un caporale: i tre "plinti" rossi li avevano fatti scambiare per marescialli aiutanti......

    Ora - è notizia di questi giorni, ottobre 2023 - il nuovo Capo della Polizia prefetto Vittorio Pisani su sollecitazione delle OO.SS. che hanno raccolto tantissime lamentele in senso trasversale a tutta la Polizia, pare si stia muovendo per mettere mano a tale situazione. Si paventa addirittura un "ritorno al passato" con il ripristino dei distintivi di qualifica ante-luglio 2018 (che nel frattempo quasi tutti i magazzini hanno già smaltito...).

    Si prospetta dunque un nuovo stanziamento di danari in un periodo - quello attuale - dove le vacche non sono soltanto magre, ma addirittura emaciate, alcune addirittura in agonia.

    Lascio a voi, cari lettori, le considerazioni del caso. Da parte mia dico solo che se una cosa del genere fosse avvenuta nel privato, molti vertici avrebbero dovuto trovarsi un altro lavoro, sbattuti in strada "all'americana", con in mano solo uno scatolone di cartone con la cancelleria, la foto della famiglia e la onnipresente pianta di fico....
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    Fonte: "Giornale del Veneto" del 8 aprile 1951.

    "Colombe dal desìo chiamate"....
    Bellissimo il termine "sorpresa" riferito all'attività investigativa della Questura!
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    Categoria: Armamenti particolari
    Anno: 1917
    Oggetto: raro revolver Tettoni cal. 10,35. L'arma nasceva priva di matricola. Molte di quelle matricolate erano munite di matricola appositamente apposta per essere sanate. Nulla toglie però, a questo punto, che se in dotazione alla PS possa essere stata matricolata all'epoca.
    Fonte: Antonello Ciotoli
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    Particolare della marcatura delle Bodeo d'ordinanza per la Pubblica Sicurezza.
    Credits: Doriano Baiz
424 replies since 17/11/2019
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